La Sardegna è la zona ideale non per una ma per tutte le quattro centrali che il governo Berlusconi vuole realizzare in Italia dopo l’accordo col francese Sarkozy. Era ed è una valutazione fin troppo facile, ora ufficializzata con pezze d’appoggio scientifiche e istituzionali al massimo livello, come spiega Marco Mostallino su "Epolis". «La Sardegna è l’area italiana migliore per la costruzione di centrali nucleari, perché è la più stabile dal punto di vista sismico», ha riferito Enzo Boschi, presidente dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) durante una audizione davanti alla commissione Territorio e ambiente del Senato. L’audizione è un momento nel quale il Parlamento comincia a farsi delle idee precise su un problema, ascoltando i tecnici di settore prima di esaminare disegni di legge del Governo o proposte di deputati e senatori. «A Palazzo Madama, è toccato al numero uno della sismologia italiana – precisa il quotidiano – parlare del ventilato ritorno all’energia figlia dell’atomo. Il responsabile dell’istituto statale è stato chiaro: la regione Sardegna è una zona con una storia geologica completamente diversa dal resto dell’Italia. Si potrebbero fare tutte e quattro le centrali nucleari che il governo intende costruire lì, anche se poi bisognerebbe risolvere il problema del trasferimento dell’energia – ha aggiunto Boschi – Bisogna evitare che il problema venga affrontato con le informazioni sbagliate», ha proseguito il sismologo: «Ho visto sui giornali che un sito proposto era quello di Augusta, in Sicilia: non potrebbe esserci un’area più sbagliata, perché si trova su una faglia sismica». «La Sardegna invece è terra antica, stabile, dove le scosse di terremoto sono rare e leggere. Ecco che un sistema delicato e potenzialmente devastante come una centrale nucleare nell’isola, secondo Boschi, sarebbe sistemato bene, al riparo da eventi sismici catastrofici. Così non una ma quattro centrali potrebbero trovare spazio nella regione. Decidere, comunque, non è in capo a Boschi. Il governo non ha ancora avviato le procedure per i criteri tecnici di scelta dei siti: dopo questi, sulla base di rapporti scientifici, l’esecutivo dovrà stilare una lista di zone candidate e poi procedere alla individuazione delle quattro aree che saranno oggetto di quella che viene chiamata nelle carte ministeriali «servitù nucleare». Ai primi annunci e segnali, duramente contestati da Renato Soru durante la campagna elettorale, il neo presidente della Regione Ugo Cappellacci aveva garantito che «nessuna centrale nucleare verrà costruita nell’Isola: se vorranno farlo, dovranno passare sul mio corpo». Forse è il caso che cominci a prendere in considerazione di non esporsi troppo, di spostare la sua notevole stazza dai cingoli di carrarmato-Berlusconi quando avrà deciso di passare all’azione. Scajola ha smentito, niente di deciso, si fa disinformazione su vecchie mappe superate dei siti. Una balla, come quando in grande segreto, nel 2003, si stavano per stoccare nelle miniere sarde le scorie radioattive che sono ancora da piazzare. Certo, il parere espresso in Senato non è il via operativo al nucleare in Sardegna. Ma diamo tempo al tempo, bisogno pur preparare il terreno per ammorbidire le resistenze di pochi fanatici. Poi si potrà contare sulla tradizionale accoglienza dei sardi.
ACCORRETE PUBBLICO NELLA SARDEGNA DIFFERENTE
FRA CESPUGLI DI MIRTO E CENTRALI NUCLEARI
"La Sardegna è l’area italiana migliore per la costruzione di centrali nucleari, perché è la più stabile dal punto di vista sismico", ha riferito Enzo Boschi, presidente dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) durante una audizione davanti alla commissione Territorio e ambiente del Senato. L’audizione è un momento nel quale il Parlamento comincia a farsi delle idee precise su un problema, ascoltando i tecnici di settore prima di esaminare disegni di legge del Governo o proposte di deputati e senatori. Il prof. Boschi, tempestivamente raggiunto al telefono da Radio Press, sembrava perfino un po’ spaventato, ha perfino commentato: "io non ho mai detto che …. ho spiegato soltanto che … non vorrei sembrare un nemico dei sardi, perché so che non ne volete". Forse pensava a sanguinosi regolamenti di conti a colpi di leppa, senza sapere che anche in Sardegna vige l’usanza di risolvere tutto, alla fin fine, a pabassini e vernaccia di Oristano (l’equivalente "identitatario" dei tarallucci e vino di popolana saggezza). Comunque. Che la Sardegna fosse l’ideale l’avevamo già capito: poca gente, pochissima sismicità, e anche se ci potrebbe essere qualche problemino logistico di trasporto, insomma perfino noi profani possiamo immaginare che un incidente che avviene su un’isola è assai più facilmente gestibile, no? Quindi, una nota per gli appassionati della "diversità" della Sardegna, o come ha scritto qualche giorno fa Michele Serra su Repubblica (pezzo segnalatomi non da un indipendententista sardo ma da un amico della Valtellina), della nostra "alterità" rispetto agli italiani: "La regione Sardegna è una zona con una storia geologica completamente diversa dal resto dell’Italia. Si potrebbero fare tutte e quattro le centrali nucleari che il governo intende costruire lì, anche se poi bisognerebbe risolvere il problema del trasferimento dell’energia". Eh sì, siamo completamente diversi: una terra antica, stabile, accogliente. Anche per le possibili "servitù nucleari". Vorrò vedere allora gli entusiasti sostenitori delle "magnifiche sorti e progressive" della Sardegna – il turismo, per esempio: chi non vorrebbe venire a farsi le vacanze in una terra selvaggia, fra un cespuglio di mirto, un cielo terso e un bel cilindrone in cemento armato (noo, non è l’ennesimo albergo, è la centrale!) ?- entusiasmarsi ancora, sicuramente per quello che è l’argomento principe dell’uomo della strada quando si parla di nucleare: "Cioè, ma ti rendi conto di quanto risparmieremmo in bolletta???" Non posso riportare i pensieri e parole che mi vengono in mente ogni volta che sento questo festival della banalità. So che io le centrali nucleari non le voglio, ma non per quella simpatica sindrome NIMBY ("not in my backyard", non nel mio giardino) che ha colto tanti miei conterranei quando la Sardegna ha accettato i rifiuti campani. In quel caso era soprattutto gente che non ha mai nemmeno voluto fare la raccolta differenziata in vita sua perché "mi stresso", e che solo per questo meriterebbe di avercele sotto casa, le scorie non smaltibili. Nel mio caso, e in quello di molti altri, è che il nucleare proprio non lo vogliamo, né nel nostro giardino né da nessun’altra parte, perché è tutto sbagliato. E’ una visione del mondo che non condividiamo, fatta di crescita di qualsiasi cosa: consumi, rifiuti, pericoli, manipolazioni, distruzioni irreversibili dell’ambiente, che va in direzione opposta a quella in cui è necessario andare. E’ necessario, non soltanto per
la crisi economica ma anche per una questione di vitalità della razza umana, diminuire: le auto, gli imballaggi, gli sprechi, tornare a una austerity più consapevole.
Francesca Madrigali
IL RITORNO DEL NUCLEARE IN ITALIA: SI APRE IL DIBATTITO
LE REGIONI SI DIVIDONO. LA SARDEGNA "CHIUDE"
Dibattito acceso intorno all’ipotesi della costruzione di quattro nuove centrali nucleari in Italia. Dopo l’accordo tra Berlusconi e Sarkozy, svolta energetica accolta con entusiasmo da parte governativa – il ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, si fregia di "un elenco di 34 comuni" pronti ad ospitare i nuovi impianti -, il panorama appare per la verità quanto mai eterogeneo, come da migliore tradizione italiana. Se è vero che diversi sondaggi danno un’opinione pubblica più possibilista sul ritorno del nucleare, è forse presto per dire che le barriere definite dal referendum del 1987 siano del tutto sfumate. Anche perché sono molti ancora i nodi da sciogliere: in quali aree sorgeranno le nuove centrali, come e dove stoccare le scorie nucleari vecchie e nuove e, infine, chi metterà i soldi. L’ultima regione in ordine temporale a tirarsi fuori dall’opzione nucleare è la Sardegna, appena passata sotto l’ala di un’amministrazione di centrodestra. "State certi che dovrebbero passare sul mio corpo prima di fare una cosa simile – ha assicurato il governatore Ugo Cappellacci, nella sua pagina Facebook -. E comunque nessuna centrale in Sardegna: il Presidente Berlusconi manterrà la promessa fatta. Ricordo anche che l’accordo programmatico da me firmato con il Partito Sardo d’Azione recita: riconoscimento della esigenza che tutto il territorio della Sardegna sia denuclearizzato". Una presa di posizione netta rispetto a quanto scritto da alcuni quotidiani nazionali che avevano indicato nella piana di Arborea, nell’Oristanese, uno dei territori "papabili" per ospitare le prossime centrali nucleari. Ma anche Roberto Formigoni, presidente della Lombardia, liquida l’argomento con un "vedremo". Il "sì" senza se e senza ma arriva solo dalla Sicilia da cui però si distingue la provincia di Ragusa che "ha già dato" con Comiso. "Piuttosto ci servono infrastrutture", ricorda il presidente Antonici. A favore anche il Veneto e per l’Abruzzo "la via del nucleare è ormai inevitabile". Le altre regioni tergiversano o si schierano contro. E anche i comuni che ospitano le quattro centrali nucleari dismesse, Trino Vercellese, Caorso (Piacenza), Latina e Garigliano (Caserta), chiedono condizioni. Il sindaco di Caorso, in particolare, dà un sonoro "stop and go". "Finora non ci ha contattato nessuno ma la nostra posizione è chiara: il mio comune non è disposto ad un futuro atomico fino a quando non chiuderà con il passato: prima smantellino la vecchia centrale, poi ne riparleremo". Prima di tutto, aggiunge, "servono condivisione e incentivi e bisogna far partire i lavori solo quando sarà definito un sito nazionale per lo smaltimento delle scorie nucleari e chi pagherà tra decenni la dismissione delle centrali". Che, si sa, hanno una vita di sessant’anni. L’entusiasmo di Scajola è forse da tenere in stand by – memori delle furiose proteste di Scanzano Ionico e della Sardegna davanti all’ipotesi del sito di stoccaggio – in attesa che queste questioni siano meglio definite. E nel frattempo si provano a chiarire alcuni punti, tra cui quello dei costi (l’ipotesi è di 4 miliardi di euro a reattore, 8 o 9 a fronte di 4 o cinque centrali) che, assicura il ministro, non ricadranno sui cittadini e gli investimenti saranno privati. Gli accordi con la Francia ci sono già "ma può darsi che arrivino anche gli americani e i russi", spiega ancora mentre Confindustria applaude e gli scienziati – seguiti dagli ambientalisti – chiedono una riflessione più approfondita prima che vengano prese "decisioni irreversibili".
Antonella Loi
NUCLEARE: ACCORDO TRA LA FRANCIA E L’ITALIA
CENTRALE PROBABILE A ORISTANO
Si apre al nucleare. Per ora, genericamente, in Italia: in futuro chissà, anzi è probabile. Una delle quattro centrali da costruire entro il 2020, previste nell’accordo tra Sarkozy e Berlusconi, potrebbe essere realizzata Oristano. Il fatto non è nuovo. Il ministro Scajola lo aveva informalmente annunciato e in campagna elettorale Renato Soru lo aveva duramente attaccato su questo punto: «Scajola non ha il coraggio di dire, qui in Sardegna, durante la campagna elettorale, che la nostra Isola è già nella loro mappa di centrali nucleari». I fatti potrebbero dare ragione fin troppo tempestivamente all’ex presidente, sbugiardando ancora Berlusconi, che aveva escluso l’ipotesi di costruire una centrale in Sardegna. L’allarme suonava da tempo. Il nuovo governo era appena salito al potere e già il ministro Claudio Scajola annunciava il ritorno del nucleare in Italia. Allora, come oggi, bastavano due calcoli. Quello, già illustrato, sul territorio: ottima, la Sardegna, isolata e a rischio zero per i terremoti. E quello sulla convenienza, anche economica: nell’isola si produce già energia in esubero, esportata nelle zone industriali in deficit. C’era il rifiuto preventivo ma anche il sì al federalismo nucleare, dopo quello fiscale sbandierato dalla squadra di Berlusconi: più energia ma nelle aree in cui serve realmente. E possibilmente neanche dal nucleare, visto che l’accordo firmato «conviene solo ai francesi e intanto il governo nazionale in queste settimane sta perdendo tempo e occasioni per rilanciare il settore delle energie rinnovabili e del risparmio energetico, in campi su cui invece investono tutti gli altri Paesi europei e gli Usa di Barack Obama». In America, in quel periodo, il presidente era ancora Bush: e l’agenzia governativa Energy Information Administration chiariva che l’elettricità nucleare «è più costosa del 15% rispetto a quella prodotta con il gas naturale». Leggi metano, che in Sardegna arriverà dal 2012 grazie al metanodotto d
all’Algeria: tutto senza contare i costi per lo stoccaggio delle scorie e quelli elevatissimi per l’eventuale dismissione degli impianti. Da maggio a oggi sono cambiate tante cose, in Sardegna. Al governo della Regione, dopo le dimissioni di Renato Soru e il voto anticipato di domenica scorsa, arriva il centrodestra con Ugo Cappellacci alla presidenza. Tutto al termine di una campagna elettorale in cui Berlusconi ha «messo la faccia», parole sue, e con lui tutti i ministri. Non a caso Sarkò si complimenta con il Cavaliere per «il successo incredibile in Sardegna». La conquista dell’isola, che non era riuscita neanche a Napoleone Bonaparte, è stata seguita all’Eliseo «con grande interesse, gioia e ammirazione». Sul fatto che a Roma pensino alla Sardegna restano pochi dubbi. Lo avevano già fatto nel 2003, con Berlusconi sempre alla guida del governo nazionale e il centrodestra, con Mauro Pili, di quello regionale: l’idea era quella di costruire nell’isola un sito di stoccaggio per le scorie. Fermata da una sollevazione popolare convinta e determinata, unica nella storia dell’autonomia sarda.
