Il Seminario organizzato del Circolo Sardi "Montanaru" di Udine, che conta 450 Soci, è guidato dal Presidente Domenico Mannoni. Davanti a un folto e interessato pubblico di sardi provenienti da tutto il Nord- Est, da Udine a Pordenone, Gorizia, Tolmezzo, a Mestre, Vicenza, Padova e Trento, si sono ritrovati l’on. Mauro Pili e l’on. Debora Serracchiani e il dott. Tonino Mulas a parlare di "Politiche Europee in materia di trasporti e Continuità Territoriale". Erano presenti tra gli altri: il Consigliere Regionale del Friuli Franco Iacop, la Vice Presidente della F.A.S.I. la professoressa Serafina Mascia, la Coordinatrice dei Circoli del Nord-Est signora Maria Antonietta Deroma e la Presidente Regionale dei Circoli Sardi in Friuli Venezia Giulia signora Maria Concetta Marceddu. Dopo il saluto del presidente del Circolo di Udine, del Sindaco di Udine per bocca del suo delegato, il consigliere comunale Carmelo Spiga, della Presidente Regionale Maria Concetta Marceddu che ha illustrato la realtà dei Circoli del Friuli Venezia Giulia ha preso la parola il presidente della FASI Tonino Mulas per fare una cronistoria delle iniziative dei Circoli degli emigrati a favore della continuità territoriale fino all’ultima raccolta di firme a sostegno del famoso documento sottoposto all’attenzione dei candidati alle ultime elezioni e il cui primo firmatario era il Presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga. Ha preso quindi la parola l’on. Mauro Pili per ripercorrere le tappe degli interventi regionali, statali ed europei a favore della continuità territoriale, tutti improntati al principio della solidarietà. "Siccome siete sfortunati, svantaggiati, arretrati rispetto ad altre regioni italiane ed europee, interveniamo per aiutarvi. Noi – ha proseguito Pili- non vogliamo regalie o trattamenti di favore". Era quindi normale che l’UE bocciasse definitivamente questo tipo di interventi, come privilegi che riguardavano solo un gruppo di cittadini europei, i sardi appunto e in specie i sardi non residenti, escludendo altri. Ecco perché dalla bocciatura dei vecchi interventi noi possiamo e dobbiamo partire per impostare il problema su altre coordinate. Non più trattamenti di favore, che noi sardi non invochiamo, ma trattamenti improntati al principio del riequilibrio. Vogliamo essere trattati come gli altri e pertanto non accettiamo di essere penalizzati nei confronti dei cittadini italiani e ancor più dei cittadini europei riguardo ai trasporti. Perché un sardo, per esempio, per recarsi a Milano oggi deve spendere tre volte tanto quanto spende un altro cittadino della penisola per percorrere lo stesso numero di chilometri? Non chiediamo quindi privilegi ma semplicemente che venga tolto lo svantaggio in ci si trovano i Sardi rispetto agli altri. L’on. Debora Serracchiani ha poi spiegato quale sia il metodo di lavoro del Parlamento Europeo. Un metodo molto diverso da quello in auge al Parlamento italiano. E come sia necessario avvicinarsi nei tempi e nei modi dovuti. I tempi da rispettare richiedono che si intervenga nel momento dell’istruzione di una vertenza e non quando, come spesso avviene, la vertenza è già stata approvata per lamentarsi e per esprimere riserve. Purtroppo questo è stato spesso il metodo degli italiani e in particolare dei sardi nei confronti del parlamento europeo. Bisogna intervenire prima che i buoi siano scappati dalla stalla! E’ il caso per l’appunto della continuità territoriale e dell’insularità, tematiche previste dal Trattato di Lisbona, che però le affronta dal versante della eliminazione degli svantaggi a favore della produzione industriale e della commercializzazione dei prodotti. Questo è lo spazio in cui bisogna collocarsi in Europa e che bisogna occupare in compagnia di altri parlamentari anche di estrazione politica diversa. La sintonia tra i due relatori a questo punto è stata piena unita al proposito di un impegno bipartisan. In Europa non possiamo dividerci su temi così vitali come quello dei trasporti. Questo è stato il messaggio che Pili e Serracchiani hanno lasciato ai sardi presenti, i quali nei numerosi interventi hanno espresso l’apprezzamento per lo sforzo intelligente operato dai due esponenti politici, pur provenienti da parti politiche contrapposte.
Carmelo Spiga
VOCI E SUONI DALLA SARDEGNA, IN RICORDI DI ANDREA PARODI
TRIBUTO MENEGHINO ALLA CULTURA ISOLANA
Facendomi portavoce della grande e numerosa comunità sarda residente in Lombardia, ha avuto luogo alla volontà di produrre una manifestazione legata al grande artista della nostra terra natale, Andrea Parodi, cantautore di uno dei primi gruppi di rock etnico apparsi sul panorama musicale nazionale, deceduto da oltre tre anni per via di un grave male. Prodotto e realizzato in collaborazione con la Fondazione "Parodi", questo evento ha avuto come splendida cornice il Teatro dal Verme di Milano, con un percorso musicale dedicato alla memoria dell’indimenticabile artista, dando spazio alla musica, senza tralasciare qualche momento più leggero e con una particolare attenzione alla solidarietà. Il sostegno istituzionale di Regione Lombardia, Regione Sardegna, Provincia e Comune di Milano sono il riconoscimento al simbolo contemporaneo della poesia musicale sarda. Facendo un passo indietro, l’evento che si è realizzato si va ad aggiungere alle quattro precedenti edizioni di "Sardegna in Lombardia", un progetto nato dall’idea di Stefano Maullu. Le kermesse passate hanno visto calcare i nostri palcoscenici artisti del calibro dello stesso Andrea Parodi, Piero Marras, Benito Urgu, l’arte teatrale della famiglia Medas, l’omaggio a Fabrizio De Andrè, il mimo Fais, i pittori Mallai e Aramu con interventi di grandi artisti come Massimo Bubola, Barbara Cola, dal folk delle Launeddas ai Tenores di Neoneli, ai balli tipici in costume alle immagini più belle scattate dal fotografo Angelo Mereu. Manifestazioni che hanno sempre fatto il tutto esaurito al Dal Verme e che anche quest’anno con "Voci e suoni dalla Sardegna" ha offerto un altro e importante tassello al sentimento che lega la numerosa colonia di emigrati isolani e di amanti della Sardegna in Lombardia attraverso la poesia di Parodi, la musica, la cultura e il costume. La manifestazione in omaggio ad Andrea Parodi ha voluto dare un forte contributo alla lotta delle malattie tumorali attraverso un’azione di beneficenza in favore dell’IEO, l’Istituto Europeo di Oncologia del Prof. Umberto Veronesi, attraverso la vendita di materiale audio e video ritraente Andrea poiché una quota del ricavato andrà devoluta all’ Istituto stesso. Hanno partecipato i Tazenda, storico gruppo isolano al quale Parodi è appartenuto per tantissimi anni, e Barbara Sanna che ha prestato la propria voce alla band, il tutto presentato dall’inviato speciale di Striscia La Notizia, Cristian Cocco.
