di Pier Giorgio Pinna
Occhi carichi di speranza, occhi che implorano, occhi che non ti lasciano mai. Dopo la catastrofe di Chernobyl quegli sguardi dei bambini bielorussi e ucraini, con la loro sola drammatica intensità, sono bastati a costruire un ponte di aiuti tra la Sardegna e l’Europa dell’est. «Chi non è stato laggiù non può capire», raccontano i volontari che nel tempo si sono adoperati per accoglierli qui. «Volti disperati: li scorgi una volta, non ti abbandonano più», spiegano ancora le sentinelle di quest’esercito che nell’isola ha tradotto la solidarietà in fatti concreti. Sono le stesse persone che hanno assistito con sgomento al nuovo disastro nucleare in Giappone e che guardano al referendum regionale contro l’atomo come a un’occasione da non perdere per evitare altre tragedie. Trama de amistade. Un forte tessuto di amicizia tra popoli lontani. Ha consentito a molti piccoli nati nei due Paesi dopo la fuga radioattiva di «decontaminarsi», almeno per qualche mese, dai veleni che a distanza di un quarto di secolo Chernobyl continua a generare. Dal 1987, l’anno successivo all’apocalisse nell’ex Urss, sono sbarcati nell’isola oltre ventimila bambini e ragazzi, provenienti perlopiù dalle aree ai confini tra l’Ucraina e la Bieolorussia. Circa un migliaio è previsto che vengano anche quest’estate. E che anzi possano ritornare per Natale, dato che le autorità di Minsk per la prima volta hanno fatto lievitare la durata dei soggiorni in Italia da tre a quattro i mesi. Parecchie le organizzazioni che nel tempo si sono fatte carico di questi drammi. Fra le altre, Dom Italii (in lingua russa, Casa Italia) e Bielo Ichnos, a Sassari. In quasi tutta l’isola, Sardegna Belaruss con la sua «costola» Cittadini del mondo. L’Agio dei giovani internazionali di Olbia. Gianni Pirina onlus di Oristano (da breve tempo non più operativa). Un altro centro a Terralba e, per i soli ragazzi dell’Ucraina, Raggi di sole ad Alghero. È un drappello di angeli della salute che lavora a stretto contatto con il Comitato per i minori del ministero italiano per le Politiche sociali e con i referenti per questo genere di problemi a Minsk e a Kiev. Numerosissime le comunità disponibili all’accoglienza. In tutto, una settantina di paesi e città. Oltre ai capoluoghi delle otto province, spiccano, tra i tanti, Carloforte, Villacidro, Villasimius, Domusnovas, Sarroch, Silanus, Santa Giusta, Cabras, Solarussa, Siamaggiore, Aidomaggiore, Norbello, Busachi, Atzara, Ardauli, Orosei, Ilbono.
«Certi passi nascono da disponibilità individuali, ma è meglio agire nella riservatezza», spiega da Abbasanta l’architetto Gianni Caggiari, 62 anni. Lui, proprio per discrezione, preferisce non ricordarlo: ma è stato uno dei primi sardi a mobilitarsi nella gara di solidarietà per arginare le conseguenze del disastro di Chernobyl almeno tra le nuove generazioni. «Soprattutto in Bieolorussia, che per via del vento è stata la prima regione europea a venire investitata dalla nube, i tassi di mortalità collegati alle radiazioni rimangono elevati – spiega Caggiari – Ma in tanti anni, fra i quattromila bimbi portati qui dalla nostra associazione, Cittadini nel mondo, c’è stata una sola vittima. Eppure, non è soltanto questo il segno che fa ben sperare: tra le famiglie sarde crescono l’entusiasmo e l’altruismo, così come si diffondono gli interscambi linguistici e culturali». Quasi un piccolo miracolo dopo tante lacrime. E per comprenderlo basta pensare che, come ha rivelato uno dei soccorritori appena qualche giorno fa a Cagliari durante un convegno promosso dalla Regione su Chernobyl 25 anni dopo, nell’ex Urss prima di questo c’erano stati almeno altri sei incidenti a reattori nucleari. Tutti fonti di tumori e leucemie, oltre che di malformazioni genetiche. E sull’ipotesi di un ritorno al nucleare in Italia Caggiari commenta: «Credo che la buona scienza debba dare buone risposte ai bisogni energetici». «Nel 1998 abbiamo portato un gruppo di uomini sardi (le donne sono rimaste sul pullman) in un villaggio abbandonato non lontano dal luogo dell’apocalisse atomica – racconta ancora – È stata una visione allucinante: camminavamo nella desolazione con le scarpe avvolte in buste di plastica per evitare di sollevare polveri radioattive. Tutt’attorno uno scenario di morte. La vita cancellata ovunque. E non era un film dell’orrore». Forse a causa d’immagini come queste, unite agli sguardi di quei bambini negli istituti di ricovero in attesa di nuove famiglie, spesso rilanciati dai programmi televisivi, che negli anni in Sardegna sono via via aumentate le offerte di ospitalità e le richieste di adozione definitiva. Sono tanti, infatti, i bielorussi che oggi risiedono stabilimente nell’isola, così come in altre regioni italiane. Paolo Coradduzza, 63 anni, pensionato dell’Inps, a Sassari si è a lungo impegnato nella silenziosa corsa per andare incontro ai bambini di Gomel, di Dobrush, di altri centri pesantemente contaminati. E oggi dice: «La cosa più importante è che le famiglie dell’isola continuino a impegnarsi negli aiuti alle popolazioni colpite». Qualche anno fa tra i promotori di un progetto pilota nelle scuole del capoluogo per l’integrazione degli studenti dell’est europeo, Coradduzza non si stanca di rammentare come l’allontanamento temporaneo dei giovani dai loro Paesi e la vicinanza al mare ricco di iodio della Sardegna favorisca la diminuzione delle percentuali di mortalità. «Li vedi, e non puoi non farti avanti e tendere la mano: è un dovere», si limita ad aggiungere, con semplicità. Già, perché osservare di persona le situazioni nate sulla scia avvelenata dell’incubo atomico è certo una risposta più convincente di tanti discorsi. «Oggi il nucleare è una pistola puntata alla testa di tutti noi: se ci scappa di mano, non siamo più in grado di gestire nulla», sostiene in ultima analisi Coradduzza.