Marco Murgia
UN COMMENTO SU WWW.TOTTUSINPAIR.BLOG.TISCALI.IT
LA SARDEGNA SI MERITA TUTTO QUESTO!
I sardi si meritano quello che sta per piombare in Sardegna! LE CENTRALI NUCLEARI!!! Votano Cappellacci perchè dicono che Soru è antipatico, ma nel momento in cui chiedi loro di darti altre spiegazioni, di farti capire quali sono le cose tanto orribili che avrebbe commesso il governatore Soru rispondono "mi è antipatico! eppoi ha bloccato la costruzione di un centro commerciale!" Questi sono i Sardi, ma che sardi, SARDIGNOLI!!! Invece di pensare alle nuove ferrovie, invece di pensare ai 4 ospedali aperti, invece di pensare alla tutela ambientale, alle fonti rinnovabili di energia pulita, invece di pensare ai finanziamenti per le scuole; si sardignoli proprio così perchè mentre lo Stato taglia i fondi alla scuola Soru stava aiutando finanziando i progetti con tanti soldini per far studiare i vostri figli sardignoli che vanno nei centri commerciali a passare le serate del sabato sera. Vergognatevi anche voi che abitate lontani dall’isola, che date il vostro sudore e sacrificio al bene di un’altra regione e che poi vi lamentate se dovete pagare le seconde case in Sardegna, e magari pagate in più le tasse del comune di chi vi ospita perchè non siete residenti. Vedi Varese! Ma è Soru che fa i suoi interessi, non il plurindagato che avete fatto salire al governo, si sardignoli vi meritate la distruzione della Nostra isola. UNA VERA SARDA!
Daniela Putzu
L’ECO DELLE RECENTI ELEZIONI REGIONALI IN SARDEGNA E’ ANCORA FORTE
GOOD BYE SARDINIA
Indipendentemente dagli orientamenti politici, le recenti elezioni hanno posto al centro dell’attenzione una domanda ineludibile: che ne sarà della Sardegna? Dello sviluppo urbano e costiero, del suo paesaggio, del suo volto? Ognuno segue le proprie convinzioni politiche ed etiche, ma è sotto gli occhi di tutti il mutamento dell’isola, il cambiamento dei suoi connotati. Negli ultimi decenni assistiamo impotenti allo sviluppo delle periferie delle città, spesso agglomerati commercial-industriali informi e desolanti; all’assalto alle coste che ha già modificato la morfologia dei luoghi e la sua percezione, da parte di chi ci vive o ci trascorre le vacanze. Un posto incantevole come S. Teresa di Gallura ha gonfiato la sua superficie, negli ultimi anni, quasi in virtù di un lievito miracoloso. L’orrenda, mastodontica costruzione de La Marmorata grida vendetta ai cieli, lo sviluppo di un paesino come San Pasquale, sempre in Gallura, farebbe invidia a Las Vegas. Tutta la costa settentrionale – e mi fermo a questa, per brevità – è un ininterrotto susseguirsi di cantieri e di villaggi-fantasma, vuoti per 10 mesi, ma pieni per tutto l’anno di un’inutile ostentazione di se stessi, e per sempre, in futuro, dell’offesa arrecata al paesaggio. La prima obiezione che viene fatta, in genere, a questo tipo di considerazioni è che si tratta di creare lavoro e di sviluppare il turismo. Dunque, proprio su questo vorrei argomentare. Il fascino della Sardegna, quell’attrattiva che manca a luoghi anche ben più famosi, sta nel suo paesaggio: la macchia mediterranea, i profumi, il silenzio, le sparse vestigia del passato contornate da una natura spesso ancora intatta, la flora, la fauna. L’unicità del paesaggio che circonda i nostri paesi, le chiese campestri, le fonti, i luoghi di culto, è impresso nella nostra mente e nella memoria storica. Questo amiamo della nostra terra e questo i turisti, gli estimatori dell’isola cercano, assieme alla bellezza delle coste e alla limpidezza delle acque. Tutto questo sta paurosamente arretrando, a fronte di guadagni facili, ma temo effimeri. Se, infatti, l’assalto ambientale dovesse proseguire con questo ritmo, lungo tutto il perimetro dell’isola ci ritroveremo una ininterrotta sequela di seconde case alla Disneyland, versione finto-mediterranea, con qualche appendice a prato inglese fino al mare, per milionari. Presto diventeranno indispensabili i resorts di lusso, i campi da golf, i centri-benessere – tutte cose di cui ognuno di noi sente una necessità impellente. Come consolazione resteranno, negli alberghi, le foto della "Stintino di una volta", della "Villasimius che fu", di "Cala luna della nonna". Avremo dunque uno stuolo di proprietari di seconde case e di villaggi, abitati per un paio di mesi all’anno. A quel punto, a chi mai interesserà spendere soldi e faticare per una traversata sulla famigerata Tirrenia, per ritrovarsi nella solita zuppa: folle maleducate in spiaggia, natanti a nugoli in un mare sempre più grigio-beige, chilometri di pizzoteche paninoteche gelatoteche nell’entroterra? Tanto vale andare in una spiaggia più vicina, più economica, con sdraio e ombrellone a modico prezzo, servizi garantiti sul serio dai Comuni (acqua, fogne, depuratori, manutenzione del territorio, negozi a prezzi non stellari). Per chi può, non ci sono problemi: andrà a Dubai, St. Tropez, nei Caraibi… In definitiva, dopo che ci saremo venduti la camicia e l’anima, avremo il danno e le beffe. Dunque, good-bye, Sardinia? Davvero mi piacerebbe capire cosa ne pensano i giovani e i meno giovani del nostro sgangherato "sviluppo", anche nella prospettiva dell’ultima follia di stagione: le centrali nucleari.
Marisa Dodero
DOPO UN INVERNO GELIDO, IL PIANETA HA DAVVERO LA FEBBRE?
INQUINATORI PLANETARI
L’inverno, contrariamente alle previsioni, è stato molto freddo: frequenti irruzioni di aria artica fino alle medie latitudini, piogge intense e nevicate abbondanti anche alle basse quote. Apriti cielo, è proprio il caso di dire. Tanto è bastato perché l’esercito sempre più agguerrito dei negazionisti dell’effetto serra gridasse all’inversione di tendenza, alla ricostituzione dei ghiacci del Polo Nord e all’imminente ritorno di una nuova glaciazione. Altro che riscaldamento globale! Ma si è trattato di clamori infondati. L’inverno appena trascorso, assicurano i meteorologi, non è affatto eccezionale, rientra nella norma. I ghiacci polari si sono estesi, così come avviene a ogni stagione invernale ma, alla prossima estate, torneranno a ritrarsi, evidenziando quella riduzione certificata dalle inequivocabili misure dall’alto dei satelliti artificiali. Globalmente parlando, poi, l’inverno rigido dell’emisfero settentrionale è controbilanciato dall’estate calda dell’emisfero australe. Insomma, a ben guardare la curva delle temperature medie degli ultimi decenni, una specie di linea a dente di sega con frequenti alti e bassi, ci si rende conto che la sua tendenza resta pur sempre in salita. Non sono sufficienti alcune settimane o una stagione più fredda del solito per affermare che il trend si è invertito. Il riscaldamento provocato dall’uomo e i rimedi più opportuni per contrastarlo rimangono uno dei più grandi problemi irrisolti del nostro tempo. Quali sono le obiezioni che alimentano il cosiddetto negazionismo climatico? La principale è che il clima non sta cambiando a causa dell’uomo, ma semplicemente per il fatto che è sempre cambiato, anche quando l’uomo non era ancora presente sul pianeta. Una tesi che ci libera da qualunque responsabilità e che si fonda sul pregiudizio che noi non saremmo in grado di spostare gli equilibri naturali. In realtà, se non ci fosse l’interferenza dell’uomo, piuttosto che un futuro rovente ci dovremmo aspettare l’arrivo di una nuova glaciazione. Infatti, stando ai cicli del passato, il nostro confortevole periodo interglaciale, che è caratterizzato da temperature medie globali di una quindicina di gradi e che dura da più di 10mila anni, dovrebbe essere prossimo alla conclusione e cedere il passo al grande freddo, con una brusca caduta delle temperature medie globali di 6 o 7 gradi. L’alternarsi di lunghe fasi fredde, intervallate da periodi con temperature più miti, si è già verificato tante altre volte nei milioni di anni passati, quando l’uomo non era ancora comparso sulla Terra. Allora i cambiamenti erano governati soltanto dalle possenti forze della natura: i variabili moti spaziali del nostro pianeta, l’incostante radiazione solare, i flussi di geo-gas dalle viscere della Terra; e gli alti e bassi del termometro dipendevano solo dalla loro complessa combinazione. Poi è arrivato l’uomo. All’alba della rivoluzione industriale, nel 1830, sul pianeta c’era circa un miliardo di esseri umani. Oggi sfioriamo i 7 miliardi e arriveremo a 8 nel 2025. Bruciando, in appena 2 secoli, la maggior parte dei combustibili fossili che la natura aveva faticosamente fabbricato in decine di milioni di anni, siamo arrivati a pompare anidride carbonica nell’atmosfera al ritmo di quasi 30 miliardi tonnellate l’anno. Questo gas, invisibile e inodore, ha una caratteristica fisica indiscutibile e verificabile in qualsiasi esperimento da laboratorio: trattiene la radiazione termica di cui la Terra tenta di liberarsi per mantenere il suo equilibrio, fa da termocoperta all’atmosfera. Allora, perché negare l’evidenza che il genere umano è ormai diventato, assieme alle altre, una forza della natura in grado di alterare gli equilibri del clima? Oggi la maggioranza dei climatologi di tutto il mondo si riconosce in un comitato scientifico di oltre 2mila studiosi voluto dalle Nazioni Unite e concorda sull’affermazione che la prevalente responsabilità del riscaldamento globale di circa un grado, verificatosi nell’ultimo secolo, sia da attribuire all’uomo. I governi devono contenere le emissioni dell’anidride carbonica e degli altri gas clima-alteranti. L’impresa è titanica perché vuol dire ripensare le fonti e i modi di produrre energia, i cicli produttivi, i trasporti, l’agricoltura, la zootecnia e la gestione delle foreste; inoltre, investire in energie rinnovabili e pulite, eliminare gli sprechi e le inefficienze. Un possibile modello per attuare questa rivoluzione lo ha offerto il Protocollo di Kyoto, il controverso trattato che impone la riduzione del 5% delle emissioni di gas serra entro il 2012, rispetto al 1990. Applicato, sia pure con molte difficoltà, da molti Paesi, tranne che dai maggiori inquinatori del mondo, Stati Uniti, Cina e India. Il Protocollo di Kyoto volge ormai alla scadenza. Già da tempo si aspetta che i Paesi che lo hanno ratificato, trasformandolo in legge nazionale, concordino il suo rilancio, definendo nuovi impegni per un orizzonte temporale che giunga almeno sino al 2020 e che al suo rilancio si associno i grandi Paesi che non lo applicano. La recente nomina di Barack Obama a presidente degli Stati Uniti, se da un lato sembra aver chiuso il capitolo delle ostilità contro il Protocollo di Kyoto portate avanti con determinazione dall’amministrazione Bush, d’altra parte non ha ancora prodotto un cambiamento di linea sul tavolo del negoziato climatico. E poi c’è l’intransigenza di Paesi come Cina e India che finora hanno continuato a ribadire il loro no a impegni di riduzione vincolanti. Le loro recenti responsabilità di inquinatori planetari non cancellano quelle storiche dell’Occidente industrializzato a cui spetterebbe, per primo, l’onere di procedere alla "de carbonizzazione" dei processi produttivi, sviluppando e fornendo le tecnologie più idonee al Terzo Mondo.