Stefano Maullu
LA MANIFESTAZIONE VOLUTA DAI CIRCOLI DI COMO E DI PAVIA
RICORDO DI FRANCESCA SANNA SULIS
Che bel mestiere quello dello torico, altro che giornalismo! Che non fai neppure in tempo a renderti conto di un evento è già lo devi buttare giù in cento righe, che il giornale deve uscire l’indomani. Lo storico, no, può prendersela comoda, andare per biblioteche, scovare fonti le più disparate, azzardare ipotesi mai veramente praticate da altri. Per decenni, talvolta. Lucio Spiga, che comunque è anche giornalista di successo (dal ’75 all’83 è stato direttore responsabile di Videolina) dice che per mettere insieme questo suo libro: "Francesca Sanna Sulis" ci ha lavorato per 42 anni. E’ qui in Como, alla biblioteca comunale, insieme con sindaci e assessori sardi, di Muravera e Quartucciu, Salvatore Piu e Carmen Spiga,giornalisti del posto, rappresentanti dei circoli sardi di Como e Pavia, Tonino Mulas per gli altri circoli d’Italia. E’ arrivato qui seguendo il filo rosso che ha lasciato dietro di sé l’eroina del suo libro. Questa Francesca infatti nella Sardegna del lontano (ma neanche tanto) 1770 o giù di lì , lei era nata a Muravera nel 1716, esportava proprio a Como tutta la produzione della seta che proveniva dai telai che lavoravano nelle sue "aziende", seta di grandissima qualità, in grazia del clima particolarmente temperato che faceva schiudere i bozzoli con due mesi d’anticipo rispetto alle produzioni del continente. Stante i venti africani che già a fine febbraio fanno sentire il loro fiato caldo sul litorale cagliaritano. L’isola nostra non era da molto che aveva regalato ai Savoia la possibilità di diventare re, dopo che gli spagnoli se l’erano fatta scippare da Maria Teresa d’Austria, un’altra donna abituata ad esibire attributi maschili pur velati da gonne e crinoline. La seta sarda vestiva soprattutto la grande nobiltà del tempo, c’è al museo dell’Ermitage di Pietroburgo un ritratto della grande ( per antonomasia)Caterina, zarina di tutte le Russie, con un abito ideato dalla nostra Francesca che pur non essendo regina né zarina è stata comunque una figura di spicco nell’ambito del nostro paese e della Sardegna in particolare. Che merita anzi che di lei si indaghi anche negli archivi comaschi e milanesi, non solo in quelli sardi come ha operosamente fatto Lucio Spiga: a sentir lui ha tradotto dallo spagnolo qualcosa come 3327 documenti. Dallo spagnolo ovviamente che gli Aragonesi avevano governato, si fa per dire,l’isola nostra nei trecento anni passati, lasciando dietro di sé un popolo decimato dalla malaria, con numeri di abitanti che si avvicinavano a quelli del tempo di Roma imperiale, e con percentuali di analfabetismo intorno al novanta per cento. Sapevano leggere e scrivere i preti e i "nobili", maschi ovviamente. E qualche donna di nobile famiglia: questi Sulis antenati di Francesca hanno grandi possedimenti in Muravera e quando lei va sposa diciannovenne a Don Pietro Sanna Lecca, dottore in giurisprudenza di fama nazionale che sarà chiamato dalla reale casa Savoia a riunire in un solo testo tutte le leggi che dette maestà avevano editto per la Sardegna, diventa ancora più potente. E non si limita ad amministrare i suoi beni quando il marito è a Torino, alla corte di Vittorio Amedeo terzo, ma si fa imprenditrice di gelsi e bachi da seta, di maestranze savoiarde che vengono ad istruire le ragazze del posto , dei telai di ultima generazione a cui dette operaie erano legate a filo doppio (è il caso di dirlo), in quanto spesso costituivano la dote che veniva loro riservata allorché trovavano un marito per il resto della loro vita. Secondo il disegno della mente di dio ovviamente, visto l’alta mortalità delle puerpere, dei bimbi piccoli e non solo: non era raro il caso che ci si sposasse , due, tre volte, che dei sette, dieci figli nati vivi ne sopravvivessero due o nessuno. Quella medesima legge che Darwin avrebbe così bene spiegato in seguito, per cui sono i cromosomi degli individui più forti a restare vivi in un regime di scarsità di risorse, e che ci sorprende ora davanti al numero apparentemente inspiegabile dei centenari sardi, agiva allora con l’inesorabilità che la contraddistingue. E la falce della morte mieteva i più deboli come fossero spighe di grano immaturo. Anche i due figli maschi di Francesca Sanna Sulis premorirono alla madre che si spense alla bella età di 94 anni nel 1810. Questo significa che nella sua lunga vita ha potuto assistere ad avvenimenti epocali, non ultimo la testa di un re di Francia, e della sua regina, rimbalzare sul cesto di vimini posto sotto l’affilata invenzione di Messier De Guillotin . E poi la nascita politica di quel "fulmine che tenia dietro al baleno" di manzoniana memoria,di quel corso la cui città natale, Bonifacio, si può scorgere ogni giorno dalle coste di Gallura. Che si sarebbe assiso a imperatore d’Europa. Lei comunque avrebbe continuato nella sua opera, vedova, intrattenendo rapporti d’affari con le teste fini dell’imprenditoria comasca. In ispecie col conte Giorgio Giulini, poliedrica figura di nobile lombardo che si muoveva nell’ambito milanese, avrebbe scritto un’opera in sedici volumi sulla storia di Milano, ma fu anche scrittore di teatro, musicologo, insomma un altro rappresentante di quel genio italico che sa operare bene in ogni campo in cui voglia muoversi. Ed è proprio all’archivio Giulini che fa cenno il giornalista Alberto Longatti, della "Provincia" di Como, quando parla di un filo di seta che lega la sua città alla Sardegna. E che vale la pena di consultare a fondo in un prossimo futuro, per continuare a scrivere la bella storia di Francesca Sanna Sulis. Lei si comportò come dovrebbero tutti gli imprenditori che fanno grande fortuna anche in grazia del lavoro degli altri. Tutto( o quasi) lasciò ai poveri . Il suo testamento, fedelmente riportato anche in lingua spagnola,è una delle pagine più toccanti del libro:"In primo luogo ordino e comando che si dia sepoltura al mio cadavere nel modo più semplice e senza pompa alcuna una volta che io muoia nel paese di Quartucciu…". San Francesco d’Assisi non avrebbe saputo dire meglio. E ancora:"I beni del Sarrabus, terre e tanche (e vigne e giardini e case), è mia espressa volontà,si divida tra quei poveri di detta Villa di Muravera i più necessitati preferendo quelli di migliore estrazione e di buoni costumi…". Ogni anno, per esportare la seta e gli abiti che confezionava, doveva noleggiare sei golette (altro che Tirrenia!). Il conte Giulini finì per pretendere l’esclusiva della produzione e fece con la seta sarda un sacco di soldi, oltre quelli che già possedeva di famiglia, loro era la villa che avevano tratto dal monastero benedettino di san Martino in Arcore, poi finita ai marchesi Casati e ora nelle mani (almeno finché non venga definita la sentenza di divorzio)del nostro presidente del Consiglio. Grazie all’opera meritoria dell’avvocato Cesare Previti. Che riuscì a comprare per cinquecento milioni (di lire) una villa, con annesso giardino, che ne valeva sei miliardi, allora. Francesca Sanna Sulis er
a solita confezionare, con le sue operaie, una cuffietta di seta molto particolare:"su cambùsciu" e da allora ogni abitante di Quartucciu è:"Quattucciàu?, cambùsciau". Lì le hanno dedicato la biblioteca comunale . Ma, a mio avviso, è la Sardegna tutta che deve trovare il modo migliore per dare risalto alla figura storica di questa sua figlia che si inserisce in maniera ottimale in quel secolo dei lumi che ha visto la nascita della modernità come noi la conosciamo. Anche lei è stata una "illuminata", capitano d’industria di grande successo quando tutta l’imprenditoria era rigorosamente maschile, attenta all’istruzione femminile, a che le sue operaie avessero dote per sposarsi. Attenta ai bisogni dei più poveri. Una vera santa laica in una Sardegna capace, allora, di attirare manodopera specializzata dal continente e di esportarvi prodotti di altissima qualità. Una Sardegna di sogno.
Sergio Portas
HA PARTECIPATO ANCHE IL MONDO DELL’EMIGRAZIONE SARDA A "SA PARADURA"
LA SOLIDARIETA’ PER I PASTORI ABRUZZESI
L’hanno ribattezzata la transumanza della solidarietà. I pastori sardi sono voluti andare in soccorso di alcuni colleghi abruzzesi, le cui aziende sono state distrutte o danneggiate dal terremoto del sei aprile scorso. Lo hanno fatto rispolverando l’antica tradizione di "Sa Paradura": quando un allevatore che perdeva il suo gregge, rubato o distrutto da una calamità, lo vedeva ricostituito dai colleghi che gli donavano una pecora. L’appello in favore degli allevatori abruzzesi è stato lanciato dal gruppo nuorese degli Istentales guidati da Gigi Sanna e dalla Coldiretti e subito sostenuto dalla Regione Sardegna e da altri enti. Ma i grandi e diretti protagonisti sono stati i tantissimi allevatori di tutta l’isola che hanno subito accolto l’appello. Raccolte in poco tempo un migliaio di pecore, ma il numero avrebbe potuto essere molto più consistente, se a frenare la corsa alla donazione, non ci fosse stato il vincolo imposto dalla regione Abruzzo. Due grandi camion hanno girato l’isola prelevando i capi offerti. Poi tappa a Nuoro, quindi trasferimento a Olbia e imbarco sulla "Nuraghes" della Tirrenia. I 190 km che separano Civitavecchia dall’Aquila sono stati poi l’ultimo tassello di un percorso iniziato diversi mesi fa. "Non c’è stato bisogno di dirlo due volte", assicura Gigi Sanna leader degli Istentales, gruppo da sempre impegnato sul doppio fronte della musica e della solidarietà: "ci hanno chiamato da ogni angolo dell’isola e purtroppo a un certo punto abbiamo dovuto iniziare a dire di no". Le pecore e i tanti agnellini nati durante il breve viaggio, nella mattinata del 20 novembre hanno cambiato pascoli e proprietari, al termine di una breve cerimonia svoltasi nel campo base della Croce Rossa alla periferia dell’Aquila. Una ventina di pastori abruzzesi hanno preso in consegna, ognuno un piccolo gregge. Emozionati, desiderosi di ripartire, di ricostruire, di riprendere quel lavoro che quasi tutti fanno da sempre, spesso come i loro padri e i loro nonni e che sperano possa essere un occasione anche per i loro figli. Primo