di Sergio Portas
Per la serata del debutto milanese a quelli di “Cada Die”, che mettono in scena “Sos Laribiancos” di Franziscu Masala, hanno offerto il teatro Franco Parenti, in più l’autore della colonna sonora dell’opera, Paolo Fresu, è presente per la “prima”. Ne viene fuori uno spettacolo intriso di magia. In primis per il testo che Pierpaolo Piludu, cagliaritano doc, ha tratto da “Quelli dalle labbra bianche”, che Feltrinelli pubblicò nella sua Universale Economica son oramai cinquant’anni (nel ’62), costo 300 lire. Poi per la balentia di questo casteddaiu , vestito alla buona , un maglioncino a girocollo e calzoni senza piega, capace però con l’intonazione della voce, la mimica del viso, l’atteggiarsi delle membra tutte, di essere via via prima campanaro, poi muratore e capraio e ciabattino, ma anche sorella e moglie e amante di costoro. Nel mitico paese di Arasolè, che Masala si era inventato a mascherare il suo Nughedu san Nicolò, dove era nato nel ’16. Questo è uno di quei libri che, dico sempre, tutti i sardi dovrebbero aver letto. Per la freschezza della sua prosa, e l’intensità delle problematiche che tratta: la guerra, che subito muta i ragazzi sardi in italiani a tutto tondo, pronti per l’assalto e la trincea. Ad Arasolè di dieci che partono ne torna uno solo, quel tale Daniele Mele, soprannominato Culobianco, campanaro di prete Fele a cui deve il soprannome, oggi suona gratis in memoria dei suoi nove compagni morti in terra di Russia, “che i miei compaesani mi pagano per suonare non solo per i morti di giornata, i morti freschi, come dicono da noi, ma anche per i morti secchi, già sepolti da un mese, da un anno, da anni.” Nel libro poi ci sono i ricchi, pochi, e i laribiancos, i poveri dalle labbra bianche di fame, che sono quasi tutti. E ognuno di loro ha una storia, grande come quella del mondo, un soprannome, che così usava una volta in terra di Sardegna, un destino segnato dalla Filonzana che tesse le vite degli umani a seconda di dove tocca loro di nascere, quale che sia l’intelligenza che riescono a sviluppare. Mangiando poca carne, poche proteine, pochi carboidrati. Paolo Fresu , camicia rosso fuoco , calzoni e stivaletti neri lucidi, si è armato di tromba, con la sordina quando vuole che pianga più lamentosa, e un flicorno dal suono più cupo,baritonale, da cui cava note più lugubri e luttuose. Inevitabile che talvolta rubi la scena al protagonista che racconta, quando Rosa Fai, già vedova di guerra, che quando seppe il marito morto rimase “muda che pedra”, per 30 anni culla un bimbo fatto di stracci, la tromba di Fresu si mette a piangere e innesca anche le nostre di lacrime. E all’inizio del secondo tempo il maestro di Berchidda, suonando il flicorno, gira lentamente per tutto il palcoscenico, tenendo una nota lugubre e lunghissima, che come finisce fa tirare un sospiro di sollievo al pubblico tutto, che con lui aveva tentato invano di trattenere il fiato, quasi ad aiutarlo nell’impresa. Scorrono nel mentre i profili dei paesani che andranno alla guerra, Salavatore Animamea che deve il soprannome al gerarca fascista nerovestito, unico vezzo una testa da morto d’argento sulla camicia, che parlando in italiano era venuto in paese a sollevare gli animi dei partenti alla guerra. Chiaro che Piludu non si lascia sfuggire l’occasione di rifare il personaggio “alla Mussolini”, mani sui fianchi e petto in fuori, sembra di vederlo davvero il Duce degli italiani, tale e quale ce lo ripropongono i video dell’istituto Luce. Ma è credibile anche quando fa parlare Giovanna la Rossa, il viso gli si addolcisce e gli occhi paiono più grandi, il resto lo fanno lo sbattere delle ciglia. A Juanna sa bagassa il ciabattino Antonio Nèula, noto Mammuthone, chiede di sposarlo, lui è brutto, ma