IL PATTO MONDIALE SULL’ECOLOGIA SCADE NEL 2012 MA APPARE GIA’ SUPERATO
PROTOCOLLO DI KYOTO, UN VEGLIARDO DI QUATTRO ANNI
Compie appena 4 anni ma è già vecchio dato che vivrà solo fino al 2012. È il protocollo di Kyoto: l’accordo stipulato nel dicembre 1997, ma entrato in vigore nel 2005, che impegna a ridurre le emissioni di biossido di carbonio e altri cinque gas serra (metano, ossido di diazoto, idrofluorocarburi, perfluorocarburi, esafluoruro di zolfo) del 5,2% entro il 2012 rispetto ai valori del 1990. Per anni l’assenza di Russia e Stati Uniti ha rinviato l’entrata in vigore degli accordi, che in base agli accordi sarebbe scattata dopo che almeno 55 Paesi avessero ratificato l’adesione al protocollo, a partire dai 194 sottoscrittori originari. Nel 2002 il protocollo era stato ratifi
cato da 55 Paesi ma nel complesso non si raggiungeva il 55% delle emissioni planetarie di gas serra come previsto dagli accordi: questo limite si è raggiunto solo nel 2004 con la ratifica della Russia. Ma come si è arrivati a Kyoto? Nel 1972, anno della prima Conferenza internazionale sull’ambiente, i ricercatori del Massachusset Institute of Technology elaborarono il rapporto "I limiti dello sviluppo": per la prima volta da un pulpito scientifico rimbalzavano indicazioni opposte rispetto a quelle della civiltà dei consumi. Il ragionamento, semplice da comprendere quanto difficile da digerire, era che la crescita economica mondiale è legata al limite delle risorse disponibili e il progressivo esaurimento delle risorse naturali avrebbe portato a catastrofi ecologiche, a imponenti conflitti sociali e al collasso dell’intero sistema economico. Dopo la conferenza, l’Onu fece nascere il Programma per l’ambiente (Unep) ma si dovette attendere il 1979 per la prima Conferenza sul clima e l’annuncio al mondo della presenza di alterazioni climatiche: innalzamento delle temperature medie e scioglimento dei ghiacciai. Nel 1988 l’Unep creò l’organismo di controllo (Ipcc: International Panel on Climate Change) allo scopo di indagare sul fenomeno dei cambiamenti climatici e sulle sue cause. Le fondamenta del protocollo di Kioto furono create in occasione della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici, firmata a Rio de Janeiro nel 1992 durante l’Earth Summit: i partecipanti riconobbero l’importanza della Convenzione come base di successive azioni più energiche. Il secondo rapporto dell’Ipcc è del 1995 e contiene gli elementi di connessione tra le attività umane e i cambiamenti climatici. Materiale convincente, ma non per la Casa Bianca: nel 1997 il Senato Usa respinse il Protocollo di Kyoto con 95 voti a zero. Qui va ricordato che l’opposizione alle iniziative ecologiche non è di natura squisitamente politica: le industrie petrolifere e automobilistiche hanno costituito gigantesche lobby negli Stati Uniti per esercitare pressioni su politici e media. Questo negazionismo climatico, nato per screditare le ricerche sui cambiamenti, sta tuttavia mostrando i propri limiti. E oggi la svolta di Barak Obama, indirizzata alla costruzione di un’economia a basso impatto ambientale come strategia per combattere la crisi economica globale, sembra andare nella logica di Kyoto. I 15 miliardi di dollari stanziati per lo sviluppo massiccio delle energie rinnovabili e per ridurre le emissioni negli Usa ai livelli del 1990 produrranno risultati importanti, ma resta il fatto che attualmente i Paesi che ancora non hanno ratificato il trattato producono circa il 40% delle emissioni di CO2, percentuale ancora troppo alta. E’ il quarto anniversario dall’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto. Oggi la domanda fondamentale non è tanto se gli Usa ratificheranno l’accordo ma cosa si dovrà fare dopo il 2012. C’è chi suggerisce misure più severe, chi attende le prossime mosse di Obama, chi se la prende con Cina e India. Ma dato che il problema è legato saldamente alla produzione di energia, la risposta più saggia la troviamo nel libro di Gabrielle Walker (giornalista scientifica) e David King (docente di chimica e fisica a Cambridge) "Una questione scottante, cosa possiamo fare contro il riscaldamento globale" (Codice, 2008): «Quando impareremo a imbrigliare la luce del sole in maniera efficiente, avremo tutta l’energia di cui ci sarà bisogno a domicilio.» La vera soluzione ci sarebbe e il suo nome è decrescita. Ma, abituati come siamo al benessere energetico, chi avrà mai il coraggio di chiederci di ridurre i consumi e gli sprechi?
AVEVANO PRESTATO SERIVIZIO A PERDASDEFOGU E NEI BALCANI
URANIO IMPOVERITO, ALTRE DUE VITTIME
Altri due militari sarebbero morti per possibile contaminazione da uranio impoverito. Il primo, deceduto la scorsa estate, aveva prestato servizio nel poligono di Perdasdefogu, l’altro aveva partecipato alla missioni in Somalia e sui Balcani. La notizia arriva dal sito Vittimeuranio.com che da tempo si occupa di questa problematica. Il militare che era stato in Sardegna era di Montefiascone (Viterbo). E’ morto il 10 giugno 2008, ma la notizia è stata resa nota solo ieri. Aveva 31 anni. Nel 1996- ’97 aveva prestato servizio nel poligono. Nel 2004 è stato colpito da una forma di tumore a un testicolo, che gli è stato asportato. Nel dicembre 2007, poi, gli è stato diagnosticato un linfoma non Hodgkin che lo ha portato alla morte. «Mio fratello – ha detto la sorella Francesca – era una roccia. Mentre era in malattia mi chiamò perché aveva visto un servizio in tv sull’uranio impoverito riguardante la base militare dove lui aveva operato, era preoccupato, io gli dissi: "ma cosa vai a pensare". Adesso mi sono documentata e tutto questo mi ha portato a pensare che forse anche Marco sia stato una vittima dell’uranio. Dopo tanto dolore adesso c’è tanta rabbia e la voglia di verità e giustizia». «Nel giorno in cui si viene a sapere della morte, finora non conosciuta, di un militare che aveva operato nel poligono sardo di Perdasdefogu, si apprende anche della morte del luogotenente V.M., deceduto il 4 febbraio scorso a causa di un carcinoma esofageo, sempre per presunta contaminazione da uranio impoverito», ha detto ieri Falco Accame, presidente dell’Anavafaf, associazione che da anni si occupa di questa problematica. «Il sottufficiale – afferma Accame – era stato impiegato in Somalia e nei Balcani. Allo stesso luogotenente venne rifiutata la causa di servizio. «E’ sperabile che il ministro della Difesa, che si è dimostrato molto attento alle condizioni di salute dei militari, possa migliorare la grave situazione esistente per tanti ammalati e aiutare le famiglie dei deceduti».
Massimiliano Perlato
INCHIESTA DE "L’ESPRESSO" SUGGLI INQUINAMENTI INDUSTRIALI
L’ITALIA DEI VELENI
Dici Orbetello e pensi alle spiagge bianche, alla Maremma incontaminata e agli allevamenti di spigole. A nessuno verrebbe in mente che il cuore dell’Argentario è inserito dal 2002 nella lista dei siti più inquinati d’Italia. La laguna è così compromessa che Altero Matteoli, sindaco del paesino durante i week-end e ministro delle Infrastrutture il resto della settimana, è riuscito ad inserirla per intero nell’area da bonificare per legge, che inizia
lmente prevedeva la pulizia solo della fabbrica di fertilizzanti della Sitoco. "La Sitoco? E chi la dimentica… Noi da ragazzi si andava a giocare nel bosco dietro le ciminiere", ricorda un ristoratore, "quando s’alzava il maestrale era uno spettacolo, la mia R4 bianca si ricopriva di una polverina arancione che non veniva più via. Con la fabbrica mangiavano duecento famiglie, ma devo ammettere che quella polverina dava noia alla gola. Pizzicava pure gli occhi". La polverina era in realtà anidride solforosa, che il vento ha portato a spasso da inizio Novecento fino al 1991, quando lo stabilimento ha chiuso definitivamente. Se eventuali danni alla salute non sono mai stati registrati, di sicuro terreni e acque portano ancora le ferite inferte dalle ciminiere: metalli, Pcb, diossine e idrocarburi pesanti sono sparsi per i 54 ettari del sito industriale. La fabbrica cade a pezzi, ma lo scheletro fatiscente accoglie ancora i villeggianti che scendono alla stazione. Il guardiano non fa entrare nessuno, "non per cattiveria ma per sicurezza: nei capannoni sono conservati le ceneri di pirite, amianto e altre schifezze. Io pure giro con la mascherina. Ma presto qui sarà tutto rinnovato, vogliono costruire un grande centro congressi". Sarà. A oggi sono stati messi sul tavolo oltre 8 milioni di euro, qualcosa è stata messa in sicurezza, ma dopo 18 anni di attesa la riqualificazione resta un miraggio. Così come la bonifica della parte di levante della laguna e del bacino di Ansedonia, dove nelle reti dei pescatori finiscono da mesi impigliate spigole piene di mercurio. In questa zona il problema non sono i residui chimici, ma le ex miniere della Ferromin del Monte Argentario. "Il metallo è rilasciato dai sedimenti del fondale, poi viene inghiottito dai pesci" spiega il Commissario al risanamento ambientale della laguna Rolando di Vincenzo, già assessore all’urbanistica per An. Nonostante i dati Arpat siano negativi, non c’è un esplicito divieto di pesca: il consorzio ‘Orbetello pesca lagunare’, che vanta l’esclusiva del Comune, semplicemente ‘evita’ di gettare le reti nelle zone compromesse. Ripulire la zona non sarà uno scherzetto: l’idea è quella di strappare i primi 70 centimetri del fondale, e spostare altrove terra e mercurio. Ma servono soldi a palate, e un sito ad hoc dove stoccare migliaia di tonnellate di rifiuti speciali.
La valle dei tumori. I veleni ‘per sempre’ di Orbetello sono in buona compagnia. Anche Trento aspetta la bonifica di una vasta area alla periferia nord. A fine anni ’70 l’incendio a un deposito di sodio obbligò il sindaco a chiudere la Sloi, che produceva dai tempi del fascismo piombo tetraetile. A pochi chilometri dal centro cittadino nell’anno di grazia 2009 circa 150 mila metri cubi di terreno conservano gelosamente un cocktail di mercurio, piombo, fenoli, policiclici aromatici e solventi. Del recupero si discute da tre decenni. Costo stimato 50 milioni, qualcuno favoleggiava di un parco con le altalene, ma in città nessuno ci crede più. La storia dell’impianto e della bonifica mancata sarà protagonista persino di un film-documentario finito di girare un mesetto fa, ‘La fabbrica degli invisibili’. Come invisibile è stato per settimane un dossier di settembre dell’Asl due di Roma e dell’Istituto superiore della sanità, che racconta la devastazione della Valle del Sacco. Dopo tre mesi di silenzi da parte di sindaci e istituzioni, centinaia di persone che vivono a Colleferro, Segni e Gavignano, paesoni vicino la capitale, hanno scoperto dai giornali locali di essere contaminati "in maniera irreversibile" dal beta-esaclorocicloesano, una sostanza cancerogena rilasciata da una fabbrica di pesticidi chiusa anni fa. Già nel 2005 la zona fu messa sotto osservazione dopo che decine di mucche morirono per aver bevuto l’acqua di un torrente. I veleni del distretto industriale sono rimasti in circolo: secondo gli esperti i pazzeschi livelli di contaminazione sono legati "all’uso dell’acqua dei pozzi locali e al consumo di alimenti prodotti in loco".
