di Mario Carboni
Anni fa nel 2003 o nel 2004, avevo scritto che si sarebbe potuto affermare in quale anno, all’incirca, l’Alcoa avrebbe chiuso lasciando il Sulcis in braghe di tela, indicando il 2007. Mi sono sbagliato solo di qualche anno, il 2010, ma non sull’evento. Credo che scomparirà il ciclo dell’alluminio in Sardegna, iniziando un velocissimo conto alla rovescia da questo anno. Già allora era evidente che una principale concorrente della Sardegna fosse un’altra isola, l’Islanda. I 103 mila Km/q dell’Islanda sono abitati solamente da 286mila persone, in gran pare concentrate nella capitale. È un’enorme isola semi disabitata, Repubblica indipendente esterna all’Ue, dotata d’enormi risorse idriche per produzione d’elettricità e di calore geotermico in quantità illimitata e sfruttabile, data la sua attivissima natura vulcanica. Le sue produzioni sono pesca ed alluminio. Dalla metà del secolo scorso, le maggiori società produttrici d’alluminio, ad iniziare dalla pioniera Alusuisse, operano nell’isola nella quale si producevano al ’93 oltre 260 mila tonnellate d’alluminio, quasi una tonnellata per abitante, la più alta percentuale del mondo. Era previsto per il 2010 l’aumento della produzione ad oltre 1 milione di tonnellate annue. L’elettricità costava allora in Islanda 1,92 centesimi di dollaro al kWh mentre in Italia, la più cara d’Europa, costava ben 6,52 centesimi di dollaro. Le tasse per l’industria sono bassissime, simili alle irlandesi con le relative facilitazioni all’insediamento ed alla gestione, senza i vincoli UE.L’Alcoa, dopo l’approvazione del Parlamento locale del 5 marzo 2003, ha definito gli accordi col Governo Islandese e la Compagnia energetica nazionale Landsvirkjun, per la costruzione di una nuova fabbrica nell’Islanda orientale capace di produrre annualmente 330 mila tonnellate d’alluminio. Si chiama oggi Fjardaal "alluminio dei fiordi" e vi sono stati investiti oltre 1 miliardo di dollari in quattro anni. Il progetto comprende, un porto e nove dighe per fornire elettricità, tre bacini idrici, una serie di tunnel. In particolare, è stata costruita una centrale elettrica da 690 MW servita dalla diga Karahnjukar, alta 190 metri e che formerà un bacino idrico di 57 km/q, investendo 1,2 miliardi di dollari. La prima pietra è stata posta nel 2005 per produrre all’inizio del 2007 e il Governo islandese ha negoziato una clausola di esenzione per l’emissione di gas serra, elevatissima nel ciclo dell’alluminio primario, nel Protocollo di Kyoto.
Da notare un dato poco pubblicizzato che pone la Sardegna, Isola creduta nell’immaginario collettivo un giardino dell’Eden di natura incontaminata, come la regione con le più alte emissioni di gas serra d’Italia e fra le prime in Europa. Credo che il default dell’economia islandese, sia un altro elemento che rafforzerà invece che deprimere, gli sforzi per aumentare la produzione Alcoa di alluminio primario in Islanda, ancora a detrimento della Sardegna. Sarà proprio un elemento di salvataggio di quest’Isola lontana in grave crisi finanziaria, favorito per il fatto che il suo Governo oggi è disposto ad ancora maggiori concessioni ambientali pur di mantenere un’attività industriale così importante anche in vista della ripresa dell’economia mondiale. L’alluminio essendo prodotto nel resto del mondo in massima parte da fabbriche che dipendono dal carbone e dal petrolio, vedi Cina, causa un enorme effetto serra, in Islanda non sarà così con l’energia idroelettrica e geotermica impiegata pulita e che costa pochissimo. Proprio dall’inizio di questo progetto islandese il ciclo coloniale dell’alluminio sardo si è avviato alla chiusura. Ogni anno la richiesta mondiale del metallo aumenta di 900.000 tonnellate, e dopo la recente flessione dovuta alla crisi mondiale, la sua domanda è in rapida crescita. Questa linea di tendenza presente prima dell’ultima grande crisi finanziaria, industriale e dei consumi si è accentuata con le scosse d’assestamento che precedono la prossima uscita dalla crisi e dalla recessione. La caduta dei consumi di alluminio in Occidente ed in Cina si è arrestata e si prevede a breve una forte e accelerata ripresa. Le grandi multinazionali si apprestano a produrre quantità di alluminio ancora più elevate e a costi concorrenziali concentrando le produzioni e integrandole dalla miniera al laminatoio, tagliando sui costi superflui e di trasporto, accedendo ad energia in grandi quantità ed a costi più bassi, eliminando il più possibile le spese di salvaguardia ecologica e sanitaria, allocandosi dove c’è meno democrazia, rispetto dei diritti umani, civili e sociali e dove si può inquinare massicciamente. Non è a caso che la Cina stia aumentando velocemente le sue produzioni per diventare il primo produttore ed esportatore di alluminio. I più attenti analisti prevedono che la Cina, ormai un gigante nella produzione, consumo ed esportazione di alluminio, non potrà però supplire con la sua produzione al consumo interno in via di rapidissimo aumento e dovrà nel prossimo decennio importarne in grande quantità e probabilmente l’alluminio importato costerà sempre più meno di quello di produzione domestica. Resta quindi aperto il mercato del sud est asiatico che s’appresta ad un grande sviluppo delle produzioni uscendo dalla recessione globale. L’alluminio cinese costerà più di quello