di Sergio Portas
La locandina patinata dice di una “via della spada”da tenersi, grandi eventi internazionali,al castello visconteo di Pavia, il pomeriggio di domenica 3 ottobre. Ne fa poi incrociare due, di spade, una di tipo medievale, e a impugnarla non potrà essere che il Maestro Vittorio Murgia, l’altra, l’inconfondibile katana giapponese, appannaggio di Elio Dessì, il maestro d’armi guspinese, ottavo Dan che, ieri sera al palazzo pavese del Broletto, ha presentato il suo libro: “Un minatore alla corte dei Samurai”. Lycia Santos do Castilla che in qualità di poeta ne firma la prefazione e in qualità di pittrice ne illustra la copertina, era presente ieri ed è presente oggi, ha un modo tutto suo di raccontare le storie, nonché di guardare alle cose del mondo. Quel suo altisonante nome la direbbe natia di un Santiago de Compostela piuttosto che di Granada, ma guai a volerla situare lontano dalla sua Sardegna, ti fulminerebbe con una occhiata ancora più brillante di quella che sfodera normalmente, da gran signora tiene corte bandita in quel di Sorso. A ben vedere è proprio il Murgia a non aver tutti i quarti di nobiltà per definirsi sardo al cento per cento, il babbo cagliaritano se ne venne quindicenne nel piacentino e vi trovò lavoro e amore, che quaranta anni di matrimonio sono amore per forza, mi dice la mamma di Vittorio: ci siamo trovati in fabbrica e non ci siamo più lasciati. Il figliolo fin da piccino era affascinato dai soldatini in uniforme e sempre ne schierava eserciti l’un contro l’altro armati, ora alla non più giovanissima età di trentasette anni, la barba con qualche filo bianco, continua a frequentare quel suo sogno, facendone attività di lavoro: aprendo sale d’armi ( la sua compagnia risponde al nome di “Falco nero” e giallo e nero sono i suoi colori) dove si insegna a diventare dapprima scudiero e poi cavaliere, mercé la frequentazione della scuola di scherma corazzata medievale. Quale scenario più adatto per questo evento di questo splendido castello che Galeazzo secondo Visconti, signore di Milano, iniziò a costruire nel 1360 e finì dopo soli cinque anni, altro che la Salerno Reggio Calabria! Ci aveva messo tre anni per conquistare la città l’anno prima, era ancora libero Comune, le cronache lo dicono bello di chiome lunghe e bionde, temuto e odiato per la sua crudeltà, disfece case e palazzi ma in vent’anni lasciò l’impronta dell’odierna metropoli, con l’istituzione dello Studio Generale, l’Università, in piedi 133 chiese, 27 monasteri e 21 case di monache. I re francesi dominavano in Europa, il Papa era ad Avignone. Elio Dessì in quel tempo sarebbe stato un Samurai o perlomeno un Ronjn: copio dal suo libro a pag.235: “ Nella sua espressione migliore era un Cavaliere Errante, disposto sempre a mettere la sua spada al servizio degli oppressi, a combattere le ingiustizie, pronto a ogni atto di temerarietà, mai preoccupato della sua salvezza personale, ma solo dall’onore e dal richiamo dell’avventura. In quella più deteriore era un prepotente fanfarone e vagabondo: per le autorità un inopportuno perturbatore della pace, per la gente comune un pericoloso incomodo da evitare o se necessario da placare”. Se mi chiedete come avrebbe fatto a raggiungere il Giappone partendo da quel di Guspini, nostro paese natale, vi ricorderò che in quel periodo il veneziano Polo era alla corte di Kublaj Kan e trovò modo di visitare le isole nipponiche. Se ce l’ha fatto lui ce l’avrebbe fatta anche Elio, leggere il suo libro per crederlo. Certo lui è, come me, figlio del dopoguerra, allora la miniera di Montevecchio dava da mangiare a tutto il guspinese e, come oggi del resto, trovare lavoro in miniera voleva dire, per un sardo, affrancarsi