passo verso un ritorno alla normalità purtroppo destinato a richiedere, per l’intera regione, un lungo cammino. A ricordarlo, anche ai tanti sardi arrivati a l’Aquila per questo appuntamento, le ampie zone "rosse" del capoluogo, ancora sbarrate e presidiate dai militari. Centinaia di edifici crollati o comunque destinati ad essere demoliti, intorno ai quali c’è il deserto. Per Giovanni Coccolone, pastore di Fonni, l’iniziativa è "una goccia nel mare del bisogno, ma si spera, oltre a queste pecore, di aver portato anche la tradizione e che in futuro gli stessi colleghi abruzzesi si aiutino fra di loro". Soddisfatto l’assessore all’agricoltura della Regione sarda Andrea Prato: "nessun merito da parte nostra, solo l’appoggio a una iniziativa voluta e realizzata dai nostri pastori". Per Prato "segnale importante anche perché arriva da un settore alle prese con mille problemi". Diretta conferma dalle parole di Tore Masala e Cristoforo Coccolone, altri due allevatori di Barbagia: "In Sardegna abbiamo i nostri problemi, ma qui c’è gente che sta molto peggio e ha perso tutto e ci sembrava doveroso dare una mano". L’assessore all’agricoltura abruzzese Mauro Febo ha voluto ringraziare non solo per "il grande valore simbolico della transumanza della solidarietà che servirà concretamente a far ripartire alcune aziende, ma anche perché questa iniziativa serve a non far spegnere le luci della ribalta sul dramma di una regione". La cerimonia andata in scena all’Aquila è stata anche l’occasione per far incontrare tanti isolani: i molti volontari che ancora lavorano nei vari campi, per fortuna quasi tutti in smantellamento, ma anche gli emigrati. C’erano tra gli altri il presidente del circolo dei sardi Shardana di Pescara Antonello Cabras e quello della FASI Tonino Mulas. Quest’ultimo ha annunciato un progetto: "pensiamo a un momento di incontro di tutti i pastori sardi che vivono e lavorano fuori dall’isola, nelle campagne del Lazio come in quelle della Toscana, del Veneto e dello stesso Abruzzo. Un ritrovarsi insieme per conoscersi e per condividere un momento di festa". Graziano Canu
GLI IMMIGRATI SONO QUATTRO MILIONI: I ROMENI LA COMUNITA’ PIU’ NUMEROSA
I DATI ANNUALI DEL DOSSIER STATISTICO CARITAS – MIGRANTES
In Italia abbiamo una popolazione di immigrati che oscilla tra il 5 e il 7%. Proviamo ad entrare dentro i numeri per capire meglio chi sono e cosa fanno gli immigrati che vivono in Italia. Per l’Istat i cittadini stranieri residenti in Italia nel 2008 erano quasi 3,5milioni inclusi i comunitari. Così suddivisi: 62% nel Nord, il 25% nel Centro e il 13% nel Mezzogiorno. L’annuale dossier statistico Caritas Migrantes fornisce i dati dello studio. L’incidenza degli stranieri sui 60 milioni d’italiani è del 6,7%, leggermente al di sopra della media UE (6%). La comunità più numerosa è quella romena (quasi 1 milione di presenze regolari), seguita dai 400mila albanesi e dai 360mila marocchini. Poi ci sono i cinesi e gli ucraini. Circa il 23% sono africani, il 16% asiatici. Il 9% sono gli americani. Secondo un’altra statistica Istat, rielaborata dalla Caritas Migrantes, nell’ultimo decennio il numero dei matrimoni misti è cresciuto del 143%. Secondo una stima sarebbero circa 300mila a cui bisogna aggiungere le coppie convivent
i (altre 300mila). Poi ci sono i "matrimoni invisibili" cioè di quelle unioni il cui coniuge straniero prende la cittadinanza italiana e quindi sparisce dalle statistiche come straniero. Ma il traguardo della cittadinanza italiana per gli stranieri che lavorano e risiedono in Italia è una corsa a ostacoli lungo 10 anni. Molti sistemi democratici hanno posto rimedio accorciando i tempi necessari per ottenere la residenza; in Australia sono sufficienti 2 anni di soggiorno regolare, 3 in Canada; negli Stati Uniti, in Francia e in Gran Bretagna servono 5 anni. In Germania ne bastano 7. Intanto gli stranieri presenti in Italia danno un contributo lavorativo indispensabile per la nostra economia: la stima del gettito fiscale degli immigrati raggiunge quasi i 4milioni di euro. Seppure sia enormemente diffuso il lavoro nero, non solo presso le famiglie ma anche presso le aziende, secondo le statistiche lavorative il contributo sostanziale è dato da 1,5 milione di persone, con un’incidenza sul totale che supera il 10% degli occupati in diversi comparti. Sempre stando al rapporto statistico Caritas Migrantes, dei 3,5milioni di immigrati regolari presenti nel nostro Paese, oltre 600mila sono bambini e costituiscono il 70% della crescita demografica dell’Italia. Quella che si sta innescando è quasi una sfida culturale, due diversi modi di vedere le relazioni tra Nord e Sud del mondo. Da una parte si ha bisogno dell’ingresso di nuovi immigrati per garantire la crescita economica e lo sviluppo, dall’altra si ha paura che i nuovi "vu cumprà" siano solo una minaccia alla sicurezza nazionale.
Massimiliano Perlato
PUBBLICATE IN INDIA LE POESIE DI BRUNO ROMBI
L’ANTOLOGIA "POEMS"
Nella copertina c’è una foto in bianco e nero col suo volto sorridente incorniciato da una corta barba brizzolata. Il libro dal titolo Poems (ed. Rock Pebbles Pubblication) è un’antologia di centotrenta pagine e costa cento rupie. La traduzione dall’italiano all’inglese è dovuta ad Olivier Friggieri, che insegna all’università di Malta. Non è la prima volta che le poesie di Bruno Rombi hanno una diffusione internazionale. In passato i suoi versi sono stati tradotti in francese inglese, spagnolo, polacco, maltese, rumeno, macedone, greco, sloveno, catalano, corso, portoghese, urdu e arabo (oltre che in latino). Ora circolano in India, grazie a questo libro pubblicato da una casa editrice nazionale in inglese (lingua molto diffusa in questa ex colonia del Regno Unito). Le poesie sono precedute da un ampio saggio (di quindici dense pagine) scritto da Friggieri, studioso di letteratura e da sempre attento agli autori della nostra regione. Su quali aspetti si sofferma in modo particolare? Difficile dirlo, perché fa un discorso a tutto tondo sulla figura, le opere e la fortuna critica di Rombi (che vanta recensori come Carlo Bo, Giorgio Barberi Squarotti, Francesco De Nicola, Elio Gioanola e altri nomi di primo piano). L’antologia è stata impostata riportando componimenti appartenenti a diverse raccolte, pubblicate in un lungo arco di tempo. Segno di una grande fedeltà di questo autore a un genere difficile come la poesia, oggi più che mai emarginata dal mercato delle lettere. Sul piano dei contenuti, il lettore di questa raccolta avverte un dato immediato. Ossia la molteplicità degli argomenti, pubblici e privati, presenti nei versi di Rombi (nato a Calasetta ma genovese di adozione da diversi decenni). Nelle poesie di questa antologia circolano elementi riconducibili a due dati biografici: la passione per i viaggi, in Italia e all’estero, e quella che è stata un’attività svolta con continuità e passione, come il giornalismo. In altre parole, Rombi ha sempre avuto molte cose da raccontare, in versi e in prosa, perché tende a occuparsi più degli altri che di se stesso. La vita privata ha un risalto importante, ma non è il centro del suo orizzonte conoscitivo. Di qui deriva quella che Friggieri definisce "sensibilità mediterranea", un’apertura verso un mondo al quale si sente di appartenere lo stesso autore. Uomo di mare, come tutti i calasettani, Rombi è come attirato da luoghi lontani. Ma oltre agli orizzonti nuovi, lo affascinano gli uomini e le donne che vi incontra, prima di tutto sul piano personale. Il contatto diretto è alla base di versi che altrimenti suonerebbero di maniera. Sul piano formale, c’è da dire che le poesie di Rombi sembrano scritte per un pubblico quanto mai ampio (in italiano e in questa versione inglese). Non usa vocaboli ricercati, nessuno sperimentalismo spinto. Evita accuratamente un rischio: quello di anteporre la forma al contenuto. Questo lo si può verificare leggendo in pubblico, a voce alta, i suoi versi. Cosa che lui ha fatto tante volte con la sua voce profonda e calda in occasione di recital nel nostro e in altri Paesi. Si ha l’impressione che l’oralità prevalga sulla scrittura, che le immagini contino più della tessitura verbale. Come è stato accolto questo libro in India? In un Paese di un miliardo di abitanti, con un’infinità di giornali e riviste, è difficile reperire le recensioni apparse sulla stampa. Almeno per il momento (come sostiene l’autore). Sicuramente più avanti, tramite l’editore, sarà possibile saperne qualcosa. La poesia in cui è maggiormente presente la Sardegna ha per titolo "To Nivola, Singer of our mediterranean mother" (dedicata allo scultore di Orani trapiantato negli Stati Uniti). A pochi mesi di distanza, è arrivato nelle librerie il secondo romanzo di Rombi, "Un oscuro amore", pubblicato dalla casa editrice Condaghes. In anteprima è stato presentato a Genova, alla Sarda Tellus, sabato 17 ottobre. La relatrice Rosa Elisa Giangoia si è soffermata in particolare sullo scenario della vicenda, sulla realtà isolana negli anni Cinquanta, sulla psicologia dei due protagonisti. Al centro del la storia c’è un evento epocale: la costruzione di un’imponente diga, destinata a raccogliere le acque in un bacino utile per l’irrigazione dei campi. L’autore descrive una realtà che conosce bene, da diversi punti di vista. Compreso quello delle tradizioni popolari. Non a caso il romanzo ha un incipit avvincente, che suona: "Nella catena di montagne del Sulcis, fra Punta Sebèras e Sorgius, sorge la vetta di Sirimangus, monte che i contadini e i pastori del circondario ritengono ancora oggi abitato dalle streghe". I colpi di scena e le sorprese non mancano in questo libro che è una via di mezzo tra la fiction e un saggio dal taglio antropologico. Come del resto lo era anche il precedente romanzo di Rombi, "La donna di carbone", uscito nel 2004. L’aspirazione a documentare, il desiderio di rievocare una Sardegna oggi profondamente mutata (in meglio nonostante tutto) costituiscono per l’autore un impegno e un movente ai quali non vuole sottrarsi. Dopo la presentazione di Genova, il libro sarà proposto in analoghe manifestazioni a Cagliari e in altri centri.