importato sia per la vetustà dei propri impianti e della tecnologia impiegata ma anche perché le condizioni di lavoro, sicurezza, sociali e salariali, ambientali, oggi quasi schiavistiche e inquinanti oltre ogni misura, evolveranno certamente causando un sensibile aumento dei costi. L’ALCOA per rispondere a queste sfide ha comunicato alla fine di dicembre di aver siglato un accordo per mettere in marcia nei prossimi anni un gigantesco sistema integrato di produzione d’alluminio in Arabia Saudita investendo 10,8 miliardi di dollari in una joint venture con la società mineraria saudita Ma’aden. L’ALCOA parteciperà al 40% in un partenariato d’investimento che controllerà col suo 20%, lasciando ai sauditi il restante 60%, prevedendo l’inizio della produzione per il 2014 e che avverrà in due tempi. La raffineria del minerale, la fonderia e il laminatoio saranno stabiliti in una zona industriale di Raz Az Zawr sulla costa orientale dell’Arabia Saudita mentre una miniera di bauxite sarà coltivata a Al Ba’itha, vicino Quiba.Per le prime produzioni l’ALCOA fornirà l’allumina necessaria importandola dall’esterno, impegnandosi nella progettazione e, costruzione e gestione per aggredire il mercato del Sud est asiatico compresa la Cina e l’India. La scelta di allearsi con il paese che possiede la più alta capacità energetica a basso costo, capitali infiniti e le zone semi abitate prospicienti l’India si spiega anche con la possibilità d’importare mano d’opera e tecnici in grande quantità senza gli impedimenti di legislazioni democratiche e civili, assenti nell’Arabia Saudita. Questa ulteriore scelta ALCOA conferma la linea d’abbandono della Sardegna ritenuta antieconomica e non più funzionale alle sue strategie globali. Si dovrebbe quindi guardare la realtà per quella che è per non subire un processo di decolonizzazione che lascerebbe in Sardegna ed in particolare nella zona interessata solo macerie e disincanto, iniziando a progettare una via di alternativa.
Tale via, a mio parere, passa per la definizione di un
piano finanziato dallo Stato e dall’Unione Europea, con una legge apposita. Tale legge come nel caso della riconversione di Bagnoli dovrà stanziare adeguate risorse, per rinaturalizzare e riconvertire il territorio inquinato con un programma che dovrà essere poliennale e indirizzato ad occupare mano d’opera e tecnici, invece che lasciarli a marcire con un sussidio. Si dovrà quindi ripensare un diverso sviluppo, facendo rinascere l’agricoltura, il turismo e l’industria manifatturiera compatibile con la nuova vocazione della zona, anche attraverso la realizzazione della Zona Franca di PortoVesme e un nuovo regime fiscale per tutto il Sulcis Iglesiente in grado d’attrarre capitali, tecnologie e competenze in applicazione dell’Art. 12 del nostro Statuto speciale. Queste, a mio parere, dovrebbero essere le azioni da intraprendere, cessando di illudere la gente al fine di salvaguardare solo pochi interessi di un ceto che ha costruito le proprie fortune sull’onda dell’intervento industriale colonizzante e cercando finalmente di fare l’interesse dei lavoratori, delle nuove generazioni e delle popolazioni guardando al futuro. Certo che, in presenza del nulla come proposta alternativa, si fa bene a lottare con tutte le forze almeno per ritardare le chiusure e per smascherare le reali intenzioni di Alcoa, costringendola a pagare pegno nella bonifica e reindustrializzazione del territorio che ha utilizzato per quasi mezzo secolo. A volte quando viene chiusa una porta si apre un portone. Bisognerebbe però prepararsi per tempo con un piano di bonifica e riconversione produttiva dell’intero territorio pensando al futuro d’intere generazioni e della nazione sarda. Una delle possibilità è attivare, previa bonifica generale che impiegherebbe la manodopera in surplus e specializzata per svariati anni, la zona franca di PortoVesme, già definita con decreto governativo, ma non ancora perimetrata dalla Regione, attirando capitali ed imprese per un nuovo ciclo produttivo in simbiosi con il turismo e l’agroindustria finalmente liberati con le popolazioni dai mostri inquinatori e velenosi. Sono ancora una volta i sindacati e non solo loro a mostrare un ritardo culturale rispetto al liberismo delle zone franche già previste nel nostro Statuto speciale, trascurando questo tema fondamentale per dare un’alternativa al Sulcis Iglesiente e a tutti i sardi, preferendo l’assistenzialismo e lo statalismo ormai incongrui. Per ultimo è bene ricordare che sono state le produzioni delle industrie energivore (Alcoa, Glencore, Saras, chimiche varie ) che, deformando il PIL sardo, hanno fatto uscire la Sardegna dall’obiettivo uno dell’unione Europea, causando un danno enorme a tutti i sardi, di una rilevanza negativa incalcolabile, ingiusto e punitivo. Con la caduta del PIL sardo dovuto alle chiusure nella metallurgia, bisognerebbe aprire una vertenza per rientrare nell’Obiettivo 1 europeo. Per pensare a strade nuove si dovrebbe dire tutta la verità ai lavoratori ed alle popolazioni, non illudendoli e strumentalizzandoli in lotte perdenti e traumatizzanti, senza alternative di sistema, approfittando della loro buona fede e disperazione, indicando l’impegno per il posto di lavoro e la serenità e la salute incardinato in una vertenza più globale che è quella della Sovranità della Sardegna.