proprio brutto: “feu commente su famine”, le chiede se è vero “chi ti piaghere a coddare”, “ a meu me piaghere a mandigare” le risponde questa povera donna costretta a fare la vita per poter mettere qualche cosa sotto i denti. In questi nostri tempi di “escort”, non già più di puttane o bagasse che dir si voglia, che riescono a farsi liquidare con più di centomila euro, nonché macchine e gioielli, in cambio delle loro “prestazioni”, questa povera puttana di paese riesce a mantenere una sua dignità. Anche se, rimasta vedova, le toccherà rimpolpare l’esigua pensione di guerra “boza o non boza, torra, deo fato sa bagassa con sos riccos de idda, ca est pagu sa pensione de viuda de gherra…”. Il libro di Masala è scritto tutto in italiano ma Piludu intercala il suo narrare di parole e frasi alla lugudoresa, ne esce un prodotto più ricco, sicuramente più gustoso per i sardi numerosi della platea, ai continentali tocca accontentarsi del suono magico che hanno le parole sarde e della traduzione che ne fa, brevemente, l’attore cagliaritano. Del resto quando Franziscu, Ciccittu Masala iniziò il suo percorso scolastico, che finì con una laurea in lettere a Roma con Sapegno a relatore, sapeva parlare solo sardo. Se le è ricordate tutta la vita le bacchettate che il maestro gli propinava sulle dita, per fargli perdere questo brutto vizio. Diceva spesso che avrebbe voluto bacchettare le dita degli italiani che non avessero, a contrappasso dantesco, loro imparato il sardo. Ecco, stasera Paolo Piludu metaforicamente bacchetta le mani degli spettatori milanesi, mentre noi sardi ci godiamo di più lo spettacolo. L’altro Paolo, Fresu, per i suoi cinquant’anni di vita ha in mente cinquanta concerti in cinquanta posti diversi di Sardegna. Partirà da Berchidda naturalmente il 12 giugno ( gli anni in realtà li compie in febbraio) e finirà a Cagliari il 31 luglio, una sera dopo l’altra in posti sempre diversi. Se sarò a Guspini quando verrà a suonare nelle miniere d’Ingurtosu non vorrò mancare. Stasera le sue armonie unite al raccontare di Piludu rievocano stati d’animo d’intensa nostalgia, per quei morti di Arasolè, le fidanzate che più non si sono sposate, quelle greggi di capre, dagli occhi gialli di zolfo, che hanno smarrito per sempre i loro pastori. Raccontare storie per non essere raccontati, scrive Giancarlo Biffi che cura la regia, l’attore/narratore assume in sé tutte le vicende e i volti di quegli uomini per ridarci, nel sorriso della rappresentazione, delle vite che paiono infinite. La vita di un povero paese che riemerge prepotentemente coi suoi riti semplici, conditi da “meraviglie” che hanno il sapore della scoperta del ghiaccio per i colombiani di Garcia Marquez: “unu pappagallu irde” capace col becco di pescare i foglietti rosa dove è scritta la tua fortuna. E’ parte dei ricordi della mia fanciullezza, anche il mio pappagallino era di colore verde. Ciccittu Masala sarebbe stato contento, lui che da sempre predicava il bilinguismo perfetto nella nostra isola. Se vi capita fatevi ammaliare dalle sue poesie edite dal Maestrale: Poesias in duas limbas, sentite come finisce questa dedicata al marito immigrato :”Prenda mea istimada/no isco pius poitte ti faeddo/sos pensamentos mios sunu che s’erva/àteros che i sa nue/ateros che ispina./Intro de te aia fattu su nidu/intro de me aias fattu su nidu/Isco chi non ses nudda/e deo ancora respiro./Su coru est grogu/ che in sa inza posche’e sa innenna.” Pei continentali ( e qualche campidanese): “Caro, o caro, non so perché ti parlo, i miei pensieri nascono come erba,altri come nuvole, altri come spine.//Dentro di te avevo fatto il nido,dentro di me avevi fatto il nido. So che non sei più nulla ed ancora respiro. Il cuore è giallo come una vigna dopo la vendemmia.”