di Antonio Mannu
Il 26 aprile 1986 alle 01 e 23 minuti, durante un malaccorto test “di sicurezza”, un brusco e incontrollato aumento della potenza del nocciolo del reattore numero 4 della centrale nucleare V.I. Lenin di Chernobyl, in Ucraina, innescò un’ esplosione che ne determinò lo scoperchiamento. Si sviluppo poi un incendio che continuò a divampare per giorni e che fu la causa principale della dispersione nell’atmosfera di detriti radioattivi e prodotti di fissione fino ad un’altezza di 1 chilometro. Altri incendi si svilupparono nei resti dell’edificio della centrale e nei vari depositi di materiale infiammabile. I componenti pesanti dei fumi ricaddero nelle vicinanze, i componenti più leggeri, invece, iniziarono la loro marcia verso l’Europa, iniziando dal nord-est della centrale, dove i venti prevalenti spingevano. Il nocciolo intanto penetrava nel suolo per oltre 4 metri. Ormai si poteva tentare solo qualche operazione per arginare un completo disastro infatti, a fianco all’ unità 4 si trovavano altri 3 reattori in funzione, e una possibile estensione del disastro avrebbe provocato un’ apocalisse. Nessuno in verità sapeva cosa fare per impedire una catastrofe di ancora maggiori dimensioni. Centinaia di pompieri, equipaggiati con attrezzature e strumenti del tutto inadeguati, si sacrificarono, o furono sacrificati, nel tentativo di spegnere gli incendi, esponendosi a dosi enormi di radioattività. Oggi sono pochissimi i sopravvissuti tra loro. Tra le conseguenze immediate vi fu la contaminazione di vaste aree del territorio circostante che rese necessaria una massiccia evacuazione: furono coinvolte oltre 300.000 persone. Nubi radioattive, con livelli di contaminazione via via minori, raggiunsero numerosi paesi europei, tra cui anche l’Italia, e perfino alcune porzioni del Nord America. Le conseguenze di lungo periodo non sono mai state accertate in maniera chiara e definitiva ma nel 1987, grazie all’aiuto austriaco, a Borovliany, un sobborgo di Minsk in Bielorussia, viene costruito un grande ospedale di oncologia pediatrica. Ed è stato proprio il territorio bielorusso, paese che confina con l’ Ucraina, a subire la contaminazione più forte. Valerio Contini, 38 anni, di professione tecnico alle luci in ambito teatrale, nel 2002 visita la Bielorussia. Appassionato fotografo comincia a interessarsi alle conseguenze dell’incidente, prendendo contatti con diverse associazioni di volontariato che si occupano delle gravi conseguenze. Visita una prima volta l’ospedale e comincia a documentare la vita del sobborgo di Borovliany. Con grande delicatezza e una palese empatia nei confronti dei piccoli degenti e dei familiari, quasi esclusivamente madri, racconta in frammenti fotografici volti e sguardi dolenti, a volte sorridenti, un gesto di saluto e riconoscimento, un’ icona mariana a cui una tenerezza, forse materna, forse infantile, ha accostato il volto irreale di una bambola. Il lavoro fotografico di Valerio Contini prosegue poi nel tempo. L’ultima visita è recente, risale al 2009. Una selezione di 30 scatti tratti da questo lavoro in corso è in mostra sino al 30 di settembre a Palau, presso il Centro di Documentazione del Territorio di via Nazionale. Si tratta di una produzione dell’ associazione Sarditudine, inserita nel programma del festival internazionale di musica, teatro e arti visive Isole che Parlano ed è la prima volta che una parte di questo intenso lavoro viene esposto al pubblico, grazie all’attenzione e alla lungimiranza degli organizzatori del festival, che si è appena concluso. Isole che parlano è un evento probabilmente unico nel panorama isolano. Anche la scelta di esporre questo lavoro, in questo momento in cui si parla, forse con eccessiva disinvoltura e superficialità, di un ritorno al nucleare, racconta di un’attenzione marcata alle storie e alla storia, senza nessuna concessione a quel che è moda e tendenza, piuttosto con una marcata sensibilità alla concretezza. Concretamente fotografa la storia Valerio Contini. Entra nelle stanze in punta di piedi: si vede, quasi si sente dalle immagini. Non è facile. Valerio è confuso. Concretamente si fa delle precise domande: “Perché sono qui? perché lo sto facendo? le persone che ritraggo cosa possono pensare di me, come mi vedono, come considerano la mia presenza qui e il fatto che stia facendo loro delle fotografie? Tutto questo a che serve?” Sono domande buone e giuste quelle che si pone Contini, domande a cui non è semplice rispondere compiutamente, al di là di un banale “E’ importante raccontare, diffondere consapevolezza” . Testimonianza e memoria sono tra le funzioni principali ascritte alla fotografia, ma sono termini anche logorati oggi, con il dominio di velocità, superficie e leggerezza che confina quasi col vuoto. Sono leggere le fotografie, fogli di carta su cui è raccolta la luce, bit aggregati sullo schermo di uno smart phone. E’ facile portarsele dietro, facile consumarle in fretta. Ma quali e quante sono le ragioni, e gli effetti, consci ed inconsci, della determinazione a lavorare su un tema come quello scelto da Contini. Una determinazione che l’autore ha deciso di portare avanti proseguendo nella sua indagine, ampliandone gli ambiti. Non appena gli sarà possibile andrà sul luogo stesso del disastro, nel frattempo ha seguito le storie di alcuni dei “bambini di Chernobyl” che periodicamente visitano il nostro paese. In verità anche questa diventa una storia: una forma di attenzione, vera e sincera, che prende la sembianza di un fotografo. E’ leggera la nube, leggero è il fuoco atomico. Ma la Storia, mai chiara e definita, è ancorata alla terra e agli uomini con tutto il suo fardello. Provare a raccontarla, in modo piano e diretto, forse può ancora essere utile. La mostra è visitabile tutti i giorni, tranne la domenica, dalle 17 alle 20. Per eventuali visite concordate contattare il numero 339.1459168