Giovanni Mameli
GUADAGNARE TUTELANDO L’AMBIENTE
L’APICOLTURA
L’apicoltura in Sardegna attualmente viene esercitata da circa 2mila apicoltori, che allevano 50mila alveari ottenendo una produzione che oscilla tra i 15mila e i 20mila quintali di miele, per un valore economico tra i 4 e gli 8 milioni di euro. La tipologia dei mieli prodotti in Sardegna è molto varia. Accanto ai mieli tipici riconosciuti, come Corbezzolo, Asfodelo e Cardo, abbiamo rilevanti quantità di millefiori e di Eucaliptus a cui si affiancano mieli uni floreali molto pregiati: Agrumi, Rosmarino, Lavanda, Erica, Castagno, Cisto, Timo e Sulla. Negli ultimi anni l’attenzione e l’interesse per l’apicoltura in Sardegna sono cresciuti, così come la professionalità degli apicoltori e la qualità delle produzioni. L’apicoltura è un’attività economica sostenibile che utilizza risorse ambientali rinnovabili, che può essere svolta con l’impiego di ridotti capitali ed in particolare senza capitale fondiario. All’attività pronuba delle api deve essere attribuito il merito della conservazione e riproduzione di migliaia di specie vegetali e il mantenimento della biodiversità. Nello svolgimento dell’importantissimo e insostituibile ruolo ambientale le api forniscono all’uomo una serie di produzioni (miele, propoli, pappa reale, cera e altro) che possono essere utilizzate per scopi vari, da quello alimentare a quello cosmetico, medicinale, artigianale e industriale. L’apicoltura può costituire nel futuro un comparto portante e rappresentativo di uno sviluppo rurale sostenibile. Al mondo delle api, infatti si associa la qualità delle colture frutticole, la conservazione di molte specie vegetali e del paesaggio rurale, la tradizione dei lavori agricoli. Il miele è inoltre simbolo di un’alimentazione sana.
Massimiliano Perlato
MARIANGELA PITTURRU, DIRETTORE DEL TEATRO DELLE CELEBRAZIONI
DA ALGHERO, CITTA’ SENZA ATTRATTIVE A BOLOGNA
Scrivere o parlare di cultura mette sempre un po’ di apprensione: è una parola importante che coinvolge moltissimi aspetti della nostra vita. Mi è stato chiesto di raccontare come mi sono inserita nella vita culturale bolognese partendo da Alghero, splendida cittadina sarda dove ho vissuto per sei anni e dove tutt’ora risiede mia madre. La spinta, paradossalmente, è partita proprio da lì, da Alghero. Dal desolante divario tra le sue bellezze naturali e la sua mancanza di attrattive culturali. Dalla pressoché inesistente formazione giovanile. Allora, vent’anni fa, non c’era possibilità né di conoscere né, tantomeno, di sperimentare. Giusto qualche sporadico momento di incontro con i prodotti noti della cultura consolidata. Nient’altro. Non c’era possibilità di crescita. Quindi, dopo la laurea, sono partita per Bologna, che all’epoca era soprattutto la "città del Dams". Era una città caleidoscopica, piena di posti off dove ci si inventava il teatro, la musica, il cinema, la poesia. Era un fermento continuo. Lo si poteva ascoltare per le strade, fino a notte inoltrata, nelle discussioni infinite seduti ai tavoli delle osterie. Mi ero appena laureata con una tesi su Carmelo Bene: fu quasi naturale approdare, professionalmente, al mondo teatrale. Che in quegli anni a Bologna voleva dire entrare nel giro della miriade di cooperative che facevano, nel senso letterale del termine, il teatro. Io vi entrai come addetto stampa (apprendista addetto stampa), senza retribuzione: mi trovai a stilare relazioni artistiche per il Ministero, a compilare i borderò per la siae, ad annotare le note di regia durante le prove, incontrare funzionari e politici di settore, organizzare rassegne di teatro per ragazzi, di teatro di ricerca. L’imperativo era quello di conquistare a colpi di battute sceniche il territorio, "l’area metropolitana". E non solo: conquistare gli spazi trasformabili in teatri. Capannoni industriali dismessi, cantine, sale condominiali, ex cinema, perfino appartamenti condominiali. L’urgenza era quella di sperimentare confrontandosi continuamente e direttamente col pubblico. Tutti i generi erano rappresentati: non c’era sera in cui non si potesse andare a vedere qualcosa. Ed erano anche molti gli artisti che arrivavano a Bologna da fuori, dal resto d’Italia e dall’Europa, dal mondo, per partecipare a quegli happening. In quegli stessi anni, la fine degli anni ottanta, nascevano anche i cosiddetti "nuovi comici", che aprivano un filone inedito la cui fortuna vediamo anche oggi. Erano Bergonzoni, Luttazzi, Albanese, Gioele Dix, Iacchetti e molti altri, che proprio attorno a Bologna gravitavano. La città crebbe con questo culto del teatro multiplo, vivo, diversificato. Molti teatri vennero ristrutturati e resi agibili andando a delineare una geografia precisa dell’offerta. Sin da subito la volontà fu quella di distinguere le specificità, cercando di non sovrapporsi, programmaticamente, gli uni agli altri. Così fu anche per il Teatro delle Celebrazioni, il teatro che attualmente dirigo: restituito dopo restauro alla città nel 1997, individuò nella drammaturgia contemporanea, nei musical e nel teatro di movimento internazionale i suo generi d’interesse primario, andando così a ritagliarsi un ruolo ben preciso nell’ambito dell’offerta spettacolare. Con le nostre programmazioni un po’ fuori dagli schemi e un modo nuovo di promuovere gli spettacoli, attirammo un pubblico diverso, quello che non frequentava i teatri. E molti giovani. Ben presto consolidammo la nostra presenza sul territorio, acquistammo rinomanza nazionale: il pubblico si fidava di noi e anche gli artisti venivano volentieri. Questa attenzione a cogliere gli umori contemporanei, a portare in scena anche le voci scomode della satira, della critica condita con l’umorismo, è stato e continua ad essere il nostro tratto distintivo, quello per cui il pubblico ci segue. E la fiducia che ci ha tributato e ci tributa ci ha consentito di permetterci anche il lusso di inserire qualche proposta destabilizzante: compagnie sperimentali o gruppi stranieri sconosciuti, per provocare comunque reazioni, per non cullare gli spettatori nell’abitudine. Questo traguardo è quello che maggiormente mi inorgoglisce e che rivendico: dirigo un teatro privato e capiente che ha l’imperativo quotidiano di creare la fila al botteghino. Ma un buon lavoro sul versante più commerciale ci ha consentito di non rinunciare alla vocazione che, credo, tutti noi che offriamo cultura dovremmo avere: quella di guardare con curiosità a cosa si muove attorno, cosa fermenta e germoglia, e di portarlo fuori dal buio delle cantine per mostrarlo a un pubblico diverso. Magari, come nel nostro caso, lontanissimo da certe ricerche sceniche. Dopo vent’anni di assenza della Sardegna mi è difficile capire se e come siano cambiate le cose. Conosco molti artisti sardi che hanno esportato con grande successo la loro arte: Paolo Fresu, Marcello Fois, Michela Murgia. Ma li conosco qui. Ho seguito con ammirazion
e lo splendido percorso compiuto dall’algherese Antonio Marras, le cui prime sfilate di moda sul palco della piazza già contenevano precisi i germi di una personalità d’alto profilo quale poi s’è rivelata una volta che dall’Isola è uscito. Non so esattamente cosa si muova ora in Sardegna, se c’è stata un’evoluzione oppure no. Da qui mi piacerebbe vedere l’Isola in ascolto attento dei suoi fermenti creativi. Mi piacerebbe vedere le istituzioni sostenere proposte e progetti che rischiano, che colgono la contemporaneità, che evidenziano le differenze e cercano l’unità, che mirano a far emergere uno stile caratteristico, riconoscibile, dettato dalle radici.
Mariangela Pitturru
IL PRESIDENTE DELLA REGIONE SARDEGNA CAPPELLACCI IN AFGHANISTAN
VISITA AD HERAT ALLA BRIGATA SASSARI
Il presidente della Regione, Ugo Cappellacci, si è rivolto ai sassarini e ai loro commilitoni della Brigata Garibaldi nella visita compiuta stamattina, assieme al sottosegretario alla Difesa, Giuseppe Cossiga, nella base di Camp Arena, a Herat. Così il presidente Ugo Cappellacci si è rivolto ai sassarini e ai loro commilitoni della Brigata Garibaldi nella visita compiuta stamattina, assieme al sottosegretario alla Difesa Giuseppe Cossiga, nella base di Camp Arena, a Herat.
