di Sergio Portas
Alla fiera dell’artigianato di Milano-Rho erano attesi qualcosa come tre milioni di visitatori, buona parte di questi debbono aver preso la metropolitana il pomeriggio che anche io avevo scelto per la visita d’obbligo e tutti, schiacciati come le classiche sardine, solo alla fine del viaggio ci siamo riappropriati della bella possibilità di respirare ad aperti polmoni. Dopo di che si trattava di scegliere quali dei duemilanovecento banchetti artigiani si dovesse visitare. Anche in caso di sciovinismo esasperato: solo italiani, nient’altro che italiani, il numero restante (più di 1500) superava ampiamente ogni tipo di performance atletica il vostro non più giovane cronista avrebbe potuto sopportare. Giocoforza quindi dirigersi direttamente agli stand del Medio Campidano, tenendo fissa la barra sulle bandiere dei quattro mori delimitanti gli spazi occupati dagli artigiani sardi. Insomma proprio tutti artigiani non sono, mi dicono le sorelle Pinna che ad Alghero creano vestiti di maglia a marchi “Nina”. Quella che crea in verità è Patrizia, Antonella è brava a vendere, tutte e due sono simpaticamente critiche sulla selezione che la Regione Sardegna non sa fare o non vuole fare a proposito dell’essere o no “artigiano vero”. Che vende le proprie creazioni, come fanno loro, “tuttissimo fatto a mano”, magari intrecciando tre fili di lana per realizzare maglioni “melange” di raffinata originalità. Sulle loro locandine splendide modelle algheresi sui vent’anni ti dicono che “ogni donna dovrebbe cedere a questa tentazione (di comprarsi uno di questi capi in maglia)… non è un peccato”. Simona Armas fa ceramiche raku e si qualifica come “Arti Janas”, scuola d’arte a Oristano, è il secondo anno che fa la fiera e, a lei, è andata benissimo, i suoi animali dagli occhi stralunati e dai brillanti colori temprati sono andati a ruba. La “pecora alata” che usa come “logo” pare concordare che “Raku” voglia dire “gioia”: vivere in armonia con le cose e con gli esseri viventi. Sono sicuro che in ciò consentano anche i fratelli Piccioni: Antonello, Giancarlo e Danilo, anche se la loro creatività si estrinseca nel realizzare coltelli dalle affilatissime lame. In quel di Guspini, dove operano e sono nati, hanno iniziato quasi per hobby sedici anni fa e ora hanno bottega vicino al mercato civico e sono immancabilmente presenti alla mostra del coltello sardo “Arresojas” che si tiene a Montevecchio. Mi mostrano alcuni prodotti in corno di montone e bufalo nero, ma ne hanno anche con manici di ginepro e olivastro. Un coltello medio tipo “pastorizia”, lama satinata e lucida va dai 60 ai 100 euro: regalato. La leppa “tipo Corbeddu” costa 300 euro. Per i non sardi occorre dire che questo Corbeddu imperversò nel sopramonte di Oliena alla fine dell’ottocento, prima che i carabinieri lo facessero fuori dopo decenni di latitanza era riuscito a rubare la spada a uno dei loro ufficiali (un maggiore che faceva Spada anche di nome) e ne aveva realizzato una splendida leppa che mantenne inciso il motto: “Viva il re di Sardegna”. Questi sì che erano banditi! Se i coltellinai Piccioni fanno qui il loro debutto (vendite così così), Efisio Spiga della “Coltelleria Artigianale Guspinese” è un veterano all’ottavo anno di partecipazione. Anche lui vende un buon coltello con corno di bue a manico per 60 euro. E il più caro che ha? Una “pattadese” a lama damascata, anellino e chiodi in argento, manico in corno di muflone: 650 euro. Per una “guspinesa” a “foll’e mutta” (foglia di mirto n.d.r.) col manico di ginepro o muflone bastano 180 euro. Non che i guspinesi sappiano fare solo coltelli, Giorgio Ortu tratta tessuti da ventotto anni, anche lui si lamenta della concorrenza sleale che gli fanno altri rivenditori sardi che l’iscrizione alla camera di commercio non sanno neppure cosa sia, figurarsi a quella dell’artigianato. E’ qui per la prima volta e, a suo dire, sarà anche l’ultima. Salva dalla sua critica solo l’impegno lodevole della Provincia del Medio Campidano che ha agito in modo corretto. Dello stesso avviso quelli del