ricerca redazionale
Poiché nel dibattito pubblico il termine “identità” ha finito per logorarsi, è necessario articolarlo e renderlo pertinente alle questioni trattate, distinguendo almeno tre tipi di identità. La prima, la più povera e rozza, è quella autoreferenziale. Nella fattispecie: i sardi sono essenzialmente sardi per natura o certificato di nascita. Con tale mossa – che comporta la sclerotizzazione di tradizioni ritenute genuine e il trionfo dell’Ufficio Anagrafe – si pensa di risalire all’intatta purezza di un popolo o di compattarne il senso di appartenenza. E’ questa l’ideologia di piccole frange autonomiste che vorrebbero, tra l’altro, imporre agli abitanti dell’isola una limba sarda, coincidente con il nuorese. Una proposta surreale, che fa scattare polemicamente l’idea di obbligare tutti a imparare l’inglese e lasciare che ciascuno parli poi la lingua del proprio paese o della propria città d’origine. Anche a voler prescindere dal susseguirsi di dominazioni (punica, fenicia, romana, vandala, bizantina, pisana, genovese, catalana, spagnola, piemontese), la Sardegna non è omogenea nella sua storia e nelle sue varianti linguistiche. Cagliari, a lungo centro del potere militare e civile straniero, del Vicerè e della corte, ha una tradizione spagnoleggiante (ancora a metà dell’800 le monache di clausura continuavano a scrivere in castigliano). Sassari è la sola città sarda governata nel Medioevo, grazia al podestà genovese Cavallino de Honestis, da uno statuto che segue il modello del confronto civile dei liberi comuni italiani. Oristano incarna, nella storia del Giudicato di Arborea e nella Carta de Logu di Eleonora (l’unico monumentale documento in lingua sarda), il focolaio dell’ultima resistenza al potere catalano. Nuoro, infine, ha mantenuto nel suo lungo isolamento una solenne, dolente fisionomia, ben espressa da un articolo di Salvatore Satta del 1955, in cui si sostiene che lo spirito religioso dei Sardi, dei Nuoresi in particolare, si materializza in due edifici, la Chiesa e il Tribunale: “Se è vero, come diceva un antico causidico che tutti i sardi finiscono in Tribunale, o come rei, o come avvocati, o come giudici, essi cominciano anche in Tribunale, perché Chiesa e Tribunale non sono due cose, ma una sola, la sede umile e solenne nella quale ognuno di noi riceve l’investitura della legge, che, come una sacra unzione, o come un marchio rovente, si porta appresso tutta la vita”. Un’altra significativa linea di frattura è, infine, quella che separa la Sardegna dell’interno, in parte svuotata dall’emigrazione, dalle sue coste, invase da un turismo estivo chiassoso e talvolta fastoso, che non è tuttavia in grado di garantire adeguata ricchezza per i suoi abitanti. Il secondo tipo di identità è quella ricevuta attraverso processi secolari, che si accolgono senza inventario, glorificando anche le mutilazioni e gli ematomi non assorbiti e non saputi che un passato di oppressione e di sudditanza vi ha impresso. In questo modo le stigmate, le ferite lasciate dalle dominazioni precedenti e le malformazioni reattive a esse vengono scambiate per segni di autenticità. Il terzo tipo di identità (la migliore) è paragonabile a una corda ed è composta dall’intreccio di molti fili. E’ una identità aperta, inclusiva, che richiede un paziente e costante lavoro per tenere insieme passato e futuro, tradizione e innovazione e che deve oggi guidare la transizione della Sardegna da terra di emigrazione, di esilio e di confino a nuova meta di immigrati di varia provenienza e cultura. Questa corda tanto più si rafforza, quanto più si riesce a moltiplicare la resistenza dei fili che la compongono e la connettono ad altre storie. E tanto più si indebolisce, quanto più si riducono o si recidono le connessioni verso l’esterno. Il rischio è che la complessità del tessuto storico si deteriori o si perda. La Sardegna è caratterizzata da una modernizzazione priva di profonde radici e di efficaci anticorpi. Le classi dirigenti locali sono rimaste per lo più subalterne e miopi, anteponendo il tornaconto secondario all’interesse generale. Si sono rivelate incapaci di far fruttare gli ingenti fondi dei “Piani di Rinascita”, ma disposte ad accettare il trapianto di industrie inquinanti o fantasma, l’esasperante lentezza nella costruzione delle infrastrutture e un turismo rapace. E’ vero: ora i pastori usano il fuoristrada e nei paesi non giungono più materiali grezzi da cui il fabbro, il sarto o il calzolaio traggono oggetti segnati da specifici stili. Il mondo dei consumi ha allargato i mercati, gli emigrati talvolta ritornano, ma la disoccupazione resta alta, in alcune zone il paesaggio è sfigurato dalla speculazione e l’economia nel suo complesso stenta a decollare. Eppure le cose stanno cambiando in meglio. Oggi si cerca di frenare lo sfruttamento delle coste, di rivitalizzare l’interno dell’isola, di promuovere l’autoimprenditorialità di singoli e associazioni, di valorizzare le testimonianze dell’antica vocazione mineraria della Sardegna, trasformando in parchi di archeologia industriale quel che resta delle miniere di piombo argentifero, zinco, rame e carbone. Tutto questo dimostra che, a partire dallo sviluppo dei fattori che la rigenerano, l’identità si costruisce nel presente, risvegliando attraverso il passato una paradossale nostalgia di futuro.