Business gigantesco. Materiali pericolosi di ogni genere sono sparsi in tutte le regioni d’Italia, senza eccezione alcuna, e contaminano suolo, falde acquifere e polmoni anche dopo decenni dalla chiusura delle ciminiere. Nonostante le cifre da capogiro spese (stimabili intorno ai 5-10 miliardi di euro) o solo annunciate, l’Italia resta uno dei paesi più inquinati del mondo occidentale. Gli inquinanti, quando va bene, vengono nascosti sotto il tappeto nemmeno fossero polvere, o separati dalle zone circostanti con muri speciali, come si progettava per Portoscuso, in Sardegna. A parte le 15 aree ad ‘alto rischio di crisi ambientale’ censite nel lontano 1986, il Cnr elenca a tutt’oggi 54 siti di interesse nazionale, i cosiddetti Sin, e ben 6 mila siti regionali da tenere sotto controllo. I ricercatori mettono le bandierine su altri 58 luoghi con elevata contaminazione da amianto e 1.120 stabilimenti industriali e chimici a rischio di incidente rilevante. In tutto, i siti inquinati sarebbero 10 mila, compresi i depositi di materiale radioattivo eredità della stagione nucleare. "Per avere una dimensione del problema", spiegano gli esperti del Consiglio nazionale delle ricerche, "segnaliamo che gli abitanti nei 311 comuni inclusi nei Sin sono tra i 6,4 e gli 8,6 milioni, escludendo o includendo i comuni di Milano e Torino". Se si considerano le altri fonti di inquinamento, il numero supera i 15 milioni, un quarto dell’intera popolazione. Gli allarmi degli scienziati e le leggi ad hoc non si contano, ma a parte le perimetrazioni e le analisi delle sostanze, gran parte delle bonifiche non sono neanche iniziate. "Non solo abbiamo cominciato a pulire dieci anni dopo la Germania e la Francia, ma il sistematico scarico di responsabilità tra aziende private e amministrazioni pubbliche blocca tutto, visti i tempi biblici della giustizia italiana", ragiona il vicepresidente del Wwf Stefano Leoni: "Il business è gigantesco. Non solo per le opere di messa in sicurezza, ma anche per l’affare della riconversione industriale". Impossibile, secondo l’esperto, calcolare un dato preciso delle spese sostenute finora: "Do solo due indicatori che definiscono la misura degli interventi: la bonifica del sito di Cengio, in Liguria, è costata 450 milioni di euro, e parliamo di un sito piccolo rispetto a quello di Gela o Porto Marghera. Il governo Berlusconi, poi, riprendendo un decreto voluto dall’ex ministro Bersani stanzierà la bellezza di tre miliardi di euro per il recupero dei Sin, che si aggiungono alla montagna di denaro spesa dagli anni ’70 in poi". Nonostante gli sforzi economici, tranne poche eccezioni i risultati non si vedono. Secondo uno studio della Corte dei conti la lotta ai veleni combattuta con il programma nazionale di bonifica ha prodotto "risultati del tutto modesti". La stroncatura è del 2003, ma a tutt’oggi non esistono altre analisi dei progressi compiuti. Eppure il tema resta devastante. Per l’impatto ambientale e per le ripercussioni sulla salute. Nel 2002 l’Oms ha dimostrato che ad Augusta-Priolo, a Crotone, in Puglia, nel napoletano, nella parte della Pianura Padana più inquinata, in Val Bormida e nella zona del Lambro in Lombardia, in un quinquennio si sono registrati (rispetto alle medie regionali) oltre 4 mila morti in eccesso, di cui 660 per tumori. Una ricerca della Regione Sicilia ha stimato recentemente eccessi di mortalità e di tumori al polmone e colon rett
o anche a Biancavilla e Milazzo, mentre in Sardegna rapporti allarmanti sono stati stilati sulla zona di Portoscuso e Porto Torres. Per non parlare del cosiddetto ‘triangolo della morte’ del napoletano, dove secondo la Protezione civile in alcuni comuni si registrano aumenti significativi del rischio di malformazioni del sistema nervoso centrale e dell’apparato urinario e un incremento del 2 per cento della mortalità.
Scandalo Toscana. Se in qualche caso le analisi sono datate, in pochi credono che di recente la situazione sia migliorata. Anche perché il ripristino delle aree resta inchiodato, in pratica, all’anno zero. Il caso Toscana è emblematico: a parte Orbetello, nella black-list dei Sin la regione è ben rappresentata anche da Livorno, Massa Carrara, la discarica delle Strillaie e Piombino. Per mettere in sicurezza le aree servirebbero 500 milioni, in vent’anni ne sono stati spesi una trentina. Un fiume di soldi finito quasi tutto in analisi preliminari e nella perimetrazione. "A Piombino c’è inquinamento atmosferico da polveri, benzene, accumulo di residui di lavorazioni in attuali situazioni di rischio, la falda artificiale è contaminata, ci sono discariche di rifiuti pericolosi", recitava un decreto del 2001 voluto dall’allora ministro dell’Ambiente Matteoli. Finora è stata ripulita solo la banchina ‘dei Marinai’. Anche a Massa Carrara, nella zona del vecchio polo chimico dove insistevano l’Enichem, l’Italiana Coke, la Dalmine, l’inceneritore Cermec e la Farmoplant, l’elenco degli inquinanti a terra è impressionante. Metalli, pesticidi, solventi e fenoli, idrocarburi, polveri derivanti dalla lavorazione del marmo. Il materiale da riporto ha creato una crosta di due metri. "È uno degli scandali italiani", dice Erasmo D’Angelis, presidente della commissione ambiente del Consiglio regionale: "Si resta alle parole e alle promesse. Gli impegni presi dai governi sembrano firmati con l’inchiostro simpatico. Si bruciano miliardi per difendere l’italianità dell’Alitalia ma non c’è un euro per garantire i territori della Toscana, brand di successo per l’industria culturale e turistica nazionale".
Aspettando la bonifica. I tempi lunghi per le operazioni di bonifica riguardano anche esempi virtuosi. In Piemonte Casal Monferrato e una cinquantina di piccoli comuni limitrofi sono stati riconosciuti ‘area critica’ per l’amianto ben 12 anni fa. Le amministrazioni sono riuscite a sostituire oltre un milione di metri quadri di coperture pericolose, ma prima di altri quattro anni è difficile che i lavori vengano terminati. Persino a Fidenza, in Emilia Romagna, i cantieri per ripulire le aree dell’ex Cip (un’azienda fallita nel 1971, produceva piombo) e dell’ex Carbochimica sono ancora aperti: spesi finora una ventina di milioni, ad aprile ne sono arrivati altri 12. I più speranzosi puntano a chiudere nel 2011. Al Sud, dove dovrebbe finire l’83 per cento del denaro stanziato, la situazione è di stallo totale. In Campania i siti nazionali interessano una cinquantina di comuni, ma secondo il censimento dell’Arpac le aree compromesse sono in totale 3.972, tre volte il dato, già alto, della Lombardia. Nel napoletano e nel casertano il rischio viene in primis dalle discariche abusive. Il commissariato alle bonifiche, che fino allo scorso 31 gennaio era guidato dal governatore Antonio Bassolino, ha bruciato circa 400 milioni di euro. In sette anni tra i cantieri portati a termine ci sono quelli di Pirucchi, Paenzano e Schiavi, a Giugliano. Per il resto, ci si è limitati alle analisi e alla perimetrazione. Secondo la Procura di Napoli la società Jacorossi, vincitrice dell’appalto per eliminare i rifiuti tossici, avrebbe addirittura smaltito parte delle sostanze in varie cave spacciandoli per scarti edilizi: dei 60 milioni versati all’azienda, 46 sarebbero frutto, secondo i carabinieri del Noe, di una "gestione illecita". Sperperi monstre anche per risanare il Sarno, il fiume più inquinato d’Europa: tra il 1973 e il 2003 il commissariato preposto ha speso circa un miliardo, senza risultati di rilievo. Negli ultimi cinque anni sotto la guida del generale Roberto Jucci la situazione è migliorata, sono stati costruiti depuratori e fogne, ma secondo i dati Arpac le acque restano sporche. Anche a Bagnoli i lavori per risanare l’area Italsider (chiusa 18 anni fa) vanno a rilento. E i turisti al posto del lungomare con porticciolo ammirano ancora la colata a mare dell’ex acciaieria Ilva, in attesa che venga smontata e spedita a Piombino.
Chi inquina non paga. In Puglia è stato fatto ancora meno. Nella zona della vecchia Enichem, a Manfredonia, sono state messe in sicurezza alcune aree, ma secondo Legambiente attorno alla fabbrica restano accumulati 250 mila metri cubi di acidi, ammoniaca, arsenico, fanghi e altro. A Brindisi e Taranto di come fare piazza pulita si dibatte dalla notte dei tempi. L’ultimo accordo di programma è di un anno fa: 170 milioni, da aggiungere ai 150 già messi sul piatto per la bonifica. A oggi non è arrivato nemmeno un euro, tanto che il governatore Nichi Vendola ha protestato col governo. Il problema non è solo ambientale: il blocco dei finanziamenti impedisce anche l’apertura di nuove aziende (solo a Brindisi potrebbero svanire investimenti per 165 milioni) nelle aree "ad alto rischio". Anche a Gela, Priolo e Augusta, in Sicilia, i poli industriali che minacciano da decenni la salute di centinaia di migliaia di persone definiscono, immutabile, il panorama della costa. Finora, nonostante gli studi sull’aumento di tumori e malformazioni, nessuno ha mosso una foglia. A Gela sono stati spesi 15 milioni di soldi pubblici, messi a disposizione nei primi anni ’90. Con il gruzzolo è stata portata a norma qualche discarica ed è stata restaurata la caserma dei pompieri. "Peccato che per bonificare la mia città serva un miliardo", spiega il sindaco Rosario Crocetta: "Il petrolchimico ha invece investito 150 milioni di tasca propria per riciclare l’acqua di falda, grazie a un accordo con noi. È inutile aspettare lo Stato, bisogna applicare il principio che chi inquina, paga". Il caso della vicina Priolo fa da monito: in vent’anni, nonostante gli accordi quadro del 1990 che stanziavano ben 100 miliardi di lire, sono stati effettuati interventi tampone per 5 milioni di euro, circa il 10 per cento del totale. Restano i veleni degli impianti dismessi, mentre le fabbriche funzionanti continuano ad inquinare. "Quelle zone sono state usate anche come pattumiera illegale di rifiuti tossici" chiosa l’assessore regionale all’Industria Pippo Gianni: "C’è il sospetto che la criminalità abbia interrato centinaia di fusti di materiale radioattivo scarto della sanità lombarda. Tra Lentini, Carlentini e Francofonte è lievitato il tasso di leucemie infantili". Se finora non è stato rimosso un solo bidone, Gianni punta sull’ennesimo accordo di programma firmato a novembre. I finanziamenti come sempre sono faraonici: 776 milioni di euro, di cui 200 a carico dei privati. Molti gli scettici, ma qualche inguaribile ottimista giura che questa è la volta buona. Come recita il proverbio, chi vivrà, vedrà.
Mare nero. Calano gli investimenti, e aumenta l’inquinamento dei mari. La Corte dei conti ha appena pubblicato un dossier sulle attività anti-inquinamento del triennio 2005-2007, scoprendo che l’attività di raccolta dei rifiuti in mare ha subito una riduzione drastica. Meno di 3.500 metri cubi recuperati contro i 24mila del triennio precedente, nonostante siano state varate regole più severe. Se il bilancio ridotto ha permesso di raccogliere solo idrocarburi, secondo i giudici il rapporto tra Stato e la società che gestisce la raccolta nelle varie regioni, la Castalia, potrebbe far sorgere dubbi sul "pieno rispetto delle regole di concorrenza". Il sistema per pulire i nostri mari fa acqua da tutte le parti: "Un altro vulnus", conclude la Corte, "è rappresentato dall’estrema difficoltà di attribuzione di responsabilità per il risarcimento dei danni, spesso condizionata dalla concomitanza della flagranza: nel 64 per cento dei casi è stato infatti impossibile scoprire l’autore dell’evento". Non solo. Quando l’inquinatore viene scoperto, l’iter per ottenere il credito è lungo e tortuoso, e permette di incassare parte minima delle spese sostenute "per la reintegrazione della situazione ambientale alterata". Nel triennio è stato recuperato il 2 per cento del dovuto: circa 199mila euro su quasi sei milioni totali. Una miseria.
