di Paolo Pulina
Nel pomeriggio di domenica 20 giugno 2010, a Carnate, presso i locali in cui si teneva la festa dei Circoli sardi di Carnate e di Monza, su invito dei rispettivi presidenti Giuseppe Fois e Salvatore Carta, tenni una conversazione sulla figura de “Sa femina accabadora”, cioè colei che, chiamata dai parenti, provvedeva a porre fine alle sofferenze del malato terminale colpendolo con una specie di martelletto, con un giogo o, più spesso, soffocandolo con un cuscino. Nonostante la concomitanza con la partita dei mondiali di calcio Italia – Nuova Zelanda, un nutrito gruppo di soci scelse di soddisfare le proprie curiosità intorno a questa inquietante figura della società sarda di un tempo, su cui si sono accesi i riflettori negli ultimi anni in rapporto al diffondersi a livello di massa del dibattito sulle tematiche dell’eutanasia. Come avevo specificato, avevo accolto l’invito dichiarandomi disponibile a dare informazioni sulle tante opere di carattere storico o di natura romanzesca che recentemente sono state pubblicate sul tema della donna incaricata in Sardegna di procedere a un’operazione che comunemente oggi chiamiamo eutanasia. Mi soffermai sulle testimonianze storiche lasciate nell’Ottocento da viaggiatori-scrittori stranieri e italiani (gli inglesi William Henry Smith, John Arre Tyndale, Robert Tennant e Charles Edwardes; gli italiani padre Giovanni Battista Vassallo, Vittorio Angius, Alberto Ferrero della Marmora, padre Antonio Bresciani e Francesco Poggi) e sui riferimenti a questo personaggio presenti nel romanzo storico “Folchetto Malaspina” di Carlo Varese (che non è mai stato in Sardegna ma che è autore anche di un altro romanzo storico di argomento isolano intitolato “Preziosa di Sanluri, ossia i montanari sardi”). Citai: la ricerca recente di Alessandro Bucarelli e Carlo Lubrano (“Eutanasia ante litteram in Sardegna. Sa femmina accabbadora. Usi, costumi e tradizioni attorno alla morte in Sardegna”, Edizioni Scuola sarda, 2003); l’opera narrativa “L’ultima agabbadora” (editore Il Filo, 2007) di Sebastiano Depperu, giovane collaboratore del Museo etnografico Galluras di Luras, in Gallura (l’unico luogo in cui è custodito un esemplare del “rustico martello di legno di olivastro stagionato” usato da “s’accabadora”); il romanzo di Giovanni Murineddu “L’agabbadora. La morte invocata” (editore Il Filo, 2007); la testimonianza raccolta da Dolores Turchi nel volume (con DVD; edizioni Iris, 2008) intitolato “ ‘Ho visto agire s’accabadora’. La prima testimonianza oculare di una persona vivente sull’operato de s’accabadora”. Riferii anche dello studio del 2007 di Andrea Satta “La signora della buona morte: l’accabbadora. Riti di morte nella sardegna tradizionale”
(http://www.surbile.net/teca/articoli%20pdf/S’accabbadora_Andrea_Satta_Matriarcato6.pdf). Dissi dello spettacolo “S’accabbadora” messo in scena anche in alcuni circoli sardi della Lombardia (Gallarate, Vigevano, Saronno) da Silvia Schirru dell’Associazione culturale Anfiteatro Sud. Lessi qualche brano del romanzo “Accabadora” di Michela Murgia pubblicato da Einaudi nel 2008 (e già vincitore del Premio Giuseppe Dessì di Villacidro) non solo a scopo documentario ma anche per far capire quanto avvincente fosse il racconto della vicenda della piccola Maria Listru che diventa “figgia de anima” di tzia Bonaria Urrai, una vecchia sarta della quale verrà a conoscere la nascosta attività, diciamo collaterale, evocata nel titolo dell’opera narrativa. Non so quanti di quelli che erano presenti a Carnate abbiano letto, a seguito del mio invito, l’appassionante romanzo di Michela Murgia. Ora, in ogni caso, essi e gli altri sardi orgogliosi della propria identità isolana hanno un motivo di più per fare questa istruttiva e commovente lettura: garantiscono i giurati del prestigioso Premio Campiello di Venezia che hanno assegnato il massimo riconoscimento 2010 all’ “Accabadora” della Murgia.
Complimenti