"Carissimi ragazzi e ragazze, per me è un onore e un emozione essere qui con voi oggi. Rivolgo un caloroso saluto al 1° Reggimento Bersaglieri, al 131° Reggimento corazzato della Brigata Garibaldi e, naturalmente, alla "mia" Brigata Sassari. Ho insistito parecchio perché tutte le questioni legate alla sicurezza venissero risolte: desideravo portarvi personalmente gli auguri di Natale e del nuovo Anno, che speriamo tutti sia anno di pace. Quando, tre mesi fa, ho incontrato a Sassari i "Diavoli Rossi", alla partenza per questa missione in Afghanistan, avevo molte speranze e alcune certezze. La speranza innanzitutto che lo sforzo profuso dalle truppe di peacekeeping in questa terra martoriata da decenni di guerre dilanianti e di violenza cieca facesse compiere ulteriori passi in avanti in direzione della pace e della sicurezza. Ora che al fondo di quel doloroso tunnel si intravedono sempre più spiragli di luce – e questo proprio grazie al vostro lavoro quotidiano e a quello dei vostri colleghi – ho conferma che la mia speranza era ben riposta. Continuiamo a contare su tutti voi, certi che il lavoro iniziato verrà portato a termine nel migliore dei modi possibili. Più nell’intimo, appunto, speravo inoltre di poter stare con voi qui, dove quotidianamente operate gomito a gomito con la popolazione afghana. Il clima delle festività natalizie è particolare. I pensieri e i sentimenti di ciascuno di noi sono rivolti agli affetti più cari, alle nostre famiglie, fidanzate, mogli, figli e genitori… specie quando si è tanto lontani da casa. Sono qui anche per trasferirvi un poco di quel calore, dell’amore e della riconoscenza che l’Italia e la Sardegna provano per voi, ogni giorno, ogni istante. Volevo avere l’opportunità e il privilegio di poter annullare, per qualche attimo, le distanze, i tanti chilometri che vi separano dalle vostre case e dai vostri cari. Posso ritenermi fortunato, dal momento che anche quella speranza si avvera oggi. E ora che sono qui con voi cerco di dirvi nuovamente grazie per tutto quello che fate – anche se, in questi casi, non appena pronunciate le parole di ringraziamento suonano ogni volta troppo piccole, troppo banali e troppo semplici. Comunque insufficienti a esprimere fino in fondo tutto quel che si vorrebbe. Forse non c’è semplicemente un modo per esprimere un sentimento tanto intenso e complesso. Perché ciascuno di voi qui in Afghanistan non ha portato unicamente la propria professionalità, l’impegno coraggioso e la voglia di contribuire alla costruzione di un mondo migliore. Non avete portato qui solo il vostro pur prezioso e difficile mestiere di guardiani della pace. Se fosse solo questo, forse sarebbe più facile ringraziarvi e rendervi merito. Ma la verità è che qui, ognuno di voi, uomini e donne, ha portato con sé un’opportunità da regalare a chi ne ha più bisogno, un’aspirazione al futuro, un sogno da donare a chi magari oggi è un bambino e domani dovrà contribuire alla costruzione di un Afghanistan migliore. E proprio grazie a quello che fate – anzi, grazie a quello che siete – tra dieci o vent’anni quel bambino ormai adulto potrà ancora ricordarvi con un sorriso riconoscente. Sarà allora quel sorriso a dare un senso evidente a ogni sforzo compiuto, a ogni sofferenza patita sinora. E probabilmente sarà anche il ringraziamento più completo e profondo, quello più importante. Questa, in fin dei conti, è la riflessione verso la quale ci porta il mistero e la gioia del Natale. Speranze, vi dicevo. Queste erano alcune tra le tante che nutrivo quando vi ho visti partire. Ma avevo anche delle certezze incrollabili. Tre mesi fa, così come ora, sapevo senza il minimo dubbio che la Brigata Sassari, il Reggimento Bersaglieri e la Brigata Garibaldi, avrebbero dato prova delle qualità da essa sempre dimostrate nel corso di tutta storia, dalla Grande Guerra fino alle più recenti operazioni di peacekeeping ai quattro angoli del globo. Un patrimonio fatto di determinazione e valore, senso del sacrificio e tenacia, ma anche di qualcos’altro: mi riferisco alla generosità e l’umanità che hanno sempre contraddistinto i "Diavoli Rossi" e i valorosi militari dell’Esercito. Generosità, umanità, combattività: elementi sempre inseparabili e in qualche modo dipendenti gli uni dagli altri, in grado di rafforzarsi reciprocamente, completandosi. E insieme, capaci di tradursi in quella particolarissima abilità, oramai riconosciuta da tutti a livello internazionale, di farsi al tempo stesso accettare e rispettare anche nei teatri d’operazione più difficili e nei contesti culturali più delicati e ostili. Avevo poi un’ultima certezza, assoluta e ferma. Forse la più importante per me. Sapevo che arrivando qui per portare il saluto riconoscente degli Italiani e dei Sardi, e con esso anche il nostro affetto, sarei poi tornato in Italia con un regalo prezioso e immenso. Insomma, sapevo fin da principio che, incontrandovi, da voi avrei avuto in cambio qualcosa di più rispetto a quanto ho cercato di portarvi. Quel qualcosa è l’orgoglio, la fierezza per quanto fate, per quel che siete e per quel che rappresentate. Come Italiano, come Sardo, vi dico ancora: Grazie, Dimonios! Grazie Bersaglieri! Grazie alla Brigata Garibaldi. E ancora tanti carissimi Auguri!"
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L’INVESTIGAZIONE DELLO SPAZIO: LE OPERE INEDITE DI COSTANTINO NIVOLA
DA NEW YORK A NUORO: RITORNO A CASA
Da New York alla Barbagia, passando per Milano e Parigi. E’ il viaggio dell’artista oranese Costantino Nivola, scomparso 21 anni fa, ma che virtualmente torna a «casa sua» grazie a una mostra dal titolo «L’investigazione dello spazio», in allestimento a Nuoro sino al 21 marzo negli spazi dell’ex Tribunale. Qualcosa di più, rispetto a quanto di bello è già raccolto nel museo di Orani a lui intitolato. L’esposizione di Nuoro, infatti, propone al pubblico una ventina di bozzetti, opere inedite mai presentate finora in Italia, in arrivo direttamente dal suo studio di Springs, tra cui la riproduzione del Monumento per Gramsci e la ricostruzione fedele della Cappella Corpus Christi. «Questa mostra è una sintesi dell’esistenza di Costantino Nivola che aggiunge un altro tassello importante allo studio di Nivola, intrapreso e promosso dalla Fondazione, con il sostegno fondamentale della Regione», ha spiegato Ugo Collu, presidente della Fondazione Nivola. Intanto entro un anno si concluderanno anche i lavori del Parco Nivola, a Orani, inaugurato lo scorso settembre con la realizzazione di ulteriori spazi espositivi per 700 metri quadrati, dove saranno ospitate tutte le opere grafiche e pittoriche dell’artista, oltre a servizi museali, biblioteca e giardino. Franco Pinna, sindaco di Orani, paese natio di Costantino Nivola, non ha dubbi: «Il Museo Nivola sarà uno tra i più belli del Mediterraneo e si candida a diventare un punto di riferimento della cultura internazionale. Promuovere la cultura, significa promuovere la conoscenza e valorizzare il territorio, il nostro patrimonio materiale ed immateriale, significa valorizzare noi stessi», ha detto l’assessore regionale alla Pubblica istruzione Maria Lucia Baire, illustrando alla stampa i contenuti della mostra. Contenuti che sono stati poi illustrati nel dettaglio da Ugo Collu: «Questa mostra – ha detto – aggiunge un altro tassello importante allo studio dell’artista intrapreso e promosso dalla Fondazione in questi 20 anni dalla sua morte. L’esposizione si riferisce in effetti non più a dei prodotti artistici settoriali come le sculture o i dipinti o le ceramiche, ma ad una attività complessa e globale che ha visto Costantino Nivola affiancare architetti di grande fama e misurarsi con loro alla pari in lavori impegnativi per lo più legati a commesse pubbliche, quasi sempre per l’a llestimento di spazi a uso civile di grande rilevanza e prestigio. «Tali lavori – ha aggiunto Collu – rappresentano l’attività meno conosciuta e forse meno valorizzata, anche perché non si materializza in un oggetto facilmente e immediatamente decifrabile». Secondo l’assessore Baire, il cosmopolitismo artistico di Costantino Nivola emerge in tutta la sua libertà espressiva in questa mostra che rende omaggio alla creatività. «Artista poliedrico e innovativo, Nivola è stato il portatore di un sentimento identitario che la Regione oggi vuole esaltare nel suo senso più profondo di riscoperta, recupero e salvaguardia del proprio patrimonio materiale ed immateriale», ha concluso Maria Lucia Baire.
