di Giampaolo Porcu e Angela Pezzana
Attraverso la lettura dei loro scritti, risalenti a circa 65 anni fa, Arturo e Pietro sono stati i protagonisti di una serata di memorie, di drammatici e tragici ricordi. Momenti vissuti con grande partecipazione emotiva da un pubblico partecipe e commosso di parenti e sinceri amici sardi e vercellesi. E’ successo domenica 6 febbraio 2011, al Circolo dei sardi “G.Dessì” di Vercelli, all’interno della celebrazione della giornata della memoria in ricordo dell’olocausto e dei deportati militari dopo l’8 settembre 1943. Arturo Gabotti, piemontese, novantenne, era tra il pubblico, con l’abito della festa, ma al tempo della tragedia portava la divisa d’aviere di leva. Sorpreso a Torino il giorno stesso in cui l’Italia ha chiesto l’armistizio, è arrestato dai tedeschi e deportato in Germania. Pietro Tola, sardo, è un militare della guardia di finanza già avanti in carriera e si trova in Francia al confine con la Svizzera. L’8 settembre viene catturato dai tedeschi e deportato in Germania. Quella domenica, al Circolo “Dessì”, Pietro Tola, avendo lasciato anzitempo i suoi cari, era presente in spirito al fianco di Arturo in un simbolico, fraterno gemellaggio tra due uomini coraggiosi, tenaci, valorosi, e tra due forti e generosi popoli, quello della Sardegna e quello del Piemonte. Questi soldati, prigionieri di un nemico violento e vendicativo, pur vivendo in perenne stato di costrizione, hanno voluto, caparbiamente e con costanza trovare il tempo e il modo di estraniarsi, di ignorare il mondo ostile, repressivo circostante, per dedicarsi alla scrittura, alla descrizione di tutto ciò che l’occhio poteva percepire e la mente memorizzare. E così, in mondi diversi, in situazioni diverse, a distanza di chilometri l’uno dall’altro, ma entrambi costretti in luoghi di arcigna e dura prigionia, Arturo e Pietro, per un gioco del destino, compiono lo stesso gesto di straordinario valore storico e culturale: scrivono il loro “Diario”. I due documenti sono stati presentati e commentati da Angela Pezzana, cugina di Arturo e, alternandosi, da Giovanni e Salvatore, figli di Pietro. Uguale nei due diari l’atmosfera d’incertezza, d’ansia, quasi di panico, ma anche di speranza; emerge una situazione confusa per la mancanza di punti di riferimento, di ordini. Arturo denuncia il comportamento equivoco di molti degli ufficiali superiori fino alla “vergognosa vendita dell’esercito italiano ai tedeschi”. Poi iniziano le prove più dure: il viaggio verso l’ignoto in carri bestiame senza cibo né acqua all’inizio, senza potersi muovere; il doloroso distacco dalla casa e dalla Patria, per essere usati come forza lavoro in condizioni di schiavitù. L’itinerario di Pietro si sviluppa prima verso Ovest per risalire poi a Nord-Est fino alla Saar, nel primo campo di lavoro, dove sperimenta la fatica stressante sotto l’occhiuta vigilanza dei sorveglianti e soprattutto la fame. Poi, per fortuna gli internati sono spostati verso la Renania dove Pietro lavora come boscaiolo fino all’aprile del 1944. Il lavoro è duro, ma più umano, le forze fisiche si ritemprano all’aria aperta, il contatto con la natura riporta a Pietro i ricordi della sua giovinezza in Sardegna. Il ciclo del bosco di Munsbach (ecco la ragione del titolo del diario “Il lager nel bosco”) è forse quello meno terribile, più sereno, se si può usare quest’aggettivo per una condizione di privazione totale della libertà. In seguito, purtroppo, Pietro viene spostato per lavorare in fabbrica dove, al lavoro pesante e faticoso, si aggiungono i pericoli dei continui bombardamenti degli alleati. L’itinerario di Arturo, invece si sviluppa prima ad Est (Torino,Verona), poi a Nord (Brennero, Innsbruck, Norimberga, Lipsia) fino a Lukenwald, il primo campo dove i prigionieri finalmente possono stendersi sulla paglia e muovere le gambe rattrappite. Qui sperimentano i “menu” del campo: una volta al giorno zuppa con rape o crauti od orzo, una fettina di pane, un quadretto di formaggio 3x3x1 “tutto ciò bastava per restare vivi stando distesi tutto il giorno sulla paglia” (Arturo). Poi c’è la disinfestazione, la privazione d’ogni oggetto personale, l’immatricolazione e la nuova destinazione:Berlino. Qui si lavora a scavare buche di protezione dalle schegge per dieci ore al giorno con un ritmo prestabilito e da rispettare ad ogni costo. Quando gli alleati riducono Berlino in macerie, gli internati servono per liberare le strade, abbattere case, raccogliere detriti (qui Arturo, sotto le rovine di una banca, trova il quaderno che diventerà “il sunto del mio diario”, oltre che rape, patate, tutto ciò che di commestibile può esserci in quelle cantine). Nel febbraio del 1945, mentre i russi si avvicinano a Berlino, il campo viene spostato ad Ovest, in Turingia, verso le linee alleate. Pietro si trova nelle vicinanze del fronte già nel marzo del 1945, quando, nel caos della ritirata dei tedeschi, gli internati attraversano il Reno, restano soli e sbandati, si arrangiano lavorando in una vigna e attendono gli alleati. Il nuovo campo di Arturo è vicino a Salzungen, un paese circondato dalle colline di l‡ dalle quali si sente il fragore della battaglia e si vedono i lampi delle artiglierie. Qui gli internati lavorano ancora fino ai primi d’aprile, quando i tedeschi abbandonano il loro rigido controllo e Arturo con i compagni fugge in collina. Rientrano poi nel campo privo dei tedeschi e il 4 aprile del 1945 vedono arrivare gli americani. Con il loro arrivo, se ne va la fame continua, ossessiva che aveva caratterizzato la vita dei prigionieri per due anni e mezzo. Sia per Pietro che per Arturo, come per tutti gli internati, ora il pensiero dominante è: tornare a casa, ma per questo bisogna ancora attendere. Solo quando le tradotte saranno organizzate si potrà tornare in Italia via Innsbruck-Brennero-Verona, anche questa volta sui carri bestiame “uguali a quelli che ci avevano strappato all’Italia, ma ora non più chiusi e sprangati” (Arturo). Arturo e Pietro, due militari internati, uguali destini, stesse sofferenze, tanta nostalgia, ma anche tanto orgoglio e tanta dignità. Due uomini straordinari, distinti per regioni di provenienza, diversi per carattere, professione, uniti da un destino drammatico e crudele. Quello che distingue soprattutto i due internati, è l’età, Arturo è un giovane di 20 anni che affronta la situazione quasi con incoscienza; Pietro è un uomo di 38 anni “un anziano tra ragazzi” con moglie e un figlio di 3 anni costantemente presenti nel suo animo e nelle pagine del diario, così come ricorre sempre il ricordo delle festività celebrate in famiglia, ancora più sentite quando si vive come “poveri esseri umani perduti in questa terra fredda, com’Ë freddo il cuore delle persone che la abitano (Pietro). Per Pietro la fine della sua personale vicenda può essere racchiusa nelle parole della prima persona incontrata in paese il quale gli anticipa “i tuoi cari sono tutti vivi”.