I NUMERI E LA STORIA RECENTE SONO ELOQUENTI: NELL’ISOLA VINCE LA NEGLIGENZA
IL DISSESTO IDROGEOLOGICO SARDO
Il 22 ottobre 2008, l’area compresa tra il Rio San Girolamo, Capoterra, Santa Lucia, Sestu e Cagliari, è stata interessata da un evento meteorico di particolare intensità che ha scaricato nell’area ben 372 mm d’acqua con un valore di punta tra i più alti in assoluto mai registrati dalla rete pluviometrica regionale: 148 mm in un ora. Questo tipo di evento rientra tra quelli che vengono considerati dissesti idrogeologici e sono tristemente noti in tutto il Paese. Il dissesto idrogeologico rappresenta per il nostro Paese un problema di notevole rilevanza, visti gli ingenti danni arrecati ai beni e, soprattutto, per la perdita di moltissime vite umane. In Italia il rischio idrogeologico è diffuso in modo capillare e si presenta in modo differente a seconda dell’assetto geomorfologico del territorio: frane, esondazioni e dissesti morfologici di carattere torrentizio, trasporto di massa lungo le conoidi nelle zone montane e collinari, sprofondamenti nelle zone collinari e di pianura. Tra i fattori naturali che predispongono il territorio a frane ed alluvioni, rientra senza dubbio la conformazione geologica e geomorfologica. Tuttavia l’abbandono dei terreni montani, l’abusivismo edilizio, il continuo disboscamento, l’uso di tecniche agricole poco rispettose dell’ambiente, l’apertura di cave di prestito, l’occupazione di zone di pertinenza fluviale e l’estrazione incontrollata di fluidi (acqua) dal sottosuolo, il prelievo abusivo di inerti dagli alvei fluviali, la mancata manutenzione dei versanti e dei corsi d’acqua hanno sicuramente aggravato il dissesto e messo ulteriormente in evidenza la fragilità del nostro territorio. All’indomani della disastrosa alluvione di Firenze nel 1966 ed in seguito ad eventi luttuosi, è stato compiuto un lavoro di ricerca che ha evidenziato, in modo chiaro ed ancora attuale, i problemi legati alla prevenzione dal rischio idrogeologico nel nostro paese. Questo lavoro portò all’elaborazione della legge 183 sulla difesa del suolo (oggi il D.Lgs. 152/06 riunisce in un unico testo le disposizioni relative alle acque e al suolo), emanata nel 1989, e ancora oggi parzialmente applicata, denominata "Norme per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo". Tale legge si propone espressamente di assicurare la difesa del suolo, il risanamento delle acque, la fruizione e la gestione del patrimonio idrico per gli usi di razionale sviluppo economico e sociale e la tutela degli aspetti ambientali ad essi connessi. Se si vanno a vedere i dati sulla casistica del dissesto idrogeologico tratte dallo studio sulle Aree Vulnerate Italiane (AVI) svolto dal Gruppo Nazionale Difesa Catastrofi Idrogeologiche del CNR, si può notare che in Sardegna sino al 1998 sono stati registrati ben 816 piene in 243 siti e 218 frane in 180 siti piazzandosi al 7 posto tra le aree più colpite da piene dopo le regioni del nord. Dal 1985 sono state ben 25 le alluvioni che hanno comportato ben 8 vittime ed hanno riguardato tutta la Sardegna da sud al nord. Il rischio di piena presente nell’intero territorio regionale, risulta spesso indotto da una scarsa attenzione ai corsi d‘acqua ed alle loro aree di pertinenza, soprattutto quando questi interagiscono con infrastrutture che rappresentano le cause principali di pericolosità per i fenomeni di allagamento. I tragici eventi che hanno colpito Capoterra, con la morte di cinque persone, hanno posto in evidenza a tutta l’opinione pubblica regionale i pericoli connessi con il dissesto idrogeologico del territorio e di come sia importante la pianificazione territoriale, corredata da uno studio geologico approfondito (la Sardegna è la regione italiana che utilizza meno i geologi), al fine di evitare disastri di tali proporzioni. Ai sensi della legge 183/89 l’intero territorio della Sardegna è considerato un bacino idrografico unico di interesse regionale e con la delibera della Giunta regionale n°45/57 del 30/10/90 il territorio regionale è stato suddiviso in sette sub-bacini, ognuno dei quali caratterizzato in grande da generali omogeneità geomorfologiche, geografiche, idrologiche. La Sardegna è tra le regioni italiane che spendono meno per la prevenzione ed è invece tra quelle che spendono di più a causa dei danni provocati da disastri in gran parte evitabili. Infatti, per fronteggiare le conseguenze degli eventi alluvionali e di dissesto idrogeologico verificatesi nel mese di ottobre 2008, con danni materiali stimati in oltre 30.000.000 di euro, è stato autorizzato dalla Regione lo stanziamento 20.000.000 di euro per le opere urgenti di ripristino della viabilità, degli edifici pubblici e privati danneggiati e delle infrastrutture. Pietro Caredda
OLTRE AL PAESAGGIO TORNERA’ DI NUOVO STRATEGICA L’AGRICOLTURA
SARDEGNA, UN VERDE NEW DEAL
Il green new deal d
ella Sardegna è l’unica sfida possibile all’emergenza economica e climatica. Anche Legambiente, come il FAI, lancia un appello a tutti gli schieramenti politici per salvare la necropoli punica di Tuvixeddu. Ma ci sono molte altre cose da salvare. A iniziare dalle misure sull’ambiente e il paesaggio che la Sardegna si è data in questi anni di legislatura. Sono conquiste di civiltà, dovrebbero essere irrinunciabili per chiunque. Oggi in molte parti del mondo le ragioni dell’ambiente si vanno affermando come l’unica bussola per trovare la via d’uscita alla recessione globale. L’utopia ambientalista della sostenibilità, se non si è realizzata, si è stabilmente insediata nelle coscienze e nelle opinioni. In Sardegna diventa non più rinviabile la riconversione del ciclo produzione-consumo verso forme di sviluppo non distruttive, che puntano sulle forze degli stessi sardi e si riallacciano alla rete delle vocazioni locali. Le "materie prime" non potranno essere più il carbone, il petrolio o il cemento, ma il paesaggio, i patrimoni culturali, la conoscenza e la comunicazione. Un campanello d’allarme ci viene dai cambiamenti climatici, arrivati anche in Sardegna con qualche tributo di vite umane. Tempo scaduto. La crisi climatica e quella economica appaiono strettamente collegate e obbligano a coniugare le azioni di contrasto ai cambiamenti climatici con misure antirecessive. La Sardegna ha iniziato in questi anni un green new deal, la cui "grande opera" è una diffusa riqualificazione dell’isola, dalle economie alla sanità, dalle strade ai treni, dai beni culturali a quelli naturalistici. C’è un progetto in corso d’opera che la Legambiente vuole salvare, non per aprioristiche appartenenze politiche, ma perché è oggi l’unica sfida possibile all’emergenza economica e climatica. I dubbi, quando non vengono da cartelli di speculatori, giungono da alcune aree economiche, come l’edilizia e la campagna dove si temono forti penalizzazioni nel settore. Al contrario, noi crediamo che il progetto di una Sardegna sostenibile è l’unico che può salvare l’edilizia dal tracollo in atto. Dovrà però orientarsi verso un’opera di diffusa riqualificazione e ristrutturazione, convertendo gli edifici da consumatori a produttori di energia. Un grande Piano di Edilizia Pubblica si rende necessario per ridare un orizzonte sensato a un mercato immobiliare letteralmente impazzito. Aspri rilievi al progetto in corso vengono dal fronte della campagna. Costruire villette in campagna, senza regole, è indubbiamente reso più difficile dal Piano Paesistico Regionale. Ma il discusso provvedimento ha un disegno di lungo periodo e mira a riportare la terra alla sua vocazione naturale di produzione e lavoro. Dopo il crollo mondiale delle economie di carta, l’agricoltura dovrà tornare ad essere il cuore di una modernizzazione in sintonia con la natura. Un importante banco di prova del ritorno alla terra potrà essere il progetto della messa in valore dei milleduecento ettari della storica azienda di Mamuntanas e Surigheddu nel territorio di Alghero. Un progetto di agricoltura-turismo-formazione, una cerniera tra produzioni agricole e turismi lenti. Un progetto, anche questo, da salvare.
PREOCCUPANTE FENOMENO CHE HA RAGGIUNTO IL 32%
DISOCCUPAZIONE GIOVANILE IN SARDEGNA
La disoccupazione giovanile deve diventare la prima preoccupazione della politica sarda dopo la consultazione elettorale. E’ questo, infatti, il problema più importante delle famiglie sarde e sono quanto mai necessarie e urgenti nuove misure e interventi specifici mirati a combattere la mancanza di lavoro tra i giovani. In Sardegna il tasso di disoccupazione giovanile, cioè le persone in cerca di occupazione in età 15-24 anni su forze di lavoro della corrispondente classe di età, è del 32,5%. Si tratta di una percentuale altissima, seconda solo a quella della Sicilia (al 37,2%), e pari a quella della Campania. Il dato ultimo è quello del 2007; in attesa di quello del 2008 che non dovrebbe registrare – purtroppo – dei miglioramenti, visti i dati trimestrali della disoccupazione più complessiva e lo stato dell’economia regionale. A testimoniare il perdurare del fenomeno c’è da sottolineare che in 13 anni, per la Sardegna, le variazioni positive del tasso di disoccupazione giovanile hanno riguardato una modesta riduzione di appena 1,8 punti percentuali. In questo arco temporale, infatti, il tasso di disoccupazione più alto si è registrato nel 1999 con 37,7%, quello più basso nel 2002 con il 28,8%. Il tasso di disoccupazione giovanile della componente femminile è quello che crea maggiori preoccupazioni: è infatti pari al 43,3% (persone in cerca di occupazione in età 15-24 anni sul totale delle forze di lavoro femminili di pari età). E, in questo caso, si è di fronte ad un picco che non ha riscontri negli ultimi 13 anni: nel 2006 si era al 39,0% e nel 2005 al 38,6%. Un’annotazione importante riguarda la consistente riduzione del tasso di disoccupazione giovanile nelle regioni del centro-nord negli ultimi 13 anni e anche le stesse regioni del meridione, pur mantenendosi su livelli molto alti, registrano un decremento consistente del fenomeno. Per la Sardegna la disoccupazione giovanile registra in 13 anni tassi che, nella variazione annuale, si discostano solo di pochi punti percentuali. È prioritario un programma straordinario di interventi per contrastare la disoccupazione giovanile, alla luce anche dell’allarme occupazione lanciato a livello internazionale dall’OCSE (l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) e dall’ILO (l’Organizzazione Internazionale del Lavoro), che prevedono per il 2009 e per il 2010 un incremento di questo fenomeno sia in area Ocse, sia in area UE. Nell’Isola questo allarme è purtroppo ancora più preoccupante perché impatta con un’economia che da anni è vicina alla crescita zero.
