di Sergio Portas
Si fa presto a dire “ servitù militari”, che noi sardi possiamo legittimamente aspirare a primati ineguagliabili nel mondo tutto, anche a Milano però, nei pieghi del patrimonio immobiliare della città se ne possono scoprire delle belle. Palazzo Cusani, a due passi dall’Accademia di Brera, perduto a dadi da un rampollo la ricchissima famiglia meneghina alla fine dell’ottocento (due cardinali nel suo “palmares”), è gestito a “circolo ufficiali” da un reparto NATO, che si guarda bene dal farsi troppa pubblicità, pena l’esproprio del “bene” da parte di una società civile che non vede, non sente, non protesta abbastanza. Non che io voglia mandare gli ufficiali italiani a vivere sotto le tende (babbo mio è stato militare di carriera nei carristi), ma che debbano occupare spazi tanto prestigiosi, precludendone l’uso ai civili che tutti i diritti avrebbero per farne siti di uso museale comune, mi pare francamente assurdo, tipico di quest’Italietta che suole dimenticarsi di se stessa. Oggi mi ci fanno entrare, eccezionalmente, ché Gianluca Medas insieme a un Andrea Congia, chitarrista dalla barba non fatta ,drammatizzano una “piece” di Giuseppe Dessì: ”La Trincea”, un lavoro con cui lo scrittore di Villacidro aveva inaugurato le trasmissioni della rete due quando ancora la televisione pubblica era monopolio nello Stato, prima di Berlusconi imprenditore e oggi altrettanto monopolista, pare un secolo fa. Il tutto a corollario della mostra sulla “Brigata Sassari” che si può visitare al museo del Risorgimento. La storia della trince Dessì se l’era fatta raccontare dal padre, militare di carriera, ufficiale della Brigata sassarina nella prima guerra mondiale: la “grande guerra” per antonomasia. Fu in quel frangente che si completò la formazione di due nazioni complementari: la nazione italiana in quanto stato compiuto con confini definiti (Trento e Trieste e la Dalmazia) e, non tanto paradossalmente, anche la nazione sarda prese atto di esistere e cominciò a reclamare il diritto di continuare a farlo. All’inizio del novecento i sardi erano circa ottocentomila, praticamente tutti parlavano in limba e la stragrande maggioranza di loro non sapeva né leggere né scrivere. Le donne mai avevano votato, né in vita loro lo faranno fino a che un’altra guerra mondiale darà loro il via libera, immaginatevi cosa dovevano essere le elezioni per mandare in Parlamento i rappresentanti sardi del regno, in cui già allora la casa regnante teneva i dettami dell’organo rappresentante il “popolo” ad uso di parere senza importanza alcuna. Tant’è che il Savoia di turno entrò in guerra contro il parere maggioritario dell’ Assemblea elettiva. La circoscrizione riguardò tutti maschi in età di combattere, i ragazzi sardi si radunarono chi a Cagliari chi a Sassari, le fotografie del tempo ce li mostrano vestiti col costume, già rapati a zero contro i pidocchi da trincea. Stupiti che potessero intendersi l’un l’altro pur provenendo dagli stazzi di Gallura piuttosto che dalle miniere guspinesi, tutti balentes con in tasca coltelli affilati a custodi di un onore personale che nessuno, in alcuna circostanza, doveva osare di mettere in dubbio. Molti di loro mai avevano lasciato il paese natio, quelli del capo di sopra scoprivano con stupore che i “maureddini” reggevano la vernaccia quanto e più di loro, quelli del capo di sotto prendevano atto che i “barbaricini” giocavano alla morra con la stessa maestria, tutti sapevano ballare a “ballu tundu”, i più andavano a cavallo che neanche Buffalo Bill. Non mancavano tenores e poeti che sapessero improvvisare terzine spiritose a danno degli avversari di turno. Furono uniformati con divise di panno grigio ferro, le mostrine bianche e rosse , colore della bandiera di combattimento coi mori inquartati dalla croce, loro anche inquadrati in due battaglioni, il n° 151 e il 152: era nata la prima e unica brigata etnica dell’esercito italiano: la mitica Brigata Sassari. Mitica lo diventerà poi sul Carso, la Bainsizza, l’altipiano di Asiago, la ritirata di Caporetto. Qui i nostri definitivamente fecero l’Italia