di Paola Medde
Oggi dell’Eldorado sardo sono rimasti una collina sventrata e un lago di cianuro. Più quarantuno minatori in mobilità e oltre quattro milioni e mezzo di euro messi sul piatto dalla Regione per tamponare il disastro ambientale. Che non basteranno: secondo le previsioni ne serviranno almeno trenta, di milioni, per evitare che l’acqua contaminata finisca nelle falde del Campidano. L’allarme è già scattato circa un anno fa, quando una pompa di rilancio si era bloccata e sono stati proprio gli operai in cassa integrazione – che da volontari hanno continuato a vegliare la miniera – ad intervenire per evitare che la diga tracimasse, avvelenando i campi. Loro soli, perché i manager della società mineraria, primi gli australiani della Sardinia Gold Mining, poi i canadesi della Buffalo Gold, erano fuggiti a gambe levate dichiarando fallimento e lasciando in eredità all’ isola una bomba a orologeria difficile da disinnescare. Ma quella della miniera di Santu Miali, a Furtei, non è la storia di un Klondike abortito. È la cronaca di una morte annunciata che vede comparire, insieme ad anonime sigle di investitori stranieri, anche nomi di primo piano della politica locale. Come Ugo Cappellacci, che fra il 2001 e il 2003, quando era ancora un semplice commercialista cagliaritano, fu nominato presidente della Sardinia Gold Mining, la società per azioni concessionaria della miniera. O Giampiero Pinna, ex Ds passato ai Verdi, che da presidente della Progemisa, il braccio operativo dell’Ente Minerario Sardo, sostenne con entusiasmo il miraggio aureo in Sardegna. E’ la storia di uno sfregio paesaggistico, di una rapina ambientale e di una speculazione sapientemente architettata in cui sono cascati in molti ed in pochi, invece, hanno fatto affari. A rivelarlo è Giuseppe Pipino, geologo a cui sul finire degli anni Ottanta l’Agip miniere chiese di effettuare uno studio per verificare se in Sardegna fosse presente l’oro. «Io indicai che sì, l’oro c’era, ma in quantità così scarsa da risultare un investimento antieconomico». Perché allora si procedette comunque con l’estrazione? «Per speculazione – spiega Pipino –. Funziona così: la società mineraria lancia la notizia di aver scoperto un giacimento redditizio, si quota in borsa ed attira i capitali dei piccoli, ingenui investitori: nel caso di Santu Miali, abboccarono molti emigrati sardi in Australia. In realtà i ricavi andavano a coprire nient’ altro che i lauti stipendi dei manager, più le spese di gestione, con una buona iniezione di soldi pubblici». Soldi arrivati principalmente tramite la legge 221 del 90, finalizzata a sostenere lo start up nelle regioni in difficoltà economica (dalla relazione annuale del 2000 della Sgm risultano 7,6 miliardi di vecchie lire) e tramite la 752 del 1982, per promuovere la ricerca dell’ oro a Furtei (2,9 miliardi di lire) e a Osilo (2,5 miliardi), dove il progetto non passerà anche per il successivo veto della giunta Soru. Tutto legale, intendiamoci. «Ma affari veri non ne sono stati fatti – spiega Pipino – era una macchina che alimentava se stessa». Per essere redditizia, la coltivazione dell’oro sarebbe dovuta durare due o al massimo tre anni: «I piani iniziali – conferma l’ex direttore dei lavori Sandro Broi – prevedevano 42 mesi di lavoro». Oltre, l’operazione diventava eccessivamente costosa. Ma allungare i tempi, secondo il geologo permetteva di continuare a fare speculazione in borsa. Infatti il gruppo australiano aveva nel frattempo tentato di rastrellare soldi sulla piazza di Londra, senza successo, per poi approdare a quella di Vancouver, in Canada, intossicata da centinaia di piccole società minerarie che promettono nuovi Klondike. E quando il vero giacimento – i soldi pubblici – si è esaurito, i cercatori d’oro stranieri hanno abbandonato Santu Miali. Il ripristino del territorio, 510 ettari fra Furtei, Serrenti e Segariu, di cui 75 seriamente compromessi, è rimasto a carico dell’unico azionista che non poteva fuggire all’estero: la Regione Sardegna. Con solo il 10 per cento delle quote, l’ente pubblico è oggi l’unico sopravvissuto alla partita che si dovrà accollare gli oneri della bonifica. «In oltre dieci anni di attività della miniera, che ha partorito il suo primo lingotto nel ’97, sono state estratte sei tonnellate e mezzo di oro, 22 mila tonnellate di rame e 6.000 chili d’argento» fa il conto Broi. In compenso, sono stati erosi almeno due milioni di tonnellate di roccia, macinata, passata nel cianuro e trattata con lo zinco per ottenere il precipitato d’oro. Gli sterili, ovvero i materiali che non contenevano preziosi, sono stati venduti alle aziende impegnate nel nuovo tracciato della statale 131. Con il sospetto che anche l’arsenico sia finito nell’asfalto. La società australiana ha così ottenuto il diritto a sventrare una montagna e realizzare un invaso al cianuro guadagnandoci sopra almeno 10 milioni di euro e versando, di contro, alla Regione Sardegna la simbolica cifra di 20.000 euro annui e neanche un soldo ai Comuni della zona, quelli che stanno vivendo sulla propria pelle i costi ambientali dell’operazione. Peccato che a pagare la bonifica, ora che gli investitori stranieri si sono volatilizzati, saranno i contribuenti sardi: dal palazzo di via Roma sono già stati stanziati 4 milioni e mezzo, con cui l’Igea (Interventi geoambientali), società in house della Regione, ha messo in piedi il piano di caratterizzazione, approvato pochi giorni fa dall’Assessorato all’Ambiente. Quanto ai minatori, passati dai settanta degli anni d’oro ai quarantuno attuali, hanno dovuto condurre una piccola, epica battaglia insieme alle istituzioni locali per far sì che la loro storia e quella di Santu Miali non fossero dimenticati: «Abbiamo occupato la Regione e presidiato la miniera per oltre due mesi» racconta Emanuele Madeddu, rappresentante rsu, una delle anime della lotta operaia. Ora, dopo aver concluso i corsi di riqualificazione, saranno loro a doversi occupare della bonifica, sotterrando il sogno del Klondike sardo.