E’ PRIMA IN ITALIA. PERO’ CONTINUA A FARE FIGLI
SARDEGNA, PAESE DI VECCHI
L’Istituto nazionale di statistica ha diffuso i dati demografici dell’anno 2008: una fotografia dell’Italia attraverso il movimento della popolazione residente, i tassi di natalità e di mortalità. L’Italia cresce e nel 2008 supera la soglia dei 60 milioni di residenti, un traguardo storico, raggiunto grazie ai 4 milioni di stranieri, che costituiscono il 6,5% della popolazione. È la fotografia dell’Istat, che descrive anche un Paese molto longevo, e quindi che invecchia, con donne più propense ad avere figli, ma oltre i 30 anni. In questo processo la Sardegna cresce meno, arranca nelle ultime posizioni, superata solo da Liguria e Molise che registrano dati inferiori a quelli sardi. Il tasso di natalità per mille abitanti è dell’8,2% rispetto a regioni come Veneto, Lombardia, Trentino e Campania saldamente attestate sulla media del 10,5. Se la cicogna torna a volare e lo fa soprattutto al nord, grazie alla concorrenza di due fattori – una robusta e consolidata presenza di immigrati, il rinvio dell’appuntamento con la mate
rnità per le donne – anche in Sardegna c’è un piccolo ma significativo segno più. Per il Mezzogiorno infatti il saldo è negativo (si fanno meno figli in Campania, Puglia e Basilicata) in Sardegna la ripresa della fecondità nell’arco di tempo che va dal 1995 al 2008 è del + 0,04%. Anche in quest’ultimo ritratto, la Sardegna mostra molte più rughe delle altre 19 concorrenti. Come ormai accertato da tempo è un’isola di persone anziane: il 68,9% della popolazione è compresa tra i 15 e i 64, un primato. Con regioni come il Piemonte, il Friuli Venezia Giulia, l’Emilia Romagna, la Liguria il divario è addirittura di 4 punti in percentuale. La popolazione fino a 14 anni si ferma al 12,4%, rispetto alle giovani Trentino e Campania dove la percentuale è del 16,7. Fa un lieve balzo la fascia di popolazione compresa fino a 17 anni ma la posizione della Sardegna in classifica non migliora. Non sono solo negativi i segni che caratterizzano l’Isola. Infine è un po’ al di sotto della media la presenza di popolazione straniera residente nell’Isola compresa nella fascia di età tra 18 e 39 anni; è appena più alta la quota di stranieri (sempre residenti) tra i 40 e i 64 anni. Il risultato è che l’età media degli stranieri è alta 33,9%, dietro alla Campania 34,3%. Ma alla fine la percentuale di popolazione straniera che vive stabilmente nell’Isola è un piccola quota rispetto al totale: appena il 3% di immigrati tra i 18 e i 39 anni rispetto a regioni come Toscana e Piemonte dove la presenza di stranieri radicati oscilla tra il 15 e il 16%. Dunque nel Paese la popolazione residente cresce di oltre 434 mila unità, «determinando così lo storico superamento della soglia dei 60 milioni di abitanti al primo gennaio 2009». Sono serviti così 50 anni (dal 1959) per il passaggio della popolazione da 50 a 60 milioni; ne occorsero invece soltanto 33, per passare da 40 a 50. Un risultato che è stato possibile solo grazie all’arrivo degli immigrati. Se infatti la «dinamica naturale», vale a dire la differenza tra nascite e morti, presenta un saldo negativo di 3.700 unità rispetto al 2007, la «dinamica migratoria» ha un saldo positivo di 438mila. Per effetto dei saldi migratori la crescita totale è positiva soprattutto nel nord-est (Emilia Romagna in testa, +14,7 per mille), e del centro, mentre nel Mezzogiorno la crescita totale è inferiore alla media nazionale. Complessivamente, gli stranieri residenti in Italia ammontano a circa 3 milioni 900 mila al primo gennaio 2009, facendo così registrare un incremento di 462 mila unità (una cifra inferiore al saldo migratorio, di cui costituisce solo una voce). Si tratta del 6,5% del totale della popolazione (era il 5,8% nel 2007). Le cittadinanze straniere più rappresentate sono quella romena (772 mila), albanese (438 mila) e marocchina (401 mila) che, cumulate, costituiscono il 40% delle presenze. La distribuzione degli stranieri sul territorio nazionale è nettamente più elevata nelle regioni del nord dove risiede il 62% degli stranieri (23% nella sola Lombardia), contro il 25% di residenti del centro e il 12% del mezzogiorno. Nel 2008, secondo le stime dell’Istat, sono nati 12mila bambini in più rispetto al 2007. Le nascite sono state 576 mila, per un tasso di natalità pari a 9,6 per mille residenti. L’incremento, secondo l’Istat, è legato essenzialmente a due fattori: il contributo alla natalità delle madri straniere – 88 mila nascite, pari al 15,3% del totale – e il «recupero di natalità delle madri di cittadinanza italiana», che hanno spostato in avanti il calendario riproduttivo a 31,5 anni (1,7 in più rispetto al 1995). Il numero medio di figli per donna è pari a 1,41 (2,12 per le sole donne straniere): un record, dopo il minimo storico nazionale toccato nel 1995, quando la media fu di appena 1,19 figli per donna. L’incremento della fecondità nel periodo 1995-2008 si concentra prevalentemente nel centro-nord. «L’eccezionale longevità degli italiani» è la causa dell’invecchiamento della popolazione: al primo gennaio 2009, rileva l’Istat, «gli individui con 65 anni e oltre rappresentano il 20,1% della popolazione (erano il 17,8% nel 1999), mentre i minorenni sono soltanto il 17% (17,6% nel 1999)». I residenti in Italia hanno in media 43,1 anni, circa 2 in più rispetto a dieci anni prima. La stima della speranza di vita alla nascita è pari a 78,8 anni per gli uomini e a 84,1 anni per le donne: una differenza di 5,3 anni, in calo continuo dal 1979, quando erano 6,9. Gli stranieri hanno un’età media di soli 31,2 anni e sono sempre più «tappabuchi» dei vuoti generazionali lasciati dagli italiani. Le aree più longeve nel 2008 sono, per gli uomini, le Marche (79,6 anni) e per le donne la Provincia autonoma di Bolzano (85,2 anni).
TUTTO RESTA INCOMPIUTO E TRISTEMENTE ABBANDONATO
SARDEGNA, REGIONE DIVERSAMENTE ABILE
Avete mai notato? Ogni volta che si crea ex novo qualche ente o si elegge un direttivo o un presidente, subito fioriscono le iniziative, i progetti, le migliori azioni di volontariato… La foga dell’entusiasmo anima tutti e sembra arrivata finalmente la soluzione del problema. Poi, passa un po’ di tempo, le cose cominciano a raffreddarsi, le persone a disimpegnarsi, i contrasti e le polemiche a crescere, le riunioni e i tavoli di lavoro ad essere sempre più frequenti. "Se un problema causa molte riunioni – dice Hendrickson – alla lunga le riunioni diventeranno più importanti del problema stesso". Il riflesso di questo lo constatiamo ogni giorno nei telegiornali regionali: una grossa percentuale delle notizie riguarda riunioni, tavoli, assemblee, seminari… Rarissimo vedere cerimonie di inaugurazione, "abbiamo fatto questo, abbiamo terminato quest’altro, sono terminati i lavori del…". Poi arriva un giorno che si scopre che tutto è morto e sepolto. Strade, ponti, edifici pubblici, opere sanitarie, iniziative sociali… Tutto resta incompiuto e tristemente abbandonato a metà e ogni paese ha la sua triste "incompiuta". Ma perché sempre così in Sardegna! Perché! La mancanza di volontà politica, l’ignavia (l’indolenza e la trascuratezza assunta a norma quotidiana di vivere), l’assenteismo, l’incompetenza, l’insufficiente programmazione e la maledetta burocrazia, ancora una volta hanno prodotto un’altra rovina."Noi sardi, tutti credo, soffriamo di complessi che sono certamente in gran parte atavici… Li confessiamo a noi stessi, ma non amiamo che gli estranei li facciano propri. Abbiamo dentro di noi qualcosa di caratteristico che ci fa simili, prodotti della stessa specie… Ma questa unità psicologica non ci ha mai unito, né ci unisce tuttora. Poiché la disunione è la prima nostra impronta. E ci sentiamo d’essere una nazione mancata… sempre disuniti e nemici fra noi stessi… La mancanza di iniziativa che generalmente ci viene addebitata – e non proprio a torto io penso – è anch’essa un prodotto storico… Quando si pensi che 900.000 ettari di terreno – dati tecnici – sono trasformabili e passibili di diventare produzione agricola, ci si può fare un’idea non solo delle possibilità dell’Isola, ma dell’apporto che essa può dare all’economia e alla civil
tà nazionale" (E. Lussu, Il Ponte, 1951 nn. 9-10). Due esempi. Si era parlato, anni fa, di un mega progetto intitolato Consorzio turistico Sardegna ovest. Era un programma di grandi aspirazioni e speranze per lo sviluppo turistico dell’Oristanese e della Marmilla, che puntava a creare 3.700 posti letto (senza contare l’indotto relativo). Si trattava di un investimento di 130 milioni di euro per la realizzazione di 14 alberghi, 5 villaggi turistici, 2 sedi di agriturismo e perfino un golf country, pensato nell’area costiera che va da S’Ena Arrubia di Arborea fino alla Planargia, che avrebbe interessato la costa del Sinis e la marina di San Vero. Dopo due anni (2004) dalla stesura del progetto, il piano era ancora fermo al CIPE (Comitato interministeriale per la programmazione economica). Ancora, data la sua caratteristica, per poter andare avanti il disegno doveva superare l’esame del pre-CIPE, il comitato intermedio di programmazione. Nel frattempo, il ministro per le Attività produttive Antonio Marzano aveva optato per il dirottamento dei finanziamenti al settore della chimica, allora agonizzante. Adesso è proprio morta! A ritardare ancora quell’iter metteva una mano… d’aiuto la Regione, cofinanziatrice del progetto per 36 milioni di euro, ma inconcludente al momento giusto. "E pensare – diceva il deputato Giovanni Marras – che avevamo trovato perfino un forte adviser (azienda madre che si faceva garante per gli interventi finanziari dei privati)". "Inutile sottolineare – così l’on. Pierfrancesco Garau, vice presidente e assessore all’ambiente della Provincia di Oristano – quanto questo progetto interessi alla nostra amministrazione. Non solo si raddoppierebbero le strutture ricettive, ma si verificherebbe anche un rilevante incremento occupazionale ed economico per realizzare le opere". E che dire del progetto dell’elettrificazione delle ferrovie sarde?… Vi ricordate dei venticinque locomotori da cinque miliardi di lire l’uno che finirono ad arrugginire nei binari morti di Civitavecchia e di Cagliari? Uno spreco dissennato per un progetto iniziato e mai finito. La storia era cominciata nel 1985 (c’è gente che ha la memoria lunga…), quando il neonato Ente delle Ferrovie diede inizio al suo lusinghiero programma di investimenti, che comprendeva, appunto, anche l’ammodernamento e l’elettrificazione delle Ferrovie della Sardegna, progetto che permetteva di collegare Cagliari con Sassari in due ore e mezza e Cagliari a Golfo Aranci in tre ore e dieci minuti. Nacque un consorzio di imprese, chiamato Team, che doveva provvedere all’elettrificazione e alla costruzione di tre centrali di alimentazione della linea. Cinque anni dopo (1990), quando si volle fare il punto sullo stato dei lavori, si scoprì che questo consorzio aveva costruito solo 35 chilometri di linea elettrica: 15 da Cagliari a Decimomannu e 20 da Villasor a Sanluri Stato. Solamente per questi 35 chilometri il costo fu di 252 miliardi, mentre tutto il tracciato da elettrificare era preventivato in 664 miliardi. Delle tre centrali, ne venne costruita solo una a Villasor, mentre per le altre due i lavori non furono nemmeno iniziati. Milioni e milioni buttati al vento. Che ne è stato di questi bei progetti, finiti come decine di altri per colpe burocratiche? C’è bisogno di dire che con una simile politica di sviluppo sociale non si va da nessuna parte e che la Sardegna resterà sempre fissa al posto della Cenerentola? Sono gli atteggiamenti e i comportamenti dei nostri amministratori che fanno giudicare la Sardegna come una regione diversamente abile, incapace cioè di gestire un grande e multiforme patrimonio a beneficio dei suoi abitanti. Ai nostri amministratori si deve addebitare "quello stato di languore e di inerzia che stupefà gli osservatori" (Carlo Cattaneo, 1860). "Una costante lagnanza di Giorgio Asproni – il grande intellettuale di Bitti – fu che l’élite politica sarda era inerte e divisa e non era capace di rivendicare la propria autonomia" (Martin Clark). "Il problema della Sardegna sono i sardi stessi. Difatti, l’unico che è riuscito a farla conoscere non è un sardo: l’Aga Khan… La Sardegna ha in realtà un capitale strepitoso. Ma chi la rappresenta in parlamento ama il sistema dei vassalli-valvassori. Mi chiedo com’è che i sardi non siano incazzati con i loro parlamentari, sempre intenti a litigare". Così Luca Barbareschi (U.S. 21.12.08). E intanto, per usare le parole feroci di Trilussa, mentre i politici si sfiancano in litigi assurdi nel litigatoio regionale, "er popolo se grata". Er popolo… ossia i cittadini elettori, il contribuente. Fanno tanti sacrifici e si sobbarcano a tante spese prima di essere eletti, ti telefonano ti scrivono e ti chiamano per nome poi, raggiunto il loro scopo, non ti conoscono più. Viene il terribile sospetto che sia vera la legge di Imhoff?: "L’organizzazione di ogni burocrazia (presa come un mestiere per campare) è molto simile a una fogna: i pezzi più grossi restano sempre a galla". Vitale Scanu
COLPITI CINQUANTAMILA SARDI, SOPRATTUTTO BAMBINI
LA GIORNATA DELLE MALATTIE RARE
Diverse manifestazioni ed incontri sono stati organizzati in tutta la Sardegna a sostegno delle persone colpite da malattie rare. Le malattie rare sono croniche, progressive, degenerative e spesso fatali con elevati livelli di sofferenza. Ad oggi non esiste cura per le 6.000 – 8.000 malattie rare, 75% delle quali interessano i bambini. In Italia, ci sono circa 2.000.000 di persone affette da malattia rara. Di questi, circa 50.000 risiedono in Sardegna. Sono 50 mila i sardi, prevalentemente bambini, che soffrono di patologie rare, croniche, progressive e degenerative, spesso fatali per i livelli di sofferenza che comportano: solo per citarne alcune, perché l’elenco è lungo, ci sono la sindrome di Tourette, la Spina Bifida, l’ernia diaframmatica, il lupus eritematoso, la labiopalatoschisi, X Fragile, la sindrome di Williams. Sono malattie di cui si parla poco ma che condizionano la vita dei pazienti e delle loro famiglie. Le associazioni sarde, nate per volontà dei familiari, si sono unite per partecipare alla Giornata in contemporanea con tutte le regioni d’Italia con un duplice obiettivo: parlare pubblicamente di questi problemi per annientare il muro di solitudine e portare all’attenzione della politica le loro esigenze, perché
; attraverso il sistema sanitario locale non hanno ancora avuto risposte adeguate. Oltre alla difficoltà di trovare appoggio in strutture adeguate c’é l’esigenza – sottolineano le associazioni – di avere più medici specializzati nel territorio: non tutti possono accedere alle visite, sia per problemi economici che per la lunghezza dei tempi d’attesa. A volte si è costretti ad andare fuori dalla Sardegna. Un esempio positivo è stata la nascita del centro di Tourette a Cagliari che si distingue a livello internazionale e ha il valido supporto di un ricercatore sardo che lavora a Los Angeles.