dalla povertà. Voleva dire fare scuola politica di solidarietà, di sindacato, affrontare le prime battaglie per una diversa sicurezza nel lavoro, scioperare era rischioso e richiedeva spirito di appartenenza ad una classe sfruttata sì, ma contemporaneamente orgogliosa del proprio mestiere. E le donne erano anch’esse a cernere il materiale estratto, dall’alba al tramonto. I miei nonni, i nonni di Elio, i nostri parenti, zii e zie, hanno lavorato insieme alla miniera. Questo ci rende un poco più che compaesani, un poco meno che fratelli. Allora quando me lo trovo davanti, quella specie di chimono azzurro che indossa, la bandana coi segni geroglifici, le due katane ambedue sul lato sinistro tenute su dalla fascia che gli cinge la vita, i capelli candidi, che volete, un po’ mi commuovo. Che l’indomito guerriero non ne vuole sapere di, non dico invecchiare in pace, ma di stare un po’ tranquillo a godersi il film di una vita, la sua, assolutamente originale, costellata da durezze parte ereditate e parte ricercate come viatico per una perfezione spirituale perseguita con l’esercizio fisico costante: la via della spada. Girando il mondo con la bandiera dei quattro mori della brigata Sassari, dono del nonno materno che ne fece parte, perennemente esibita a segno d’appartenenza a una terra natia che è prima Sardegna e solo dopo Italia. Anche se per la squadra nazionale giostrava e vinceva medaglie in svariati campionati italiani ed europei. Con quelle due katane, praticamente senza prezzo dice la Lycia, il filo delle lame ribattuto innumerevoli volte, a mano, da maestri artigiani, che le avrebbero rese più tremende mediante tempere segrete a salvaguardia da ogni ombra di fragilità, spezza le canne verdi piantate al suolo come fossero grissini. Poi spacca a metà una mela posata su un tronchetto di legno, su You Tube lo stesso giochetto glielo si vede fare con la moglie Antonella che agisce, bontà sua, a modo del tronco. Incosciente! Vittorio Murgia precedentemente aveva preso a botte un povero ragazzo, denominato suo scudiero, dapprima usando spade e spadoni senza che i due indossassero l’armatura. Dopo dotandosi di schinieri ed elmi a celata, provando scherma con scudo e ascia, con una o due spade , anche lui. Con gli astanti che applaudono e i bimbi che bisogna tenerli lontani dalla tenzone, dagli elmi si ha una visione parziale e occorre che qualcuno si incarichi di rispedire i contendenti al centro dell’arena. Una diversa via della spada. Due Maestri sardi in quel di Pavia, che esibiscono una visione della vita inspirata a valori mai tramontati: fratellanza, spirito di sacrificio, onore, sacralità della parola data. Qui vicino, poche centinaia di metri, c’è la magnifica chiesa di San Pietro in Ciel d’oro, in essa l’allora re dei Longobardi Liutprando fece interrare la salma di sant’Agostino (736), che da Ippona il vescovo Fulgenzio, sfuggendo i Vandali, trasportò a Cagliari per nave (508). Ancora oggi i cagliaritani venerano la tomba vuota di cotanto Dottore della Chiesa e da sempre hanno fatto richiesta che di quelle povere spoglie, qualche cosa ne ritornasse in Sardegna, da dove le aveva allontanate solo la paura dei mori mussulmani e dove avevano dormito per più di 200 anni. Oggi il re dei longobardi si chiama Bossi, il suo imperatore lotta con tale Fini per le investiture. I mori fanno paura solo a De Corato. Per un attimo ho sognato che ci saremmo recati lì nella chiesa, noi tre sardi, due muniti di spada uno di penna, quattro con Lycia, a lei lasciando reiterare la richiesta, che sa scegliere le parole più opportune come solo i poeti in virtù della musa che li ama. A San Pietro in Ciel d’oro. A portare ad Agostino il saluto di Sardegna.