LA CRISI DELLA GRANDE INDUSTRIA SARDA COINCIDE CON LA FINE DELLE PARTECIPAZIONI STATALI

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LA CRISI DELLA GRANDE INDUSTRIA COINCIDE CON LA FINE DELLE PARTECIPAZIONI STATALI

CHIMICA E ALLUMINIO, IL SOGNO DEGLI ANNI D’ORO

Passaggi di tempo, giri di poltrone attorno alla grande impresa, illusione d’avere benefici per il sistema economico. Uno sviluppo anomalo quello della Sardegna, a partire dal decennio d’oro degli anni 60, caratterizzato su base locale (Sulcis, Porto Torres, Ottana). Una corsa interrotta nel 1992 con la fine dell’intervento per il Mezzogiorno. Il crollo della chimica sarda, dell’alluminio e della grande industria, coincide con la fine del sistema delle Partecipazioni statali ma, in realtà, le difficoltà ci sono sempre state, sin dalla nascita nei formidabili anni 60. Un filo rosso ha legato nei decenni le difficoltà dell’impresa: questioni mai risolte come l’energia, le infrastrutture di base, strade e porti, la mancata continuità territoriale per le merci. Una parte importante nella storia dell’industria regionale è stata scritta nel settore minerario, seguita dalla chimica, dal petrolio e dall’alluminio. Se la guerra della chimica è più nota, la storia della metallurgia si sovrappone a quella di un ente di Stato, l’Efim, il primo fra tutti ad essere stato sciolto con un rosso profondo di bilancio. L’idea della chimica nell’isola era stata concepita sull’onda del Piano di Rinascita. Già nel 1960, l’ingegner Nino Rovelli circolava a Cagliari nei vecchi uffici del Credito industriale in cerca di udienza per farsi finanziare i progetti. Dopo un po’ di anticamera  trovò il canale giusto per farsi finanziare il “piano per Porto Torres” con un espediente. I finanziamenti erano stati previsti per le piccole e medie imprese con un massimo di 6 miliardi di lire; non bastava e la Sir di Rovelli “ripartì” l’intero investimento del ciclo produttivo in una miriade di società. Anni di fermento e di finanziamenti “creativi”. La crisi mineraria aveva creato un disastro e il governo, per tamponare la ferita individuò nell’alluminio il volano per il Sulcis. Lo sfruttamento della miniera aveva dato i suoi frutti ma il declino dell’industria del piombo e dello zinco s’iniziò alla fine degli anni 60 per la profondità dei giacimenti, per il basso tenore di metallo dei minerali e per l’elevato fabbisogno energetico. Per dare uno sviluppo industriale univoco all’isola, due sassaresi illustri, il presidente Antonio Segni e Stefano Siglienti, plenipotenziario dell’Imi, spinsero per la soluzione della petrolchimica giudicata da tutte le forze politiche, come un elemento essenziale. C’è da dire che la petrolchimica dominava in tutto il mondo, il mercato aveva necessità di nuovi prodotti e la Sardegna sembrava offrire buone opportunità. Perché la scelta di Porto Torres e Macchiareddu? I presupposti non mancavano: a Cagliari c’era una salina per l’approvvigionamento di materia prima e il Porto canale avrebbe potuto eliminare le spese per la movimentazione del prodotto. Tutti sanno che l’unica realtà fu la salina perché il Porto canale restò in costruzione per svariati decenni. Allo stesso modo la scelta di Porto Torres fu giudicata appetibile per la possibilità di trasportare forti quantitativi di petrolio via mare, per l’esistenza di una grande zona industriale, per la vicinanza del porto capace di ospitare navi da 15mila tonnellate. Mentre al Cis vanno avanti le pratiche di Sir e Rumianca con il tramite della Cassa per il Mezzogiorno e la Bei, il modello è quello dell’industria pesante. La Sir compra la Rumianca di Renato Gualino, a Villacidro la Snia Viscosa rileva una fabbrica di fibre, a Sarroch spunta la raffineria. Nella chimica, il “giro del tavolo” porta i manager ad amministrare prime aziende pubbliche (Eni) e poi private (Montedison). Alla Regione la giunta Del Rio non trovò nulla da obiettare sulle conclusioni della commissione parlamentare  che proponeva l’industrializzazione della Barbagia. Una vicenda politicamente giocata in casa Dc, o meglio dorotea, dal ministro Taviani a Del Rio. Dopo anni di emigrazioni, per la Sardegna sembrava aprirsi un nuovo capitolo. E sul piano industriale, crescevano le competenze degli operai sardi. Ma la sinistra Dc, preoccupata dal gigantismo di Rovelli, si rivolse a Eugenio Cefis, presidente Eni, per contrastare la decisione di Rovelli di installarsi a Ottana. “L’industria nel nuorese sarà pubblica” promise Cefis. Si cercò un accordo che non riuscì a l’Anic ebbe dal Cipe il via libera per costruire a Ottana una fabbrica uguale a quella aperta da Rovelli che, come d’abitudine, divise il progetto originario in tre siti (Ottana, Isili e Lula), per poter ottenere più soldi. Rovelli esce di scena nel 1978: “Non ha i mezzi per alimentare i cicli produttivi e ha pianto calde lacrime” avrebbe detto l’ex governatore Baffi. La fine dell’intervento straordinario chiude la storia degli enti di Stato e apre le pagine delle privatizzazioni. Da allora risentiamo di una crisi di valori legata alla cultura economica, quel guardare all’economia stando a metà strada tra l’assistenzialismo e il far west ultra liberista.

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