Andrea Massidda
LA STRAORDINARIA VITA DEL GRANDE SCULTORE
COSTANTINO NIVOLA A 360 GRADI
Costantino Nivola, nasce a Orani, il 5 luglio del 1911. La sua è una famiglia povera. Il padre, Nicola, è muratore. La madre, Giovanna Mele, casalinga. Fin da bambino aiuta il genitore nelle sue fatiche quotidiane. La frequentazione giornaliera dei cantieri edili gli consente di apprendere i primi rudimenti dell’antica arte de sos mastros de muru. Un’esperienza che gli tornerà utilissima quando dovrà progettare le grandi opere scultoree. Nel 1926, il pittore Mario Delitala, anche lui di Orani, lo nota durante un suo soggiorno in paese mentre, con una pietra, disegna su un muro la figura di un animale. È questo l’incontro che avrà un peso determinante nella vita e nella carriera artistica di Titinu, come lo chiamano in paese. Delitala propone ai genitori di assumere il figlio come suo assistente di studio a Sassari. Il padre, Nicola Nivola, è restio. Soltanto dopo le insistenze della moglie si decide a lasciar partire Titinu a Sassari. Accanto al maestro, Nivola impara a dipingere. Comincia ad usare pennelli e colori, seguendo lo stile del grande pittore oranese. Delitala, che ha colto da subito lo straordinario talento del ragazzo, lo riprende: "Tu non devi dipingere come me, devi trovare un tuo modo di lavorare". Lezione durissima: solo dopo una lunga riflessione, Costantino la metabolizza. Da quel momento smetterà di disegnare scene campestri: pastori e contadini, pecore e messi spariranno dalla sua produzione. Nel 1931, Titino torna ad Orani. Attraversa un periodo difficile. Non è più muratore, vorrebbe diventare un artista, ma la strada è ancora lunga. A soccorrerlo arriva un’opportunità offerta da Consiglio dell’Economia di Nuoro: un concorso per una borsa di studio che consentirà ai primi classificati di frequentare l’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche di Monza (I.S.I.A.). Costantino Nivola partecipa e vince. Dalla Sardegna si trasferisce nella Penisola: un "salto" che gli aprirà le porte di un mondo nuovo e gli consentirà di confrontarsi con esperienze e culture diverse. Nel 1934, conosce Ruth Guggenheim, ebrea tedesca, anche lei studentessa dell’ISIA. Quattro anni dopo diventerà sua moglie. Nel 1935, Nivola si diploma in Belle Arti. L’anno successivo realizza pannelli murali per la Triennale di Milano. Nel 1937, diventa direttore dell’ufficio grafico della Olivetti. Cura la pubblicità aziendale. Allestisce gli spazi espositivi nella Galleria di Milano. Le vetrine diventano un’attrazione e vengono seguite con grande interesse dall’ambiente culturale milanese. Nel 1938, a causa delle persecuzioni antisemite, si rifugia a Parigi con la moglie e i suoceri. Nella capitale francese lavora, per otto mesi, come disegnatore free-lance. L’anno successivo, dopo l’invasione nazista della Francia, parte per gli Stati Uniti e approda a New York. In America, dopo un iniziale periodo di ristrettezze, entra in contatto con gli artisti di nuova generazione, conosce famosi architetti e fotografi. Nel 1940 diventa direttore della rivista di architettura Interiors and Industrial Design. Manterrà l’incarico fino al 1946. È negli St
ates che ottiene la consacrazione come artista. Progetta ed esegue opere in tantissime città americane, inventa la tecnica del sand-casting, la colata di cemento nella sabbia. Una produzione per la quale ottiene riconoscimenti in tutto il Mondo. Le sue opere vengono esposte in America, in Europa e in Italia. Negli Stati Uniti, insegna per diversi anni nelle università di Harvard, Columbia e Berkeley. Nel 1958, torna a Orani per realizzare la tomba di famiglia. Nell’occasione allestisce una mostra all’aperto delle sue opere. La risposta dei compaesani è entusiastica. Da quel momento i contatti con la Sardegna si faranno sempre più frequenti. Nell’isola otterrà diversi importanti incarichi. Tra questi, il progetto per la piazza dedicata al poeta Sebastianno Satta a Nuoro (1966) e la realizzazione di una serie di sculture per la sede del nuovo Consiglio Regionale (1985). Muore a Long Island il 6 maggio del 1988, all’età di 77 anni.
LA "VUITTON CUP" SI DISPUTERA’ NEL MARE DE LA MADDALENA
APPUNTAMENTO AL MAGGIO 2010
La tappa europea della Vuitton Cup sbarcherà a maggio a la Maddalena. Il primo annuncio lo aveva già dato l’armatore Vincenzo Onorato a settembre, a due giorni dall’apertura al pubblico dell’Arsenale dell’isola, che si è trasformata in una ghiotta occasione per lanciare l’evento sposato in pieno dal Governo e dal sottosegretario e commissario del G8 Guido Bertolaso che ha dato la lieta notizia dopo la delusione ancora cocente del perduto vertice emigrato a L’Aquila. La conferma definitiva l’ha data il presidente della Regione Ugo Cappellacci dopo l’incontro con il Sottosegretario Guido Bertolaso, che si è tenuto presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. «Questo risultato – ha commentato il governatore – ha un grande significato per La Maddalena e per tutta la Sardegna. L’isola si proietta sullo scenario internazionale, offrendo al mondo intero non solo il nostro vento ed il nostro mare, ma tutto il fascino del nostro paesaggio. Voglio ringraziare coloro i quali hanno creduto in questa scommessa. È la dimostrazione che per uscire dalle difficoltà nello sport, come nella vita, serve il gioco di squadra». Che qualche cosa si stesse già muovendo a favore della Maddalena, lo si era intuito già ad agosto, nel corso della visita all’Arcipelago del patron della Moby Vincenzo Onorato, già armatore e patron di Mascalzone Latino, insieme ad Edoardo Recchi, segretario generale dello yacht club dell’Aga Khan e ai dirigenti della Louis Vuitton Cup, la manifestazione velica che è l’anteprima della Coppa America in programma negli Emirati Arabi Uniti come ha voluto Ernesto Bertarelli. Onorato, Recchi e i dirigenti francesi hanno fatto un sopralluogo anche nella struttura rinnovata dell’ex ospedale militare che ha davanti a sé un campo di regata vastissimo e libero, assolutamente consono ad ospitare la manifestazione internazionale. Come l’ex arsenale, oggi di proprietà della Mita Resort e della famiglia Marcegaglia che ha tutti i numeri e le strutture adatte non solo a consentire lo svolgimento della competizione, ma anche da ospitare i numerosi equipaggi che si riverseranno nell’Arcipelago prima, durante e dopo l’evento. Un entusiasmo, quello per La Maddalena come una delle stelle della Vuitton, confermato anche dal sottosegretario Bertolaso che nel corso della conferenza stampa di settembre aveva parlato così «Onorato? Uno dei mie miti. Sarà perché amo la vela». E da lì, il collegamento immediato e spontaneo con Garibaldi, qui vicino, e che ha vissuto nell’isola, lui, il fautore dell’Unità d’Italia, ci ha tenuto a precisare il commissario Bertolaso. L’evento velistico, che era anche un gradino obbligatorio per una possibile e successiva candidatura della Maddalena a sede dell’America’s Cup, si terrà in primavera, probabilmente a maggio, e si porterà dietro dagli 8 ai 14 team, per un totale di 700 persone che dormiranno, mangeranno e si alleneranno nell’isola per almeno un mese. «Ho fatto da suggeritore per la Luis Vuitton, il resto è stato portato avanti dal commissario Bertolaso. Dobbiamo partire da qui per una candidatura stabile e definitiva dell’isola e per accreditarla per sempre come capitale della vela del Mediterraneo – aveva affermato Onorato che ha insistito positivamente sulla Maddalena come sede possibile, o almeno candidabile, per la più prestigiosa America’s cup . Non ci sono molte location simili. Valencia, per esempio, non è nemmeno paragonabile all’isola. Quando abbiamo gareggiato non c’era mai vento, e così è stato per una quarantina di giorni e la struttura che ci ospitava era triste». Insomma, si tifa per l’isola rimasta a bocca asciutta, ma che sa reagire bene ai colpi.
