di Manlio Brigaglia *
Quando è stato mio compagno di banco, nella prima ginnasiale (si chiamava così quella che sarebbe stata la Scuola media), Francesco Cossiga, 10 anni appena compiuti, era già famoso nella cerchia di amici d’infanzia che ruotavano intorno alla parrocchia di San Giuseppe. Lui abitava in via Enrico Costa. La sua finestra dava direttamente sullo studio di Monsignor Masia, che fu suo maestro spirituale e lo mise decisamente (e rigorosamente come era uso di Monsignore) sulla via della fede: un’azione travolgente di conversione, solo blandamente combattuta dal padre Giuseppe, sardista e antifascista, che aveva fama di grande laico, ma silenziosamente sostenuta dalla madre, signora Mariuccia, cattolica di robusta e dolce fermezza. Il giovanissimo Francesco era famoso anche per altri tre motivi: innanzitutto era bravissimo a scuola, cosa che nessuno dei compagni gli perdonava, ma tutti gli invidiavano. In secondo luogo, benestante com’era (il padre era direttore generale dell’Icas, la Banca da cui è nato il Banco di Sardegna), aveva una spettacolare batteria di giocattoli, fra i quali fecero epoca le macchinine della Schuco, meraviglie della tecnologia tedesca. In terzo luogo, si avviava ad essere l’uomo di sapere enciclopedico (con preferenza per la storia militare – compresi i servizi segreti -, le bandiere e le divise) che tutti hanno poi conosciuto. Quell’anno Francesco prese gli orecchioni. Per alleggerirgli la lunga convalescenza, Paolo Mancaleoni gli regalò un album con cinque intere annate del «Calcio illustrato» e rilegate, una rivista in ofset, tutta fotografie e, in più la mitica «Partita disegnata» di Silva. Era il 1938, la Juve navigava vicino alla retrocessione: ma le 5 annate corrispondevano alla prima metà degli anni Trenta, in cui la Juventus di «Farfallino Borel» aveva vinto 5 scudetti di fila. Così, quasi per contagio siamo diventati tifosi bianconeri. L’obbligo scolastico ci portava anche nelle organizzazioni giovanili del regime: fummo tra i primi balilla moschettieri di Sassari, avendo a disposizione le 100 lire che ci volevano per comprare il fuciletto semi-legno che imitava il ben più famoso moschetto modello 91. Dopo quell’anno, Cossiga cominciò la fase carsica della sua carriera scolastica. Più di una volta, a metà anno, io penso annoiato dalla ripetizione di cose che sapeva già, si ritirava per ricomparire agli esami di fine anno da cui usciva sempre trionfante. Nell’estate del 1944, a soli 16 anni, fece la maturità classica. Quando divenne presidente del Consiglio l’archivio del Liceo Ginnasio D. Azuni si popolò di giornalisti in ammirata compulsazione dei suoi voti. Si iscrisse in Giurisprudenza. Completò gli studi fra Sassari e la Cattolica di Milano (dove si laureò a vent’anni), cominciando a tessere quella rete di relazioni amicali grazie alle doti di fulminante simpatia che lo hanno accompagnato per tutta la vita. Nonostante questo bagno «continentale», Cossiga era sassarese al cento per cento: con gli umori, l’autoironia, anche le allegre bizze che sono proprie del carattere cittadino. Si sa che, da Presidente della Repubblica, rifiutò di venire a Sassari in visita ufficiale perché – diceva – i sassaresi non avrebbero sopportato la pompa e i pennacchi del cerimoniale. Fu all’Università che cominciò a fare politica. Attorno a lui si raggrumò un gruppo di giovani dc che come lui avevano letto i testi fondamentali della sociologia cattolica e della economia nord-europea. Quando nel marzo del Cinquantasei, il «Giovani Turchi» (come li avrebbe battezzati chi dice una giornalista romana chi il dc algherese Giuseppe Masia) stravinsero il congresso provinciale e cominciarono da via Del Carmelo la conquista del Comune, della Provincia, della Regione. Portato dal vento delle sue doti personali e dalla stima dei leader dorotei (allora lo si diceva pupillo, oppure delfino e persino figlioccio di Antonio Segni) Cossiga volò più alto di tutti.
* la Nuova Sardegna