di Raffaele Callia
Credo sia importante, nello studio dell’esperienza migratoria italiana nel mondo, non rinunciare ad un’analisi sulle dimensioni regionali. Da un lato perché diversi sono i tempi, le modalità, le destinazioni, ma anche gli aspetti quantitativi e quelli qualitativi che contraddistinguono le vicende migratorie delle regioni italiane (se si vuole, sono perfino differenti le esperienze a livello provinciale e comunale, in ciascuna regione). Dall’altro lato è bene rimarcare il carattere distintivo regionale, non tanto per porre steccati campanilistici fra le varie dimensioni locali quanto per poter apprezzare al meglio, nelle loro specificità, i diversi percorsi migratori (del passato, come del presente) ed evitare valutazioni standardizzanti e ingenerose, oltre che fuorvianti dal punto di vista storico e sociologico. Per usare una metafora, è come se dovessimo individuare nel dettaglio le varie tessere per ricondurre ad unità, e nel migliore dei modi, il “mosaico” dell’esperienza migratoria del nostro Paese. Si tratta, in fondo, dello stesso sforzo che dovremmo fare noi oggi, cittadini del terzo millennio, di fronte al puzzle offertoci dalla presenza straniera in Italia.
Come molte altre regioni d’Italia, anche la Sardegna ha preso parte ai flussi emigratori di massa dell’Ottocento e del Novecento, anche se, nel caso dell’Isola, le caratteristiche di tale fenomeno si differenziano da quelle di quasi tutte le altre regioni riguardo ad alcuni aspetti principali. Esaminiamone alcuni:
– i tempi di avvio dell’emigrazione di massa (in ritardo rispetto ad altri contesti regionali). Le ragioni del differimento temporale sono da ricercare nel costante isolamento della Sardegna, nella ritardata spinta della transizione demografica, ma anche nelle difficoltà relative al sistema dei trasporti interno e nel flusso tutt’altro che intenso di informazioni riguardo alle reti migratorie;
– le destinazioni, privilegiando come meta principale il continente europeo, piuttosto che le traiettorie transoceaniche;
– l’incidenza dei flussi in uscita rispetto alla popolazione residente: la Sardegna, di fatti, è sempre stata sostanzialmente spopolata e con una bassa densità demografica; per cui non può essere utilizzato, in questo caso, il paradigma secondo cui l’emigrazione rappresenta una “valvola di sfogo” per le aree sovrappopolate.
Bisogna far risalire alla fine del XIX secolo le prime ondate migratorie di particolare consistenza. Basti pensare che nel periodo 1876-1900 le persone emigrate dalla Sardegna furono circa 8.000, mentre nel primo Novecento (in particolare tra il 1901 e il 1915) si registrarono poco meno di 90.000 espatri. Nel periodo precedente la seconda guerra mondiale, durante il quale si manifestarono i funesti effetti della “grande depressione” conseguente alla crisi del ’29, i flussi emigratori subirono una sostanziale battuta d’arresto. Oltre alla crisi economica giocarono un ruolo decisivo anche le politiche restrittive poste in essere dai Paesi di immigrazione (fra cui gli Stati Uniti), di pari passo con il contenimento delle partenze voluto dal regime fascista.
Alla fine della seconda guerra mondiale, invece, si registrò una forte ripresa degli espatri. Non a caso, gli anni ’50 vengono considerati da alcuni studiosi come un periodo di “nuova emigrazione”. Le traiettorie di questi nuovi flussi coinvolsero principalmente le regioni dell’Italia nord-occidentale, con una presenza comunque significativa anche nell’area laziale e tosco-emiliana. L’emigrazione verso l’estero, invece, confermò ancora una volta la preferenza dei sardi per il continente europeo. Relativamente all’emigrazione verso l’estero, si è già rilevato come i sardi privilegiarono i Paesi europei. Anzitutto la Repubblica Federale Tedesca, il Paese in cui tra il 1962 e il 1966 si concentrò circa la metà di tutti i sardi emigrati in Europa; ma anche la Francia, il Belgio, la Svizzera e i Paesi Bassi. Tra i Paesi transoceanici, invece, l’Argentina continuò a rappresentare una meta privilegiata ancora nel corso degli anni Sessanta. Durante gli anni ’70 si verificò un ribaltamento del movimento migratorio, con dei saldi finalmente positivi. A cominciare ad intraprendere la strada del rientro furono per lo più gli emigrati provenienti dalla Germania, dalla Francia e dalla Svizzera; mentre tra coloro che rientrarono dai Paesi extra-europei si segnalarono soprattutto gli emigrati provenienti dall’Argentina e dagli Stati Uniti. Il fenomeno dei rientri e i flussi degli anni ’80 e ’90 costituiscono la cifra di una nuova mobilità, definita “vai e vieni”, che caratterizza in modo distintivo la Sardegna della fine del Novecento. Peraltro, negli ultimi anni hanno cominciato ad affacciarsi anche nell’Isola nuovi e più complessi aspetti concernenti le dinamiche demografiche: in primis il saldo naturale, costantemente negativo dal 1998 fino ad oggi (fatta eccezione per il 2000), e il progressivo invecchiamento della popolazione residente. Oltre a ciò, va pure rilevato come anche la Sardegna, così come le altre regioni italiane (sebbene in misura contenuta rispetto a queste), stia diventando progressivamente terra di immigrazione. Per quanto concerne il periodo a cavallo fra la fine del Novecento e il 2000 i dati Istat sulle iscrizioni e cancellazioni anagrafiche (da e verso l’estero) registrano un saldo in perdita. Di fatti, se si considera il periodo 1996-2003 (fatta eccezione per un solo anno) il saldo è stato costantemente negativo. Il che significa che in questo periodo la Sardegna ha perso mediamente oltre 500 cittadini ogni anno. Una nuova stagione di flussi migratori, in cui convivono la presenza crescente degli stranieri nell’Isola e la ripresa delle partenze verso altre regioni italiane e verso l’estero, seppure secondo la specifica tipologia della mobilità “vai e vieni” e con caratteristiche socio-demografiche alquanto diverse rispetto al passato, hanno di fatto aperto un nuovo capitolo della storia migratoria della Sardegna in questo inizio del terzo millennio. Le dimensioni regionali e alcune questioni aperte. Per la Sardegna, così come per molte altre Regioni italiane (in particolare del Mezzogiorno), l’emigrazione continua ancora oggi a rappresentare una realtà importante e in continuo divenire. Il fenomeno dei flussi in uscita continua ad accompagnare non poche comunità territoriali, sebbene con caratteristiche differenti rispetto al passato, per il profilo quantitativo e qualitativo che contraddistingue l’attualità: un fenomeno che, stante il recente acuirsi della crisi economica, potrebbe rivelarsi di portata ancora più ampia nell’immediato futuro. Al giorno d’oggi sono in molti a chiedersi quale possa essere il contributo delle associazioni che si occupano della tutela degli emigrati (vecchi e nuovi), in particolare nel governare la complessità del momento presente; aspetti, questi, affrontati diffusamente nel Rapporto Italiani nel Mondo. Da più parti, segnatamente in questi ultimi anni, si sottolinea come lo stesso sistema di relazioni tra le vecchie e le nuove generazioni di emigrati costituisca spesso un forte elemento di conflittualità. Taluni, non senza una nota polemica, ritengono che in alcuni casi i circoli di matrice regionale siano rimasti troppo a lungo chiusi in se stessi, limitandosi ad organizzare attività interne per i propri soci.