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Il jazz italiano è sbarcato a Shangai con una rassegna imponente di venti concerti all’interno del programma culturale del Padiglione italiano dell’Expo’ 2010. Si sono così alternati musicisti di livello. Tra questi, ospite di punta anche Paolo Fresu, assieme ad Antonello Salis e Furio di Castri. Una dimostrazione che i tempi sono già maturi per esportare la nostra musica. «Bisogna però intendersi su quale musica – precisa Fresu – Nel senso che la musica classica è esportata da sempre mentre il jazz, che oggi è parte della nostra cultura musicale, si esporta ancora poco nei circuiti ufficiali. Di fatto il jazz italiano, sinonimo di qualità e creatività, è sulla breccia da tanti anni e i suoi musicisti, seppure non tantissimi, circolano per il mondo in teatri e festival importanti a rappresentare una nuova e diversa italianità. Il fatto che per la prima volta questo sia avvenuto nell’Expo mondiale che rappresenta le eccellenze dei paesi più importanti è forse un fatto storico».
Cresce il jazz tricolore anche se in Italia non sembra che si faccia molto per sviluppare una cultura musicale. Vedi l’assenza di scuole e una totale indifferenza delle istituzioni. I teatri lirici sono sull’orlo del baratro e i finanziamenti per i festival jazz vengono sistematicamente tagliati. «Già. Eppure, volendola vedere sotto il profilo meramente dell’immagine, la nostra musica è segno di una italianità riconoscibile nel mondo. Non siamo forse il Paese del Belcanto? Nel padiglione italiano a Shanghai dove mi sono esibito nello sfondo c’era una bellissima installazione dello scenografo Giancarlo Basili. Dietro il palco, in una parete in legno si è ricostruito in verticale un palco da concerto con sedie, strumenti, leggii, partiture ed addirittura un pianoforte miracolosamente attaccato al muro. A vederla da fuori dava realmente l’idea di una collettività unita nel produrre qualcosa. E’ tutta la creatività italiana che porta fuori il meglio del nostro Paese e in Patria contribuisce alla sua crescita. Il problema vero è che vedendo l’Italia da fuori come quella bella installazione, sembra che non si voglia crescere impegnati come si è a litigare sulle sedie del Parlamento. Pretendiamo dunque di poter dare attenzione e peso a ciò che si crede effimero? Chissà se l’Expo di Milano sarà in grado di eguagliare i successi raggiunti dalla Cina visto che stanno già festeggiando il record delle presenze di tutta la storia dell’Esposizione Mondiale con oltre 65 milioni di presenze di cui 7 milioni circa, bisogna dirlo, nel padiglione italiano. Stavolta un bell’esempio di buona organizzazione unito a creatività ed intelligenza. E’ emblematico però che l’Italia fosse rappresentata, e dunque raccontata, proprio da tutto ciò che la politica crede effimero ma che all’occorrenza sembra essere il migliore strumento per pubblicizzare il nostro Paese nel mondo…»
Che atmosfera avete trovato a Shangai. C’era attesa per i musicisti italiani? «Si, anche se Shanghai è una città troppo vasta per riuscire a dare alle cose il peso che devono avere. Ho tenuto quattro concerti. Abbiamo riscontrato un grande interesse verso il jazz italiano anche in occasione di jam session in un locale della città. Intendiamoci, si tratta di jazz club per ora frequentati principalmente dai musicisti e da una clientela poco cinese. Sono convinto però che nell’arco di qualche anno il jazz sarà molto presente perché, soprattutto Shanghai ha una storia importante. Non dimentichiamo che il jazz era presente da queste parti fino agli anni Trenta. Venne bandito dal maoismo assieme alle altre manifestazioni della cultura occidentale ed è tornato qui da appena un decennio. Non dimentico che suonai a Pechino nel lontano 1995 in uno dei primi festival di jazz organizzati dall’Ambasciata Olandese. Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia… Del resto è cresciuto anche lo skyline delle città!»