Alessandra Deleuchi
CAPITALE E UNICO CENTRO ABITATO DI UN PICCOLO REGNO DI ISOLE
LA MADDALENA E LA SUA STORIA
Capitale e unico centro abitato di un piccolo regno di isole, La Maddalena non può vantare una storia molto lunga: le ripetute incursioni dei pirati nordafricani hanno impedito a lungo che si potesse formare su questi litorali un nucleo duraturo di abitanti. La storia della città ha inizio nella seconda metà del Settecento, quando la casa Savoia inviò le sue truppe, preoccupata per il contrabbando con la Francia e la crescente presenza di pastori che venivano con le loro greggi dalla vicina Corsica. Il piccolo abitato crebbe rapidamente come centro d’appoggio della Regia Marina, impegnata a controllare le acque circostanti: fu così respinto, nel 1793, il tentativo di invasione da parte della Francia rivoluzionaria, capitanata da un ancora sconosciuto Napoleone Bonaparte. La Maddalena è cresciuta poi con questo ruolo militare, che è stato confermato nell’ultimo dopoguerra con l’insediamento della base per i sottomarini americani. Ora, dopo una lunga serie di polemiche e di proteste, la base è stata eliminata. In prospettiva si immagina che le possibilità che si aprono per il futuro si possano incentrare in una ripresa e rafforzamento della forte vocazione al turismo, favorita non solo dalle caratteristiche dell’arcipelago e del mare che lo circonda, ma anche da quelle della sua piccola capitale. A partire dal viaggio per raggiungerla, che può avvenire soltanto servendosi dei piccoli traghetti che partono da Palau, al centro di un altro tratto incantevole della costa sarda. A un primo colpo d’occhio la cittadina ricorda, nelle piazze che apre sul mare, i grandi spazi di altri insediamenti coloniali. Un tono solenne viene anche dalle costruzioni maggiori, soprattutto quelle sorte per ospitare l’Ammiragliato e altri organismi della Marina. Solo in qualche stradetta interna si possono riconoscere le piccole case dei pescatori, che espongono a volte una nassa, una rete messa ad asciugare. La visita
essenziale tocca la piazza Umberto, o Comando, dominata appunto dall’Ammiragliato e da altre palazzine militari, ornate di poggioli in granito; nell’ampio spazio ospita il monumento ad Anita Garibaldi e quello a Giovanni Battista Culiolo, il "Maggiore Leggero", leggendario seguace del generale. Di qui la vista si apre sul mare, sino all’isola di Santo Stefano e, a sinistra, Caprera. Il percorso nell’abitato segue via Garibaldi e via XX Settembre, entrambe lastricate in granito e riservate esclusivamente ai pedoni. Vi si affacciano belle costruzioni a più piani che ospitano al piano terra bar e negozi. S’incontra poi la piazza Garibaldi, dove il Palazzo del Comune conserva la bandiera di Domenico Millelire, che comandò nel 1793 l’azione contro i francesi, e le palle di cannone sparate da Bonaparte. A breve distanza la chiesa parrocchiale di Santa Maria Maddalena; nell’attiguo Museo si possono vedere il crocifisso e i candelieri d’argento donati dall’ammiraglio inglese Nelson, che incrociò a lungo in queste acque, convinto che La Maddalena avrebbe potuto costituire un’ottima base militare per il suo paese. Intorno alla parrocchiale si diramano le vie del centro storico, lungo le quali è più facile cogliere tra i passanti qualche battuta in isulanu, il linguaggio locale nato dall’incontro del gallurese con il dialetto della vicina Bonifacio. Riprendendo il percorso dal Comune si giunge infine al porto di Cala Gavetta, che offre attracco sia alle imbarcazioni da pesca che a quelle da diporto. Vi si affaccia la piazza XXIII Febbraio con una colonna in memoria di Garibaldi. Non è lontano da qui il punto in cui attraccano i barconi che conducono i turisti a visitare le altre isole dell’arcipelago. Con l’automobile si può invece imboccare la strada panoramica che segue il litorale di questa isola maggiore, offrendo scorci su quelle minori, sulla Corsica e la Sardegna e, naturalmente, su calette, insenature, scogliere e magnifici tratti di mare. Lungo il percorso si incontra, a breve distanza dalla città, il Museo navale "Nino Lamboglia", nel quale è esposta una nave romana, recuperata col suo carico presso l’isola di Spargi. Inevitabile poi, nel corso dell’escursione, la deviazione per l’isola di Caprera – collegata con un istmo e un ponte – che oltre alle bellezze di un’isola mediterranea in mezzo al suo mare offre la forte suggestione del compendio garibaldino, con la tomba dell’eroe e soprattutto le abitazioni che eresse con le sue mani e i campi che seppe pazientemente coltivare, negli intervalli tra le sue imprese e negli ultimi anni della vita.
Salvatore Tola
INSEDIAMENTO A 4 CHILOMETRI DA SANTADI, DOPO LE GROTTE DI IS ZUDDAS
NEL SULCIS IL PRIMO UOMO NURAGICO
La scoperta risale a pochi mesi fa, ma solo a chiusura del cantiere di scavo viene resa nota dagli archeologi. In una grande grotta alle porte di Santadi sono state trovate le tracce del più antico insediamento nuragico: centinaia di frammenti di ceramica e una scala a gradoni perfettamente conservata. Da quello stesso sito provengono le tre statuine di osso che misteriosi tombaroli "pentiti" consegnarono al professor Enrico Atzeni negli anni Settanta. Da allora sono esposte al museo nazionale di Cagliari, eccezionali testimonianze nel Sulcis dell’uomo dell’età della pietra. La notizia, trapelata con la cautela del caso, è importante perché anticipa di 200 anni la fase cronologica sinora accreditata sui manuali nei quali il periodo nuragico viene compreso tra l’età del bronzo medio (1600-1500 a.C.) e la fine della civiltà punica (terzo secolo a. C.). Nella cavità naturale di Monte Meana, quattro chilometri da Santadi subito dopo l’area delle famose grotte di Is Zuddas, sono stati rinvenuti numerosi frammenti di ceramica simili a quelli trovati all’interno dei nuraghi. La novità sta nella datazione – accertata con l’analisi al Carbonio 14 dal laboratorio dell’università di Lecce – che fa risalire i cocci a 1800 anni prima di Cristo. Gli abitanti di quella grotta appartengono alla stessa popolazione che costruì i primi nuraghi. Quindi è verosimile che si cominciò ad innalzare le torri di pietra, simbolo dell’antica civiltà autoctona, verso quel periodo, quando la gente viveva anche dentro le grotte ben riparate sui fianchi delle colline. «In realtà questa scoperta non rivoluziona le nostre conoscenze, ma per noi è solo una conferma di quanto sosteniamo da diversi anni che la civiltà nuragica inizia a svilupparsi almeno dal 1800 come un’evoluzione delle esistenti civiltà megalitiche»: così dice l’archeologa Giuseppa Tanda, docente di preistoria e protostoria dell’università di Cagliari. Erede della cattedra e del ruolo che fu di Giovanni Lilliu, conferma le ipotesi su cui da tempo sta lavorando e che condivide con lo stesso "maestro" dell’archeologia nuragica. La grotta di Monte Meana è un’autentica miniera per gli studiosi e lo fu negli anni Cinquanta anche per gli estrattori di onice. Per un ventennio fu utilizzata come cava. Poi a metà degli anni Settanta fu abbandonata. In quel periodo venne saccheggiata dai tombaroli. Un luogo impervio, circa cento metri sopra il livello della strada montana che congiunge Santadi a Teulada. Dal basso solo con molta attenzione si può scorgere il nero della cavità che si apre nella fitta macchia. A fatica si sale tra i cespugli lungo un sentierino tracciato dagli archeologi e si arriva all’ingresso. Qui sono rimasti i ruderi di pietra dove c’era l’impianto per trasportare in piano i lastroni di onice e travertino. La grotta è molto ampia e fresca, un po’ di sollievo dai 35 gradi dell’esterno. All’interno, guidati dalla professoressa Tanda, per un mese hanno lavorato una ventina di archeologi, studenti, tecnici e operai con in testa Giacomo Paglietti, Valentina Basciu e Mariano Ucchesu, ricercatori delle università di Roma e Madrid. «È il secondo cantiere su Monte Meana, grazie all’intesa tra Università, Ministero e Comune di Santadi» sottolinea la Tanda: «Un terzo cantiere sarà necessario per studiare una zona ancora coperta dalle pietre crollate durante i lavori di cava. In questo punto abbiamo rinvenuto ceneri di fuochi e qui potremmo forse trovare elementi della presenza umana nuragica e magari neolitica». Agli occhi degli archeologi i cavatori hanno fatto "disastri" tagliando di netto le pareti e scavando in profondità senza alcuna consapevolezza che in quella grotta si trovassero le tracce dei più antichi abitanti della Sardegna nuragica e, prima ancora, del Neolitico. «Tutto il Sulcis è disseminato di grotte come Monte Meana: sinora ne abbiamo contato almeno una trentina » afferma Remo Forresu, l’archeologo al quale è affidato il restauro e lo studio di questi frammenti nel laboratorio del museo di Santadi di cui è anche direttore. L’Antiquarium è una piccola bomb
oniera al centro del paese che raccoglie in appena due locali molti reperti recuperati negli scavi del territorio: dalle grotte di Pani Loriga (frequentate sino all’epoca punica) e di Su Benatzu, alla necropoli a domus de janas di Montessu. Nelle vetrine è esposta una vasta varietà di materiale prenuragico e nuragico (ciottole, olle, scodelle, lucerne), un tripode di bronzo, diverse armi quali punte di frecce, pugnali, mazze ricavate dall’ossidiana o dalla selce. E c’è anche una rara lamina d’oro di incerta utilizzazione. «Il Sulcis – rileva Giuseppa Tanda – è la regione italiana che ha restituito il numero più alto di siti risalenti al Neolitico antico (5800 anni a. C.). Nessuna meraviglia se dovessimo trovare reperti dell’uomo del Mesolitico visto che ad Arbus è stata rinvenuta una tomba con due scheletri di circa 8 mila anni fa, chiamati Beniamino e Amanda». A spingere gli archeologi su questo sito è stata l’ipotesi di esplorare il contesto in cui furono recuperate dai tombaroli le tre statuine megalitiche. «Volevamo verificare il processo di formazione del Neolitico nel Sulcis» spiega l’archeologa: «Capire quando e come compaiono le prime forme di vita associativa di una civiltà che sviluppa l’agricoltura, l’allevamento e che crea quel tipo di manufatti di osso, pietra e ceramica. Seguendo questa pista abbiamo trovato le tracce della presenza del più antico uomo nuragico. I fondi per il cantiere sono finiti, ma speriamo di poter continuare quanto prima. Lo scavo potrebbe darci nuove sorprese riguardo all’uomo di ottomila anni fa contemporaneo del Beniamino di Arbus».