RYANAIR LANCIA DA ALGHERO SETTE NUOVE ROTTE LOW COST
DA GIUGNO, VOLI VERSO DANIMARCA, OLANDA E AUSTRIA
Sono stati presentati nella sede della Sogeaal, la società di gestione dell’aeroporto di Alghero, sette nuovi collegamenti che dal prossimo giugno la Ryanair renderà operativi: Billund, in Danimarca, Eindhoven (Olanda), Graz (Austria), Amburgo (Germania), Ancona, Parma e Verona. La rappresentante della compagnia irlandese, Ida Buonanno, ha sottolineato nel corso della presentazione che nonostante la crisi economica Ryanair continua a investire per richiamare flussi di traffico in Sardegna e in particolare ad Alghero dove si raggiungeranno con le nuove tratte 24 collegamenti nazionali e internazionali. Inoltre dal prossimo 30 marzo entreranno in funzione i collegamenti con Parigi, Charleroi Bruxelles, Oslo, Treviso e Genova. Sempre dal 30 marzo Ryanair aprirà ad Alghero la sua base di stazionamento con due aeromobili e altrettanti equipaggi che sosteranno anche nelle ore notturne. Per il lancio dei la compagnia irlandese mette a disposizione un milione di posti a cinque euro con prenotazioni che si dovranno effettuare nel sito della compagnia www.ryanair.com. Il consistente aumento dell’offerta di tratte da parte della società di gestione dello scalo testimonia di un percorso programmatico e promozionale che prosegue e che si è rivelato estremamente utile per l’intera area nord occidentale della Sardegna. I flussi del traffico low cost, pur inseriti attualmente in un contesto di forte contrazione per la crisi economica, costituiscono una linfa vitale per il territorio soprattutto ora che i consumi crollano e che il turismo tradizionale registra forti difficoltà nelle stesse prenotazioni per la stagione estiva 2009. Ryanair scommette dunque ancora su Alghero, prima località in Sardegna dove la compagnia low cost ha aperto nuovi orizzonti.
SCOPERTO AL "CNR" DI CAGLIARI IL GENE CHE CAUSA L’INFARTO
GRAZIE AGLI STUDI DI 6MILA ABITANTI DELLA SARDEGNA
Dalla genetica una nuova arma contro le malattie cardiovascolari, che rappresentano la principale causa di mortalità nel mondo occidentale: i ricercatori del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) hanno infatti individuato un gene ritenuto responsabile della regolazione della rigidità arteriosa, alla base di tali malattie. Lo studio, nell’ambito del progetto ProgeNIA dell’Inn-Cnr, è stato pubblicato sulla rivista Circulation Cardiovascular Genetics. La rigidità arteriosa, di cui si tende a soffrire in età avanzata o per errati stili di vita, spiega il Cnr, è ad alto rischio per l’insorgenza di aterosclerosi o ipertensione. Ma lo studio dell’Istituto di neurogenetica e neurofarmacologia (Inn) del Cnr di Cagliari, in collaborazione con vari gruppi internazionali, ha ora evidenziato che un gene, il COL4A1, è implicato in questa patologia, aprendo così la strada a nuove strategie di trattamento e prevenzione di queste malattie. "Nell’ambito del progetto ProgeNIA, nato per ricerche legate ai processi di invecchiamento e completamente finanziato dal National Institutes of Health americano, abbiamo condotto uno studio di associazione sul genoma di oltre 4.000 individui sardi, constatando che il COL4A1 svolgeva un ruolo determinante nello sviluppo della rigidità arteriosa", spiega Manuela Uda, ricercatrice dell’Inn-Cnr e responsabile del progetto. Ulteriori studi saranno ora necessari per comprendere il meccanismo di azione del gene e poter così sviluppare interventi per ritardare o prevenire i rischi dovuti a rigidità delle arterie. ProgeNIA studia il DNA di 6000 abitanti di quattro paesi sardi, una popolazione isolata per millenni e che si conferma ottimale per gli studi volti a identificare basi genetiche comuni non solo ai sardi, ma anche ad europei e americani.
NIVOLA, IL RACCONTO DI UNA VITA FRA IMMAGINI, OPERE E SCRITTI
IL MURATORE DI ORANI INCORONATO ARTISTA A NEW YORK
È uno dei più grandi artisti sardi, e finalmente anche nell’Isola Costantino Nivola comincia a essere conosciuto, studiato e amato. Cagliari, si è in parte rimessa in linea nel 2008 con una bella mostra visitata in sei mesi da oltre 25 mila persone. Iglesias, dedica al muratore di Orani (come amava definirsi, anche in onore del padre) un’esposizione nella quale una Grande Madre in marmo accoglie il visitatore (fino al 9 aprile) nel palazzo Vescovile. Né mancano lavori realizzati con la originalissima tecnica del sand casting, inventata da Titino sulla spiaggia di East Hampton mentre giocava con i suoi bambini, Pietro e Chiara. Ecco dunque una colata di cemento su una matrice di sabbia trasformarsi in scultura, quasi per gioco. E la dimensione del gioco è fondamentale in questo artista fuori dagli schemi, capace di scrivere (si legge in uno dei pannelli della mostra): «In un modo o nell’altro siamo tutti un po’ matti. Senza un tocco di follia accompagnato da curiosità intellettuale e poesia, la vita sarebbe una cosa triviale. Brindiamo alle nostre inadeguatezze, alla nostra capacità di sbagliare e soprattutto alla nostra necessità di autoillusione». Sono poche le opere esposte in questo viaggio voluto dalla Fondazione Nivola, dal Parco Geominerario e dalla Ilisso Edizioni, progettato da Antonello Cuccu e curato
da Margherita Coppola. È lei la direttrice del museo che a Orani espone alcune delle opere dell’artista nato nel 1911 nel paese delle miniere di talco e poi decollato alla scoperto del Nuovo Mondo, dove morì nel 1988 senza mai dimenticare le sua radici. Da Orani a New York il viaggio non fu diretto: passò per la scuola di grafica e pittura a Monza, dove Nivola incontrò Salvatore Fancello, pittore e ceramista morto giovanissimo, a 28 anni, eppure capace di influenzare potentemente anche Titino. Ma, soprattutto, incontrò Ruth Guggenheim, «moglie, musa e inscindibile compagna, fondamentale nella sua formazione», ricorda Margherita Coppola. Il legame con l’ebrea Ruth, che sposò nel 1938, fu fondamentale quanto il fascismo e il nazismo che lo costrinsero a riparare negli Stati Uniti, lontano dalle leggi razziali di Mussolini e dai campi di sterminio di Hitler. Grande fu il travaglio esistenziale, eccezionale la scoperta delle correnti più avanzate della pittura contemporanea, che già aveva conosciuto a Parigi, ultima tappa europea prima del salto a New York. Evidente la presenza nella sua opera dell’influsso dei surrealisti e del cubismo di Pablo Picasso prima della profonda influenza esercitata negli Stati Uniti da Le Corbusier, amico intimo in una New York dove il sardo scambia la sua arte con quella di Saul Steinberg, Jackson Pollock e William De Kooning. Molti di questi passaggi sono documentati in una mostra imperniata prevalentemente su pannelli ricavati da fotografie realizzate da grandi artisti dell’obiettivo quali Henri Cartier – Bresson, Richard Avedon, Carlo Bavagnoli, Ugo Mulas. Si coglie nei loro scatti la dimensione anche privata di Nivola, ritratto non soltanto con i pittori e gli architetti a lui più vicini ma anche in mezzo ai suoi. Forte la presenza della madre, delle sorelle, di Ruth, e della gente di Orani, che nel 1958, ormai celebre, Titino volle coinvolgere in una mostra per le strade del paese, oltre che nell’intervento sulla facciata della chiesa della Madonna d’Itria. La presenza delle sue radici, del profumo del pane, della figura della Madre, si sposa in Nivola con le riflessioni più avanzate sull’arte contemporanea, un’arte civile, che sposa la scultura con l’architettura. «La scultura integrata in una visione totale dello spazio architettonico e ambientale – sostiene Margherita Coppola – rappresentò la sua vera utopia. Straordinario, in tal senso, l’esperimento compiuto nel negozio newyorchese Olivetti e la significativa Piazza Satta a Nuoro, in cui Nivola annulla i presupposti stessi di monumento e di piazza come entità separabili, privilegiando l’evocazione di un’ideale identità di ambiente, storia e natura un’opera d’arte totale». E a sostegno di questa interpretazione, ecco esposti in mostra disegni, studi e bozzetti legati alla progettazione della piazza oggi oggetto del desiderio del museo Man. C’è tutto questo e anche molto altro in un percorso destinato prevalentemente alle scuole, per le quali sono previte visite guidate e laboratori didattici. Visite nel corso delle quali verranno letti brani tratti dal libro di Nivola Memorie di Orani , oltre che di un’opera (edita nel 1993 da Angela Grilletti Migliavacca, edizioni Arte Duchamp) che dà il titolo alla mostra: Ho bussato alle porte di questa città meravigliosa . La città è New York, il mondo infantile che Nivola racconta ai suoi nipoti è quello della sua infanzia. Un’infanzia sempre presente nell’opera di un artista capace di parlare ai bambini con il sand casting che scolari e studenti potranno provare durante la loro visita. Una visita guidata da studiosi e storici dell’arte, come Giulia Aromando, capaci di raccontare con competenza ma anche con grande passione la vicenda artistica ed esistenziale di un genio non ancora sufficientemente riconosciuto. Incredibilmente interessanti nella sua opera le terrecotte, in particolare i Letti (in mostra due molto significativi) nei quali Costantino Nivola modella l’argilla con i gesti con i quali la mamma modellava il pane: quel pane il cui profumo si sparge nelle strade di Orani invase dai bambini attratti dalle sue sculture, dai suoi disegni, dalla sua straordinaria capacità di trasmettere emozioni. Sono soprattutto le bambine a circondarlo in una bella foto di Carlo Cavagnoni del 1958. Chissà se pensava a loro quando scriveva: «Le donne sarde sono tutte vedove, anche le vergini, le non sposate e col marito ufficialmente ancora vivo: per il fatto che gli uomini sardi non sanno comunicare con loro». Lui sapeva comunicare, come si scopre anche nel leggere le sue lettere a Maria Lai, grande artista che per fortuna continua a operare in una Sardegna non sempre attenta ai suoi figli migliori.
Giancarlo Ghirra
AD HANNOVER IN GERMANIA, C’E’ STATA LA "CEBIT"
SARDEGNA RICERCHE, GRANDE PROTAGONISTA
Sardegna Ricerche è stata presente al CeBIT 2009 di Hannover, l’evento internazionale più prestigioso dedicato alle tecnologie dell’informazione e delle telecomunicazioni che attira più di 480.000 visitatori ogni anno, provenienti da 80 Paesi nel mondo, dando spazio a più di 6000 espositori e a una varietà di eventi con opportunità di networking ad alto livello. La partecipazione di Sardegna Ricerche al CeBIT rientra tra le iniziative finalizzate a promuovere il Distretto tecnologico "Sardegna DistrICT" nei cui laboratori tecnologici, delle vere e proprie "palestre" di ricerca, sviluppo e sperimentazione di applicazioni e di servizi innovativi, convergono le attività e le competenze scientifiche e tecnologiche di imprese, università e centri di ricerca. L’area espositiva sarda, collocata all’interno dello spazio Italia predisposto dall’Istituto per il Commercio Estero (ICE) che si sviluppa su una superficie di 380 metri quadrati nel padiglione 9 della fiera, è dedicata alle ICT (Information and Communication Technology), alle telecomunicazioni, ai software e ai servizi connessi, ed è rappresentata da aziende, spin-off universitari ed enti di ricerca sardi, alcuni dei quali insediati al Parco tecnologico di Pula (Cagliari). Ogni espositore presenterà i propri progetti, prodotti e applicazioni all’interno dello stand o in seminari dedicati e avrà l’occasione di incontrare partner finanziari e commerciali. Nello stand saranno presenti, oltre a Sardegna Ricerche, dieci realtà sarde: FlossLab, Ablativ e Agiletec (spin-off dell’Università di Cagliari); Axis Strategic Vision; Akhela; Prossima Isola; S. BIO-T; CNIT (Consorzio Nazionale Interuniversitario per le Telecomunicazioni); il gruppo di ricerca PRA (Pattern Recognition and Applications Group) dell’Università di Cagliari e il CRS4 (il centro di ricerca del Parco tecnologico di Pula).
