di Omar Onnis
Inizia la scuola e sembra la solita routine. Alle proteste ci siamo abituati, alla mediocrità dei ministri dell’istruzione (fatte salve rare eccezioni) pure. Fatto sta che siamo arrivati al fondo del barile e ormai abbiamo pure cominciato a scavare. La scuola italiana è allo sfascio. Non bastassero carenze edilizie e una cronica e diffusa mancanza di mezzi materiali, con gli ultimi tagli varati in pompa magna dal governo italico ormai si avvia verso la devastazione definitiva anche la didattica. D’altra parte se nelle statistiche internazionali gli studenti della scuola italiana sono tra i peggiori, pervicacemente ancorati al fondo della classifica, una ragione ci sarà. C’è poco da arzigogolare: trattasi di deliberata e consapevole scelta politica. Non di questi ultimi anni, ma promossa e realizzata da almeno un quindicennio, da governi di ogni colore. Lo scopo ultimo? Be’, intanto una desensibilizzazione culturale e sociale profonda, tale da smantellare i residui anticorpi culturali e civili della popolazione. Poi, certo, la necessità di risparmiare denaro pubblico senza toccare interessi più forti e capaci di farsi valere, benché decisamente meno rilevanti per l’interesse generale e collettivo dei cittadini. La Sardegna, in questo contesto, è messa se possibile peggio degli altri. A causa dell’autonomia di facciata che ancora regge la scena (pur con tutte le crepe che sappiamo), l’istruzione da noi è a totale disposizione ministeriale. La scuola sarda ha accettato passivamente la propria distruzione sistematica, senza che la (presunta) classe dirigente nostrana se ne desse pensiero alcuno. La nostra condizione periferica anche in questo caso si è tramutata direttamente in marginalità politica. Non che dietro questa deriva manchino interessi consolidati. Vogliamo proprio fare una classifica tra classe politica, chiesa cattolica e centri di potere eterodiretti per stabilire chi abbia più interesse a distruggere la scuola pubblica in Sardegna? Resta il fatto che i sardi soffrono di una delle dispersioni scolastiche più alte d’Europa (pur non essendo, per dire, tra i peggiori lettori). Quattro studenti su dieci non terminano il corso di studi delle superiori. La percentuale dei sardi che si iscrive all’università è già bassa in partenza, ma il numero di laureati è addirittura mortificante. Senza contare che moltissimi studenti validi scelgono di studiare fuori e molto spesso (nonostante il maldestro tentativo fatto col master&back nella precedente legislatura regionale) trovano opportunità di ricerca e di lavoro lontano dalla Sardegna, finendo col restarci. Inoltre, il disastro della scuola è ulteriormente pericoloso per questioni meno legate all’istruzione e più attinenti a consapevolezza civica, senso di appartenenza, processi di identificazione. Su questo versante la scuola sarda è in condizioni disperate, terminali. Anche qui scontiamo purtroppo la totale mancanza di un’ottica che ci veda come un soggetto politico e storico a tutto tondo. Prima ancora del riconoscimento giuridico del nostro essere qualcosa d’altro, manca la prospettiva con cui guardare a noi stessi proiettati nello scenario internazionale. È inevitabile che la scuola risenta pesantemente di questo stato di cose. Ma non è inevitabile lo stato di cose in sé. Se non ci riapproprieremo della nostra responsabilità educativa, sia nelle formazioni sociali a cui partecipiamo sia a livello istituzionale, non tradiremo solo il nostro presente ma anche e soprattutto il nostro futuro. È un debito pesantissimo verso i nostri figli e i nostri nipoti. È un tradimento generazionale esiziale, antievolutivo, totalmente stupido e miope. Che ci piaccia o no ammetterlo. Un grande in bocca al lupo a tutti i lavoratori della scuola e ai ragazzi. Forza e coraggio (ce ne vogliono tanti)