Carlo Figari
IL RAPPORTO DI GREENPEACE DOPO IL FLOP DI COPENAGHEN
CON TRE GRADI IN PIU’ SI SCONVOLGERA’ IL PIANETA
Un pianeta che nella seconda metà del secolo si troverà in bilico sulla catastrofe, con una popolazione vicina ai 9 miliardi di esseri umani e gli ecosistemi in ginocchio, non più in grado di fornire abbastanza acqua, cibo ed energia. E’ lo scenario post Copenaghen: un mondo soffocato dai gas serra, più caldo di 3 gradi. Mentre le delegazioni dei 192 paesi che hanno partecipato alla conferenza sul clima salgono sull’aereo portando a casa un mini accordo teorico, senza i target per il taglio delle emissioni di anidride carbonica, è stata messa a punto una prima analisi, che proietta a livello globale le conseguenze del flop del summit Onu. L’ha preparata Greenpeace per mostrare le conseguenze della resa di fronte alla minaccia climatica. Ecco cosa succederebbe se, continuando a bruciare petrolio e carbone e a tagliare foreste, permettessimo al global warming di crescere al di là di ogni controllo. Il ritmo dei monsoni cambierà, gli uragani diventeranno più intensi e più frequenti, il livello dei mari crescerà spazzando via decine di città costiere e di isole (gli arcipelaghi che a Copenaghen si sono opposti fino all’ultimo al patto al ribasso tra Stati Uniti e Cina rifiutandosi di firmare l’intesa). Le aree aride e semiaride in Africa si espanderanno almeno del 5-8%, si perderà fino all’80% della foresta pluviale amazzonica, la taiga cinese, la tundra siberiana e la tundra canadese saranno seriamente colpite. Il Polo Nord diventerà presto navigabile d’estate. Un rialzo di 3 gradi della temperatura media distruggerebbe un terzo dei ghiacciai tibetani in 40 anni. La popolazione mondiale sottoposta a un crescente stress idrico passerebbe dal miliardo attuale a 3,2 miliardi. E altri 200- 600 milioni di persone si aggiungerebbero all’elenco di chi non ha abbastanza cibo per sopravvivere. Significative estinzioni sono previste in tutto il pianeta: a rischio un terzo delle specie. Spariranno il 15- 40% delle specie endemiche negli hot spot della biodiversità mondiale. In America latina rischia l’estinzione il 25% delle specie arboree della savana. L’onda d’urto sulla qualità e sulla durata della vita sarebbe devastante. Con un aumento di 3 gradi, 3,5 miliardi di persone nel mondo saranno a rischio di contrarre la dengue e 2 miliardi a rischio malaria, una malattia che già oggi uccide 1 milione di persone l’anno. Inoltre, a causa della carenza di acqua, aumenteranno le vittime della diarrea, che uccide 2,2 milioni di persone l’anno, e della siccità, che moltiplicherà per sei il suo impatto. Nel nord America si prevede il 70% di crescita dei giorni a rischio ozono. La Ue stima che nel continente ci saranno 86 mila morti in più all’anno: diventeranno frequenti le ondate di calore che in Europa hanno provocato 70 mila morti aggiuntivi nell’estate del 2003. Anche in Italia l’impatto si annuncia pesante: se il livello del mare salisse di un metro nel 2100, l’Italia dovrebbe proteggere buona parte delle sue coste. Da uno studio commissionato a un gruppo di ricercatori risulta che in Italia il 22,8% delle coste è soggetto a erosione: sono 1.733 chilometri. A rischio risultano le coste dell’alto Adriatico da Venezia fino a Grado e verso Sud fin quasi a Rimini, mentre verso l’interno l’acqua potrebbe arrivare sino a Ferrara. In Toscana sarebbero in pericolo le coste vicino a Livorno e verso Nord quelle di Tombolo fino all’Arno: il mare arriverebbe alla periferia di Pisa. Nel Lazio, Latina verrebbe sommersa e verso sud il Tirreno ruberebbe gran parte delle coste vicino al Golfo di Gaeta. Sul versante opposto, la Puglia vedrebbe sommergere Manfredonia e le coste che si snodano verso Barletta, mentre la Sardegna potrebbe dire addio alle coste del Golfo di Oristano, a parte della penisola del Sinis e allo Stagno di Cagliari. L’aumento del livello del Mediterraneo provocherebbe inoltre un altro problema: l’infiltrazione salina nelle falde acquifere che comprometterebbe una parte importante delle risorse idriche, soprattutto in Puglia e Sicilia. I potenti della Terra hanno fallito l’obiettivo di impedire cambiamenti climatici disastrosi. Se ci sarà una forte reazione dell’opinione pubblica, calcola Greenpeace, eviteremo lo scenario segnato da una frenata troppo lenta nell’emissione di gas serra: serve un colpo di reni che permetta di chiudere entro il 2010 un accordo basato su tagli rapidi, consistenti e vincolanti.
DIALOGO IN POESIA FRA TORE PATATU E PAOLO PULINA
INCONTRO AL 2010
Tore Patatu, nato nel 1941 a Chiaramonti (in provincia di Sassari), è affermato scrittore e poeta in lingua sarda. Per gli auguri di fine anno, come sanno anche i frequentatori di questo sito, è immancabile un suo contributo in versi in limba. Ai suoi versi di speranza riferiti al 2009 e al 2010 ha risposto Paolo Pulina, nato nel 1948 a Ploaghe (vicino a Chiaramonti), che dichiara apertamente la sua ammirazione per la presenza culturale – specialmente nel web – di Tore e del fratello Carlo e di altre famiglie "culturali" (Tedde, Soddu) originarie di Chiaramonti.
ISPERENDE CH’IN SU 2009
Ognunu epat bonu su tribagliu,
trigu bundante e bonu laore.
Atesu si tratenzat ogni isbagliu,
triunfen meritòrios paghe e amore.
Noellas bonas diat su tzaravagliu,
sa gioventude si fetat onore,
de sa salude s’inventet su cagliu,
su carrarmadu diventet tratore.
Chi sesset ogni òdiu, ogni cuntierra,
in sas domos non b’epat pius afannos,
ausentu epan su male e ogni gherra.
De intragnas malas perdemus sos pannos
sian totu frades sos fizos de sa Terra
campende allegros nessi pro chent’annos.
Tore Patatu
SPERANDO CHE NEL 2009
In sardo hai scritto graditi auguri,
con versi veramente limpidi e sicuri.
Anche se del sardo non si estingue
il mio sapere, ricorro ad altre lingue.
L’augurio è lo stesso comunque:
pace, salute, lavoro, ovunque.
A Sassari, a Pavia, a Chiaramonti, a Ploaghe,
speriamo d’esser forti come dei nuraghe!
Paolo Pulina
NADALE 2009 – CABUANNU 2010
Soneto caudadu
Torrende ses Nadale virtudosu
a forrojare in dogni sentimentu,
prommitende serenu ogni cuntentu
pro aer in sa vida soddu e gosu.
E tue, cabuannu amantiosu,
pones in arte su mantessi intentu,
nende: "Atesu che siat ogni turmentu,
pasu sa gherra epat e reposu.
S’òmine a s’ater’òmine siat frade,
tratade su limbazu de su mele,
isperas mannas in santas vizìlias".
In cust’isetu restan sas famìlias,
ma, poi, torran sas limbas de su fele
e, in sas intragnas, sa malignidade.
Tando, cun bonidade,
auguràmunnos, coghende s’arrustu,
pro peus, s’annu, mezus chei custu.
E Tartaglia, pro gustu,
si tirat pedra, giambende sa meta,
no ammèriet a sa barra ‘e su poeta.
Tore Patatu
AMMIRASSIONE PRO SOS TZARAMONTESOS
DAI UNU DE PIAGHE
Custos tzaramontesos sun totu iscritores,
poetas, blogghistas, giornalistas;
a mie mi enint tristuras e malumores
ca cheria puru piaghesos in custas listas.
"Non ti preoccupes", narat Patatu
"nois puru semus de sàmbene piaghesu";
ma pro chi deo pota essere atatu
no mi bastat Soleandro "ligadu e presu".
E tando viva de Tzaramonte sa zente geniosa,
chi faghet de cognòmene Patatu, Tedde, Soddu;
totu persones de calidade meravigliosa
chi sa bertula de sa limba giughen a coddu.
B’at de isperare chi nessi in s’annu nou
sos amigos tzaramontesos siant imitados;
chi Piaghe torret a s’altesa de su nòmene sou
cun s’impignu de residentes e de emigrados.
Paolo Pulina
Tore Patatu e Paolo Pulina augurano per il 2010: BONU ANNU NOU, FELICE ANNO NUOVO, A HAPPY NEW YEAR, PRÓSPERO AÑO NUEVO, BONNE ANNéE, EIN GUTES NEUES JAHR
Cari amici della redazione di TOTTUS IN PARI, buongiorno.
Buon 2010 a tutti e grazie per tenerci informati oltre l’Atlantico. Un cordiale saluto.