ANIME PRIGIONIERE: LA PROTESTA DEI DIPENDENTI DELLA "VINYLS" DI PORTO TORRES
di Omar Onnis
I lavoratori dipendenti della Vinyls di Porto Torres, specie i più esperti e dotati di coscienza di classe, hanno dato prova di dignità e di lucidità di giudizio, questo va loro riconosciuto. Tuttavia, mi è sembrato evidente un corto circuito nel loro ragionamento. D’accordo la difesa del lavoro. Del loro, come del lavoro in generale. Ma qui c’è un primo equivoco. Da troppo tempo, causa le strutture fondanti della stessa modernità, si sovrappongono due concetti che in realtà andrebbero distinti. Ci viene in soccorso la lingua inglese. I due concetti, tradotti entrambi in italiano con lavoro (traballu, in sardo), sono quello di job e quello di work. Il primo può essere reso con la parola impiego, ossia il lavoro salariato o stipendiato, tipico della modernità. Il secondo indica il lavoro tout court, l’attività lavorativa in quanto tale. Nonostante una certa preparazione politica, i lavoratori di Porto Torres, autoreclusi nell’ex carcere dell’Asinara, non hanno maturato tale distinzione. Complice anche un sistema che vede ormai i sindacati piegati e appiattiti su posizioni teoriche e concettuali proprie della loro controparte. Così, ho sentito parlare giovani operai di disperazione per l’eventualità di non poter più lavorare nella produzione di PVC. Una produzione pericolosa, fonte di malattie professionali e di inquinamento ambientale, diretto e indiretto (pensiamo solo al costo dello smaltimento della plastica nei prossimi decenni). Non solo, la disperazione veniva estesa alla generazione successiva: senza la chimica, che futuro potremo dare ai nostri figli? La domanda incombente, espressa infine da uno degli operai, era di questo tenore. Dal che discendono i corollari delle rivendicazioni al governo e l’appello nientemeno che all’interesse nazionale dell’Italia nel settore chimico. Ecco, questa scena, con tutte le connotazioni che evoca, mi fa pensare che la prigionia autoindotta sia una efficace allegoria di una prigionia di altro genere, di cui i lavoratori di Porto Torres, e molti sardi come loro, sono vittime. Una prigionia multipla, dovuta a una perdurante deprivazione culturale e materiale, nient’affatto inevitabile. Vedersi come subalterni e destinati non alla povertà ma alla miseria (due concetti anche qui facilmente equivocabili) fa sì che venga accettata come condizione ottimale quella della servitù e della dipendenza. Ma il lavoro non è necessariamente “dipendente”. Non lo è in vari sensi. Anche il lavoro dipendente, nel senso corrente della definizione, tutta interna ai meccanismi economici moderni, può avere dei profili di indipendenza. A maggior ragione se stacchiamo dalla parola lavoro il concetto di impiego salariato. Una terra come la Sardegna, vasta e ricca di potenzialità, con una densità umana bassa, ma non al punto da non potersi reggere da sé, con un settore primario (agricoltura e allevamento) in fase di smantellamento e i due terzi abbondanti dei lavoratori (= degli impiegati) collocati nel settore terziario, non può realisticamente piegare tutte le sue aspettative economiche sull’industria pesante e inquinante, per sua stessa inerzia votata alla chiusura e alla delocalizzazione. L’illusione devastante, esiziale, che per esistere abbiamo bisogno di dipendere dalla forza altrui (che sia quella di una multinazionale o quella di un governo lontano e alieno, poco cambia), non ha più ragion d’essere. È un sintomo della prigionia interiore di cui soffriamo. E si scontra con la realtà. Avrei voglia di abbracciare quei fratelli prigionieri, isole nell’isola, di abbracciarli e di scuoterli. Di farli svegliare, far loro aprire gli occhi. Non voglio più sentire un mio conterraneo invocare di essere avvelenato e di avvelenare la nostra terra in nome di una busta paga. Tanto meno voglio sentirlo invocare l’avvelenamento, fisico e spirituale, dei nostri figli, delle generazioni che ci seguiranno. Le alternative ci sono. Bonificare le aree industriali dismesse o in fase di dismissione sarà un compito lungo e complesso, i cui protagonisti e artefici saranno in primo luogo quegli stessi lavoratori che tale disastro hanno concorso a creare, ricattati nella loro stessa sopravvivenza. Ma si può fare e ci sono i mezzi giuridici ed economici per avviarla subito. Riconvertire tali aree a produzioni energetiche nuove e a tecnologie utili e pulite sarà il passo successivo. E anche lì, se non loro stessi, i loro figli avranno qualcosa da fare e da guadagnare. E non parliamo della riconquista della terra, della necessità di riappropriarci della nostra fonte primaria di sostentamento, il cibo che consumiamo quotidianamente, oggi per il 70% proveniente dall’esterno! Animo, fratelli! Non abbiamo bisogno di piegarci alla logica della società dello spettacolo e nemmeno di implorare che ci lascino addosso le catene, per essere coscienti di esistere. Fuori dalla prigione! Respiriamo l’aria della libertà. Per noi e per chi ci seguirà.
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