e la Sardegna. Dell’Italia in verità nulla sapevano, né della lingua che lì vi si parlava, né delle tradizioni, che per essa si dovesse combattere e morire era una novità relativa, nel senso che spesso reparti sardi di combattenti avevano dato il loro sangue per vicende che solo di striscio riguardavano il loro paese. Questa volta però era tutta la gioventù isolana che era coinvolta nell’impresa, consapevole che a casa erano rimasti solo vecchi, donne e bambini e che nessuno di loro era in grado di coltivare i campi come prima o di stare dietro al bestiame con la dovuta attenzione, insomma che a casa lo spettro della fame non era una “leggenda metropolitana”ma una realtà che si andava manifestando inesorabilmente. Vi risparmio il numero di medaglie individuali, le imprese belliche di ogni tipo, il numero di morti, per percentuale il più alto di tutto l’esercito italiano, i feriti e i mutilati. La brigata ebbe due medaglie d’oro al valor militare. Quando i reduci dal fronte rientrarono in Sardegna, dopo che Diaz a Vittorio Veneto fece dimenticare Caporetto, erano decisi a che le cose di casa non fossero più quelle di prima. Alcuni giovani ufficiali( loro sì laureati) che si erano distinti nel comando dei militari sardi fra le trincee del Carso e con loro avevano rischiato infinite volte la pelle, tra gli altri Camillo Bellieni , Emilio Lussu, diedero vita a un movimento che non riuscì a farsi partito ma che stravinse le prime elezioni del dopoguerra: il “Partito Sardo d’azione”. Ma facciamo parlare Lussu:”…Fin dal primo momento, fu un generale movimento popolare,sociale e politico,oltre la cerchia dei combattenti. Fu il movimento dei contadini e dei pastori sardi… Tutti uniti, i combattenti di tutte le formazioni, e con essi le loro famiglie e in più gli altri, contadini, pastori, operai, artigiani, che non avevano fatto la guerra, fecero crollare subito l’organizzazione dominante di clientele elettorali che avevano dato, fino ad allora,la rappresentanza ufficiale dell’Isola, durante la Destra e la Sinistra storica … Nelle elezioni politiche del ’19, il movimento mandava quattro rappresentanti alla Camera. Nelle elezioni comunali e provinciali del ’20, oltre la metà dei comuni furono conquistati.” Il tutto portato a casa senza possedere giornali e mezzi d’informazione, bastò avere ben chiaro la meta a cui tendere: una larga autonomia dall’Italia e una più giusta divisione della ricchezza isolana. Ci pensò il fascismo di Mussolini a far naufragare il sogno ( non senza morti di mezzo), la bandiera dei quattro mori non doveva più sventolare, abolite le gare poetiche in limba, tutti eravamo di nuovo solo ed esclusivamente italiani, seppure stretti in una camicia nera. Per vent’anni. Una vita. Una generazione. Da quell’altro grande massacro mondiale del ‘40 il Partito Sardo d’azione uscì monco, molti sardi parlavano oramai prioritariamente l’italiano, la Costituente ci regalò un’autonomia largamente deficitaria. La nazione sarda subiva lo sgretolamento più insidioso nelle perdita dell’identità più caratterizzante: la lingua. E il processo appare inarrestabile. Che lingua vuol dire costume, società, storia, cultura. Nella scorsa legislatura Renato Soru fece pallidi tentativi di riscossa a questo riguardo, risorse per la lingua sarda da insegnarsi a scuola, lingua sarda comuna ecc. Fu comunque mandato a casa da una formazione politica che si presentò col simbolo a nome “Berlusconi”, che il presidente poi eletto, Cappellacci Ugo, non aveva avuto il coraggio di spendere il suo di nome. Ma la gente che va a votare è sovrana nelle sue scelte. E di questi periodi che ci tocca di vivere avere giornali e televisioni personali fa una certa differenza nelle competizioni elettorali. Uno dei dirigenti del Partito Sardo d’azione (di adesso), ho letto, ha consegnato la bandiera dei quattro mori al Silvio nazionale. Se
era sorella di quella del 1920 doveva essere listata a lutto, allora per tutti i soldati sardi morti nella grande guerra, oggi per la morte annunciata della nazione sarda. Da “Forza paris” a “Meno male che Silvio c’è”.