di Mariangela Pitturru
Scrivere o parlare di cultura mette sempre un po’ di apprensione: è una parola importante che coinvolge moltissimi aspetti della nostra vita. Mi è stato chiesto di raccontare come mi sono inserita nella vita culturale bolognese partendo da Alghero, splendida cittadina sarda dove ho vissuto per sei anni e dove tutt’ora risiede mia madre. La spinta, paradossalmente, è partita proprio da lì, da Alghero. Dal desolante divario tra le sue bellezze naturali e la sua mancanza di attrattive culturali. Dalla pressoché inesistente formazione giovanile.
Allora, vent’anni fa, non c’era possibilità né di conoscere né, tantomeno, di sperimentare. Giusto qualche sporadico momento di incontro con i prodotti noti della cultura consolidata. Nient’altro. Non c’era possibilità di crescita. Quindi, dopo la laurea, sono partita per Bologna, che all’epoca era soprattutto la "città del Dams". Era una città caleidoscopica, piena di posti off dove ci si inventava il teatro, la musica, il cinema, la poesia. Era un fermento continuo. Lo si poteva ascoltare per le strade, fino a notte inoltrata, nelle discussioni infinite seduti ai tavoli delle osterie. Mi ero appena laureata con una tesi su Carmelo Bene: fu quasi naturale approdare, professionalmente, al mondo teatrale. Che in quegli anni a Bologna voleva dire entrare nel giro della miriade di cooperative che facevano, nel senso letterale del termine, il teatro. Io vi entrai come addetto stampa (apprendista addetto stampa), senza retribuzione: mi trovai a stilare relazioni artistiche per il Ministero, a compilare i borderò per la siae, ad annotare le note di regia durante le prove, incontrare funzionari e politici di settore, organizzare rassegne di teatro per ragazzi, di teatro di ricerca. L’imperativo era quello di conquistare a colpi di battute sceniche il territorio, "l’area metropolitana". E non solo: conquistare gli spazi trasformabili in teatri. Capannoni industriali dismessi, cantine, sale condominiali, ex cinema, perfino appartamenti condominiali. L’urgenza era quella di sperimentare confrontandosi continuamente e direttamente col pubblico. Tutti i generi erano rappresentati: non c’era sera in cui non si potesse andare a vedere qualcosa. Ed erano anche molti gli artisti che arrivavano a Bologna da fuori, dal resto d’Italia e dall’Europa, dal mondo, per partecipare a quegli happening. In quegli stessi anni, la fine degli anni ottanta, nascevano anche i cosiddetti "nuovi comici", che aprivano un filone inedito la cui fortuna vediamo anche oggi. Erano Bergonzoni, Luttazzi, Albanese, Gioele Dix, Iacchetti e molti altri, che proprio attorno a Bologna gravitavano. La città crebbe con questo culto del teatro multiplo, vivo, diversificato. Molti teatri vennero ristrutturati e resi agibili andando a delineare una geografia precisa dell’offerta. Sin da subito la volontà fu quella di distinguere le specificità, cercando di non sovrapporsi, programmaticamente, gli uni agli altri. Così fu anche per il Teatro delle Celebrazioni, il teatro che attualmente dirigo: restituito dopo restauro alla città nel 1997, individuò nella drammaturgia contemporanea, nei musical e nel teatro di movimento internazionale i suo generi d’interesse primario, andando così a ritagliarsi un ruolo ben preciso nell’ambito dell’offerta spettacolare. Con le nostre programmazioni un po’ fuori dagli schemi e un modo nuovo di promuovere gli spettacoli, attirammo un pubblico diverso, quello che non frequentava i teatri. E molti giovani.
Ben presto consolidammo la nostra presenza sul territorio, acquistammo rinomanza nazionale: il pubblico si fidava di noi e anche gli artisti venivano volentieri. Questa attenzione a cogliere gli umori contemporanei, a portare in scena anche le voci scomode della satira, della critica condita con l’umorismo, è stato e continua ad essere il nostro tratto distintivo, quello per cui il pubblico ci segue. E la fiducia che ci ha tributato e ci tributa ci ha consentito di permetterci anche il lusso di inserire qualche proposta destabilizzante: compagnie sperimentali o gruppi stranieri sconosciuti, per provocare comunque reazioni, per non cullare gli spettatori nell’abitudine. Questo traguardo è quello che maggiormente mi inorgoglisce e che rivendico: dirigo un teatro privato e capiente che ha l’imperativo quotidiano di creare la fila al botteghino. Ma un buon lavoro sul versante più commerciale ci ha consentito di non rinunciare alla vocazione che, credo, tutti noi che offriamo cultura dovremmo avere: quella di guardare con curiosità a cosa si muove attorno, cosa fermenta e germoglia, e di portarlo fuori dal buio delle cantine per mostrarlo a un pubblico diverso. Magari, come nel nostro caso, lontanissimo da certe ricerche sceniche. Dopo vent’anni di assenza della Sardegna mi è difficile capire se e come siano cambiate le cose. Conosco molti artisti sardi che hanno esportato con grande successo la loro arte: Paolo Fresu, Marcello Fois, Michela Murgia. Ma li conosco qui. Ho seguito con ammirazione lo splendido percorso compiuto dall’algherese Antonio Marras, le cui prime sfilate di moda sul palco della piazza già contenevano precisi i germi di una personalità d’alto profilo quale poi s’è rivelata una volta che dall’Isola è uscito. Non so esattamente cosa si muova ora in Sardegna, se c’è stata un’evoluzione oppure no. Da qui mi piacerebbe vedere l’Isola in ascolto attento dei suoi fermenti creativi. Mi piacerebbe vedere le istituzioni sostenere proposte e progetti che rischiano, che colgono la contemporaneità, che evidenziano le differenze e cercano l’unità, che mirano a far emergere uno stile caratteristico, riconoscibile, dettato dalle radici.