panificio Gianfranco Porta di Gonnosfanadiga. Sara Concas, avrà vent’anni, mi squaderna davanti una cartina geografica perché mi faccia un’idea di dove si trovi ‘sto paese alle falde del Linas; quando le dico che sono nato a dieci chilometri da casa sua mi guarda dubbiosa del mio accento che più lombardo non si può. Riccardo Porta, anche lui giovanissimo, pretende di raccontarmi come si facesse una volta il pane in casa, nei paesi di Sardegna: si produceva “sa moddixina”, pane grande che doveva durare un’intera settimana. Sua nonna, Chiara Noli, intorno al 1918 si mise a produrre una specie di focaccia: “sa lada”. E naturalmente “coccoi” e “civraxiu”. Ci tiene prenda nota che nella panificazione che fanno loro usano solamente lievito naturale, “su fromentu”. Nonché tutto un percorso didattico che si può fare visitando il loro panificio a Gonnos, nel quale sono visibili tutte le fasi che portano alla produzione di quel dono di Dio che è il pane di Sardegna. Se passate di lì magari continuate per Villacidro, fino al liquorificio artigianale “Dulcore”, producono mirto, limoncello e agrumello. Inutile specificare da dove vengano aranci, limoni, bacche di mirto (rigorosamente selvatiche). Qui alla fiera hanno avuto grande successo. Bottiglie da 50 ml dieci euro. Stessi prezzi che pratica Giovanni Agus di “Myrsine” di Dolianova, anche il suo limoncello (8 scorze di limone giallo più 3 di limone verde) viene via a 10 euro. Mi dice che loro producono ben dieci tipi di liquori, tra cui un “filu ‘e ferru” barricato di monovitigno cannonau alla modica di euro 14. Quello che qui ha spopolato è stato il liquore alla liquerizia: si cuoce la pianta per 4 ore in acqua e zucchero, si aggiunge un quantitativo di anice stellato, si filtra e si porta a 25 gradi. Non ne è rimasta una bottiglia. Certo se non fossero presenti ben sette liquorifici sardi, se si fosse fatta una turnazione intelligente, gli affari sarebbero andati meglio. Senza contare che gli stand, sponsorizzati dalla regione, costano 400 euro, gli altri vanno da 3900 a 7900 euro (quelli angolari più visibili) quindi rientrare nelle spese non è altrettanto agevole per tutti. E ritorna la lamentela dei “falsi artigiani”, che sono spesso semplici rivenditori. Nella piccola azienda agricola di Dolianova dove produce lui c’è un “quaglificio”, gestito da una trentina di donne in cooperativa, dove ogni operazione è compiuta in modo che più naturalmente non si può. Il mirto di Giovanni Agus è ottenuto lasciando le bacche in infusione per non più di una settimana, al fine di impedire l’estrazione dei tannini che rendono il liquore meno gradevole al palato. Mi fa assaggiare anche un soft mirto drink dal colore caramellato, meglio della coca cola, ma non è proprio il mio genere. Tre gradi alcoolici. In bottigliette tipo birretta peroni. Crederò alla fortuna della nuova bevanda quando la vedrò bere agli avventori degli “zilleri” di Sarule, qui quelli della “Sarda Ideal” espongono tutta una produzione di calzature artigianali su misura, finimenti per cavalli, sottosella istoriati alla moda nugoresa. Mi dicono che il padiglione sardo è tra i più visitati e che a questo proposito quelli delle altre regioni fanno a gara per esporre il più vicino possibile ai sardi. “Cool Sardinia” verrebbe da dire, la Sardegna fa moda, come anche l’”Espresso” fa scrivere in uno dei suoi servizi. Verrebbe da dire a patto di dimenticarsi degli operai tuttora autoreclusi all’Asinara, dei cassaintegrati dell’iglesiente, dell’irrisolta crisi della pastorizia, dei giovani che hanno perfino smesso di cercare un lavoro che nell’isola non c’è. Qui in fiera l’artigianato sardo dimostra di esercitare un fascino tutto particolare. Ne tengano conto i governanti sardi che devono investire le poche risorse regionali disponibili per favorire politiche di rilancio economico e occupazionale ormai impror
ogabili. Se si vuol porre fine allo spopolamento della Sardegna tutta.
Post ricco di idee. Sull’argomento in di cui scrivi qualche tempo
fa ho letto parecchio, ma penso che questo sia speciale.
ciau