di Omar Onnis
Il 29 agosto a Nuoro si è celebrata la ricorrenza del Redentore. Siamo arrivati alla centodecima edizione. Una festa giovane, rispetto alla media delle feste patronali sarde. Benché venga sempre menzionata come “la festa dei nuoresi”, in realtà si tratta di una celebrazione di tono minore, rispetto alle feste grandi della città, tipo la Madonna delle Grazie o S. Francesco di Lula. Inoltre, la vera festa cui quel giorno era dedicato ab antiquo era quella della Madonna del Monte (la cui chiesa si trova ancora lì, presso il parco sotto la cima dell’Ortobene). Cosa ha di particolare questa ricorrenza, insomma? Intanto, si tratta di una classico esempio di canonizzazione folkloristica delle tradizioni popolari sarde, secondo i criteri di normalizzazione adottati in seguito all’unificazione politica italiana e all’inserimento forzato della Sardegna in questo ambito politico e culturale. Nei decenni a cavallo tra XIX e XX secolo (tra crisi agricole e bancarie, banditismi assortiti, spedizioni militari e guerre mondiali) si tecnicizzò in via definitiva (per ora) il mito dei sardi quali italiani speciali, rimasugli etnici di epoche remote e selvagge, tratti alla luce della civiltà dall’accoglienza nell’alveo della superiore cultura italiana. Le distanze, le differenze (linguistiche, toponomastiche, antropnomastiche, musicali, economiche ecc.) dovevano essere ricondotte in qualche modo ai paradigmi dominanti. Non potendo ridurre ad esso tutti gli elementi strutturali della sardità d’allora, si vide bene di folklorizzarli, dialettizzarli, inserendoli come elementi esotici, “speciali”, nell’ambito dell’italianità. La sagra del Redentore rientra perfettamente in questo disegno. La stessa canonizzazione dei costumi cosiddetti tradizionali non è altro che la cristallizzazione artificiosa di un momento qualsiasi degli usi vestiari sardi, tramutato in canone classico cui fare riferimento, per poter parlare di tradizione sarda. E di identità. Identità, infatti, significa appunto essere identici, rispondere a una valutazione di concordanza a un modello dato e inderogabile. La faccia politica di questa medaglia sono l’autonomismo e il sardismo. Tutto torna. Ma canonizzare e santificare, sia pure dentro categorie dialettali, tutta una tradizione artistica e vestiaria, con le connotazioni che queste forme di espressività umana si portano appresso, comporta che non se ne possano controllare a lungo e perfettamente tutti gli effetti. La folklorizzazione di quelle che erano semplicemente tradizioni culturali altre, appartenenti a una semiosfera e a un contesto nazionale diversi, ha fatto in modo che permanesse tra i sardi il sentimento del valore di tali tradizioni e, col crescere della consapevolezza e con la maturazione degli strumenti critici della Modernità, che si rimettesse in discussione la radice, la legittimità e la autenticità di tutta l’operazione. Al contempo, si è mantenuto il gusto per usi che forse altrimenti si sarebbero perduti. Quel che si voleva relegare alla sfera della “rappresentazione” ha in qualche modo invaso di nuovo la sfera della vita attiva. Dei giovani che cantano a tenore non per esibirsi su un palco col costume del proprio paese, ma per diletto proprio, costituiscono un esito paradossale di tutto questo processo di normalizzazione. Rimane il fatto che il circuito culturale egemonico e quello dei mass media mainstream tratta ancora e comunque tali manifestazioni di cultura popolare (che ormai non possiamo nemmeno più definire tradizionale, perché fa parte della vita di tanti sardi contemporanei) con i criteri di giudizio del folklore e della rappresentazione. Così è per i canti e i balli, così è per la poesia in sardo (che possiamo definire l’unica vera poesia sarda, in fondo, molto più legittimamente della narrativa) e così è per tutte quelle forme di socializzazione e di comunicazione che sono sfuggite in un modo o nell’altro alla assimilazione. È come una vena d’acqua che si cerca di interrare, di soffocare, ma che poi rispunta sempre, invincibile e inesauribile. Perché è l’anima stessa di un popolo, di una nazione, se mai ce ne siano state sulla faccia della Terra. Il problema grosso, oggi come oggi, è che moltissimi sardi non ne sono affatto consapevoli. E continuano a cantare Procurade ‘e moderare insieme a Dimonios. Orgogliosi e integrati, appunto.