di Francesca Madrigali
Cagliari sta ospitando, da qualche tempo, i migranti tunisini che arrivano in Italia a ondate di disperazione, su barconi traballanti che sono un po’ la metafora del loro presente. Dove andare? Cosa fare? Come sopravvivere (che è cosa diversa dal vivere)? La mia città si è dimostrata solidale,e di questo vado fiera: ovviamente, in mezzo a questi ragazzi che in un altro luogo e in un altro tempo magari avrebbero avuto un lavoro, le scarpe alla moda, avrebbero giocato a calcetto il martedì e ammiccato alle ragazze nella via principale del paese, come tutti i 20-30 enni medi insomma, c’è anche qualche scemo che ha cercato di forzare una macchina, che aveva dei precedenti penali nel suo paese eccetera. E’ la legge dei numeri e della probabilità, tutte cose sconosciute ai razzistelli de noantri. Uso il diminutivo perché il termine “razzismo”* è complesso, implica una repulsione primitiva nei confronti degli altri che in un contesto provinciale come Cagliari non vedo appieno, piuttosto vedo altro. Fastidio per lo sforzo che implicherebbe – e necessariamente implicherà la direzione che il mondo sta prendendo- avvicinarsi e conoscere queste persone, diverse nei tratti, talvolta, nella cultura, nelle abitudini e nelle esperienze. Ma anche no, ecco il trucco, e la chiave per smontare ogni tentazione di “dàgli al diverso”, sono tutti delinquenti, lo vedi che hanno tentato di rubare una macchina, importunato una ragazza, detto una parolaccia, eccetera. Qualche giorno fa passeggiavo in centro, e il mio accompagnatore mi ha fatto notare, davanti a noi, un gruppuscolo di questi ragazzi che girellavano, probabilmente contenti di poter uscire dal centro di accoglienza per fare due passi: piccoli momenti di normalità, immagino, come tutti noi che abbiamo voglia di uscire, non di stare rinchiusi. Io non mi ero nemmeno accorta che fossero “loro”, per cui le cose sono due: o sono molto distratta o assomigliano veramente molto al cagliaritano medio. Nel parcheggio di un centro commerciale ci si è avvicinato un ragazzo di colore che vendeva CD, e mentre preparavo il solito “no grazie”, incasinata nel sistemare i miei piccoil nel seggiolino, lui ci ha chiesto: “sono gemelli?”. Alla nostra risposta affermativa lui ci ha spiegato che anche lui ha due gemelle di tre anni, che vivono in Senegal con la moglie, per cui sta aspettando il ricongiungimento. “E’ stata dura”, ha spiegato, “i primi mesi non dormivo per niente, adesso va meglio”, “Però è bello, eh”, e lui “Sì, molto bello”. Insomma, ho fatto una tipica conversazione da genitore gemellare, in cui ci si racconta come si dorme o ci si organizza, con un venditore ambulante del Senegal in un parcheggio, semplicemente perché lui è come me e io sono come lui, viviamo quelle stesse esperienze. E’ la banalità della normalità, quella che manca ai razzistelli de noantri, quelli che pensano che i migranti, per il solo fatto che sono poveri e vengono da Paesi diversi dal nostro, vogliano depredarci di chissà che, come se fosse il primo pensiero una volta toccata la terra italiana o sarda. E’ anche una invincibile resistenza all’inevitabile mescolanza delle persone e delle culture, che accadrà comunque: tanto vale rassegnarsi, vorrei dire ai mentecatti che invocano le armi contro gli immigrati, tanto la Storia vi si mangerà in un boccone. E’ anche un sottile “classismo” e antipatia verso i poveracci, che ci ricordano come eravamo e come potremmo tornare ad essere: ma a noi, distratti dai bunga bunga e dall’opulenza, manca quella disperata voglia di sopravvivere e possibilmente di vivere. Come tutti gli altri, come noi.