di Alfonso Stiglitz
Giugi rei fiat babbai / fillu miu cavalleri: / e comenti ispiegai / ca deu seu stadderi*
Così malinconicamente riflette Pedru, figlio spurio di Mariano V, figlio a sua volta di Eleonora, secondo la Carta di Fraus ritrovata/inventata da Giulio Angioni. L’idea di una identità legata a un passato glorioso nel quale noi, pallide larve, possiamo ritrovare il nostro essere sardi e risollevarci, attraverso una identità nazionale che, a partire dalla lontana preistoria, ha percorso indenne l’incidentato cammino dei millenni sino a oggi, permettendo ai nostri figli di diventare, magari, cavalieri. La paura che questa storia non sia poi tanto certa o non adeguatamente nobile portò, e porta ancora oggi, alla necessità di invenzione, nel senso di ritrovamento e, contemporaneamente, di creazione, di una sequenza storica nella quale ogni tassello vada al suo posto. Tra le Carte d’Arborea e le Atlantidi attuali c’è un filo rosso, travagliato, che le collega nelle finalità e nel metodo. Dall’altra parte il pensiero positivista, dall’800 a oggi, ha notevolmente influenzato la lettura che della Sardegna e della sua storia viene ancora data. In quel contesto nasce “scientificamente” l’idea di un’identità nazionale che affonda le radici nel passato possibilmente remoto, nel quale si sono formate le caratteristiche del nostro essere sardo: la sarda stirpe, “razza maledetta”, come la definì Niceforo, determinata dall’ambiente e dall’isolamento. Un assunto ripreso e ribaltato dal pensiero razzista fascista per il quale fu proprio l’assoluta integrità dei sardi dalla preistoria ai giorni nostri a determinarne la purezza razziale e, quindi l’appartenenza a una razza superiore. Il combinato di questi due percorsi paralleli, le false carte e la stirpe che si mantiene pura sino ai giorni nostri, percorrono l’ultimo secolo senza che una reale riflessione sia stata fatta non su quei sistemi, fortunatamente estinti, ma su come quei modelli ancora oggi siano vivi. Il mito di Atlantide, in particolare, sta riscuotendo un notevole successo in Sardegna, che “risultò la prima isola a venire scelta e ivi solo ‘l’uomo di casta’, in principio errante si fermò, ponendovi sacrale e imperitura dimora” (Paolo Valente Poddighe), come recita uno dei vari libri dedicati al tema usciti negli ultimi anni. Il mito si fonda sull’esistenza di una civiltà superiore a tutte che dominò il mondo e di cui noi siamo i nobili eredi, anche se un po’ decaduti. Un filone di pensiero volto all’individuazione della sede privilegiata della civiltà superiore, che trova nella prima parte del XX secolo alcune sponde scientifiche la cui onda lunga ancora si percepisce. A dare la svolta scientifica all’utilizzo del mito di Atlantide fu un archeologo, Spyridion Marinatos. Con gli scavi di Thera – Santorini, Marinatos individuò le supposte prove della realtà del mito identificando in quella minoica la Civiltà atlantidea distrutta dalla catastrofe naturale. E non pare del tutto casuale che Spyridion Marinatos alla fine degli anni ’20 si trovi in Germania e faccia propri i precetti della Associazione segreta Thule, che aveva tra i suoi membri Hitler, Himmler e che quarant’anni dopo sia l’archeologo di riferimento dei Colonnelli greci. Un ambito di pensiero che aveva al suo centro la ricerca di Atlantide, talmente spasmodica che i nazisti fondarono una società archeologica dal significativo nome di Deutches Ahnenerbe (Eredità degli antenati). Si ha notizia che abbia svolto indagini anche nella nostra isola.
Oggi la Sardegna, soprattutto quella nuragica, è afflitta da una quantità di pubblicazioni che di volta in volta la collegano ad Atlantide, agli Shardana, ai Giganti, agli Adoratori di Yhwe. Come se l’essere stati nuragici, per citare una delle nostre identità, non basti a garantirci un posto nella Storia. Sembra quasi che ci vergogniamo della nostra storia, che la riteniamo non adeguata e che quindi necessiti di essere abbellita, arricchita, fino a invocare la distruzione di Poseidone, il maremoto, perché così, distruggendoci ci nobilita agli occhi del mondo. Da qui la spasmodica ricerca di dati archeologici, o presunti tali, che proverebbero la realtà di questo momento apicale della nostra storia, che solo la pervicace volontà di occultamento “dell’Accademia” (qualunque cosa voglia dire questo termine) tiene nascosti al popolo per impedirgli di prendere coscienza della propria identità. Modelli che travisati e spesso banalizzati sono alla base del proliferare di una miriade di pubblicazioni che ormai riempiono gli scaffali delle librerie e le pagine dei mezzi di comunicazione. Ricostruzioni e letture che poi finiscono per avere un grande seguito nell’opinione pubblica grazie a mass media compiacenti e ignoranti e, ahimè, nelle scuole per la traballante preparazione di vari insegnanti e l’assenza di uno studio curricolare della storia sarda. Per questo è sempre più urgente e necessario che nelle nostre scuole sia presente l’insegnamento della storia sarda, affidata non alle fantasiose proposte di esperti improvvisati, comunicatori della necessità di aumentare le vendite dei propri libri, sostenuti spesso da pubblici amministratori; ma realizzata all’interno della struttura curricolare, da docenti che abbiano fatto i regolari percorsi di studio e ricerca. Per questo è necessario anche un salto editoriale qualitativo con la produzione di libri di testo che inseriscano, inquadrandola nel più ampio ambito mediterraneo, la realtà e la grandezza di tutto il nostro percorso storico dalla lontana preistoria sino all’attualità. Solo così saremo in grado di superare la paura delle nostre identità e abbandonare l’idea per cui esisterebbe un’unità culturale definita a monte, che continua immutata sino ai giorni nostri, pallida eco di quei tempi gloriosi. Paura che ci porta ad avere a che fare con bandiere ideologiche dall’alto potere consolatorio, piuttosto che con persone in carne e ossa, gli uomini e le donne che ci hanno preceduti, perché le persone ci pongono problemi, ci chiamano alle nostre responsabilità e ci mettono davanti alla nostra identità che non è il cammino glorioso di una razza pura, ma il tortuoso sentiero di un popolo che si identifica nelle sue molte identità.
*Per i non parlanti il sardo questa è la traduzione: “Re Giudice era babbo/ Mio figlio cavaliere / Come si può spiegare / che io sono stalliere?” (G. Angioni, Millantanni, Nuoro 2002).