"SA ILLETTA" ALL’ULTIMA SPIAGGIA DOPO LA SFUMATA VENDITA IN INGHILTERRA
E’ GRAVE LA SITUAZIONE FINANZIARIA DI TISCALI
Diventa sempre pi
ù pesante la crisi di Tiscali. La società sarda ha interrotto le trattative con BSkyB per la cessione delle sue attività inglesi. La vendita in Gran Bretagna sarebbe stata un tassello fondamentale nel percorso di ristrutturazione dell’azienda. La cessione avrebbe giovato alle casse di Tiscali. Non a caso, sfumato l’accordo, l’azienda ha chiesto alle banche creditrici la sospensione del pagamento degli interessi sul debito (pari a 500 milioni di euro). «A seguito del protrarsi delle negoziazioni e del mancato raggiungimento di un accordo, a causa del deterioramento del contesto del mercato in cui opera anche il potenziale acquirente», si legge in una nota, «il cda ha preso atto della sostanziale impossibilità a procedere nelle trattative». Il consiglio di amministrazione di Tiscali ha poi valutato la necessità di predisporre un nuovo piano industriale e finanziario che consenta al gruppo di avviare la ristrutturazione del debito e di garantire l’equilibrio finanziario di lungo periodo. Tiscali ha chiuso il 2008 con ricavi consolidati per circa un miliardo di euro e un margine operativo lordo per 200 milioni, «inferiore alle stime di agosto 2008». Il cda approverà il progetto di bilancio del 2008 il prossimo 27 marzo. Gli amministratori hanno anche espresso la necessità «di poter disporre del tempo necessario per la predisposizione di tali piani», e per questo precisa che «intende chiedere ai principali istituti finanziatori di concedere un periodo di sospensione dei pagamenti di interessi, quote capitali e dei covenant finanziari, funzionale al raggiungimento degli obiettivi». L’indebitamento bancario a lungo termine del gruppo (al 31.12.2008) è di circa 500 milioni di euro ed è stato sottoscritto originariamente da JPMorgan e Intesa Sanpaolo.
UN LUNGO E RIGIDO INVERNO HA COINVOLTO TUTTA L’ITALIA
DOVE SEI PRIMAVERA?
Meno male che torneraiii, come cantava Loretta Goggi (eh sì, ho insospettabili canzoni del cuore, io). Però sei bella e benedetta, cara primavera, perché anche se le giornate sono difficili, noiose, troppo piene di pensieri e parole, almeno c’è il sole o una sua promessa. Oggi, ad esempio, ancora piovicchia un pochino, ma la temperatura è salita e forse è il caso di abbandonare il pigiama invernale tipo scafandro in pile con doppia calza in lana (e piedi ostinatamente ghiacciati). La vera svolta epocale del mio umore l’ho però avuta ieri, con un segnale che sembra tratto dalla penna di Liala: gli uccellini che cinguettavano, perfino qui in città. Insomma, pare che la Natura si risvegli e che perfino la pianta di cui non conosco il nome né le modalità di trattamento che sta nell’angolo del salotto, in pieno fascio elettromagnetico della Tv, si stia ringalluzzendo nonostante mi sia dimenticata di darle l’acqua da giorni (e quando lo faccio la annego, sarà giusto così?). Insomma, benvenuta benedetta primavera, perché non ne possiamo più di strizzarci in piumini dal collo di pelo svolazzante, in strati di maglioni a cipolla necessari alla dura vita dell’animale urbano (perché fuori ci sono 8 gradi, ma se entri in un negozio o un bar ce ne sono 80), di soffocare i nostri piedini in calzettoni di solito inadatti a svolgere la loro funzione (d’altronde siamo in Sardegna, mica alle Hawaii). Perché anche se nella sostanza non cambia nulla, almeno non c’è quell’orrido freddino che ci intorpidisce tutti e che scongiuriamo solo cucinando vasconi di zuppe, minestre, passati di verdura e similari; perché non vediamo l’ora di metterci un po’ spogliati, mostrando temerari le braccia bianchicce in cui occhieggia il dorso a tendina. Supereremo anche quella prima timidezza, perché l’arrivo della benedetta primavera fa questo e altro, e usciremo la mattina tutti contenti del tepore e di quel diverso odore nell’aria, dimenticandoci come ogni anno che è soltanto il breve preludio ai quaranta gradi (e relativi piedi gonfi) da maggio in poi. Francesca Madrigali
OSSERVARE LA NATURA SARDA IN TUTTE LE STAGIONI
L’ENTROTERRA, ACRE POESIA
La prima impressione è di un’armoniosa dolcezza di curve, tanto che, vista dall’alto, la costa fa mostra di una pendenza uniforme, comoda e poco inclinata. Così non è, e sarà sufficiente scendere di quota perché la complessità di questo straordinario anfiteatro naturale appaia nella sua interezza. Il progressivo declinare prende avvio dal lontano Supramonte, la mitica montagna della Sardegna centro orientale, di cui conserva la stessa copertura calcarea giurassica e con cui ha evidenti analogie paesaggistiche, tanto da essere considerata la naturale propaggine marina. Il paesaggio è aspro, spesso interrotto da dirupi bruschi, forre ampie che celano minuscole vallette, ampi terrazzamenti impietosamente frastagliati, arcate sontuosamente orlate di vegetazione, che forano pareti affilate. Acque e vento hanno lavorato senza risparmio, curando sia i particolari minimi, sia gli scenari più grandiosi. Così i campi carreggiati, mirabile sintesi dell’opera di scavo operata dal ruscellamento tra pendenze di infima diversità, rievocano, in minuscole porzioni di roccia, singolari paesaggi montani in miniatura, impreziositi a volte da incredibili ginepri "bonsai" che spuntano in fessure da niente. Per contro, scorrendo impetuosa tra le varie linee di faglia, l’acqua ha inciso violentemente la roccia, aprendosi varchi stretti e tortuosi. Sono le "codule", vistose cicatrici che intagliano profondamente la montagna e che palcano il tormentoso percorso in quiete calette. Cale di stupefacente bellezza, sospese tra sogno e realtà. Alcune ciottolose, altre di sabbia finissima, scevre da impurità. "Ispuligi de nie", si chiama una di loro, e vuol dire "pulci di neve" con indovinato rimando all’abbacinante candore della neve. Oppure "Cala Ilune", oggi Cala Luna, felice gemellaggio con la forma e la suggestione della luna. Ma anche, e allora la suggestione si fa estrema, Cala Mariolu, dove la foca monca "mariuola", rubava i pesci ai ponzesi, antichi pionieri della pesca in queste acque. Cale indifese, premurosamente protette però da una falesia imponente, brusca e precipite, frontiera ultima tra la montagna e il mare. E’ interrata anche, la falesia, da lingue di firodi sinuosi, dove l’acqua è cheta anche quando fuori è burrasca. Perché in questo mare, d’inverno accade spesso che il grecale e lo scirocco ed anche la tramontana gonfino le acque scatenando tempeste furiose che scaraventano onde altissime, ribollenti di schiuma lattiginosa, a frustare selvaggiamente la roccia. Nell’entroterra costiero, inaccessibili spianate rocciose, chiuse dalle fratture del calcare pi
ù imponenti, hanno consentito la sopravvivenza di microcosmi forestali, atavici di aspetto e di età. Anche qui, infatti, nonostante le asperità dell’ambiente, la scure del boscaiolo e dei carbonari ha inferto ferite letali all’uniformità boschiva che ammantava la costa. In quelle vallette nascoste, però, lecci altissimi si stringono l’un l’altro, compattando le fronde e consentendo l’accesso solo a singoli, furtivi raggi di sole. E’ faticoso accedere a quest’ombra perpetua; poi si avanza stupiti sul soffice e pastoso cumolo uniforme di foglie mutanti in humus, accompagnati dalla "razionale illusione" di pensarsi i primi officianti in quel tempio estraneo alla dimensione temporale. Altrove sulla costa è il regno del ginepro fenicio, che spesso si sporge dalla roccia per stagliarsi vanitoso sul mare, di rosmarini aromatici, di ruvidi olivastri, anche di dimensioni considerevoli, dei verdeggianti macchioni di lentischio e di giganteschi corbezzoli arborei. Angoli reconditi ospitano vetusti tassi. E poi annosi carrubi, delicati ornielli, drappelli di terebinti, e le ginestre dell’Etna, anonime tutto l’anno salvo poi prorompere nel giallo esuberante della fioritura estiva. Appena inizia la primavera, quale tripudio di verdi, gialli, arancio, ruggine, rossi allo sbocciare dell’euforbia che infiocca per intero la costa. Cui fa riscontro, nei mesi estivi, l’ordinato rosa degli oleandri che misto al viola degli agnocasti drappeggia il percorso delle codule sinanco alle anse più anguste. Ancora la primavera ingentilisce e colora i precipizi con l’ambra dorato della ferula e del ginestrone spinoso, il candore del pancrazio e dell’asfodelo, il rosa dei cisti e della lovatera. E le orchidee. Tante, e deliziose e nascoste! Per chi le sa cercare, il campionario è vario. Che superba esibizione di voli, planate placide, vigorose battute d’ala, catture cruente, attese pigre, farcita da roche grida e imperiosi richiami doveva tenersi, dall’alba al tramonto, lungo la costa. Nella traboccante fiera dei rapaci l’iraconda aquila di mare aveva il nido in vista di quello del falco pescatore, e tutt’intorno incrociavano il falco pellegrino con quello della regina, il gheppio e la poiana. E poi lo sparviero e l’astore, l’aquila reale e quella del Bonelli, l’avvoltoio grifone insieme al monaco cui spesso si univa, in armoniosa danza aerea, l’inimitabile gipeto. L’incanto verrà spezzato dalle ragioni solite che hanno sterminato i predatori nel resto d’Europa, aggravate dall’uso metodico delle esche avvelenate e dall’abbattimento per fini commerciali, anche su ordinazione, delle specie più preziose. Sono scomparsi così tutti e tre gli avvoltoi, le aquile di mare e del Bonelli e il falco pescatore. I superstiti abitano numerosi ancora qui e, soprattutto durante la sagra annuale della riproduzione del falco della regina, confermano che questa è davvero la costa dei rapaci. Fan da cortigiane a tanta noblesse, altre e numerose specie. La pescosità delle acque attira e trattiene, oltre il gabbiano reale, il gabbiano corso ed entrambe le berte, cormorani e marangoni, cui d’inverno si uniscono affusolate sule. Dal mare arrivano un’infinità di uccelli in migrazione, tra cui spiccano, per moltitudini i tordi e i colombacci. L’inospitalità tranquilla dei contrafforti e delle codule cela scontrosi cinghiali, volpi e gatti selvatici, inattese pernici, donnole e topi quercini, martore e ghiri. Il torrente che d’inverno percorre la Codula Luna è impreziosito dalla trota sarda; all’arrivo dell’estate però un’enorme quantità di trote finirà per morire nelle pozze, sempre più piccole, dove le avrà sorprese la puntuale siccità. Il piccolo stagno terminale della codula è frequentato da garzette e dagli aironi cenerini a caccia delle grosse anguille che si nascondono nel meandro di radici degli oleandri e degli ontani. Infine il muflone. Scampato al baratro dell’estinzione, in cui pareva ineludibile dovesse sprofondare, si propone per incontri d’alta emozione là dove le codule si frammentano in diramazioni strette e anguste, in perfetto agio su terrazzine e cenge solo a lui note. E tuttavia, fra tanto ribollire di vita, è l’illusione di un incontro a turbare l’animo del visitatore. Che scruterà trepidamente l’acqua e le cale, speranzoso di scorgervi un profilo scuro, vagamente canino e baffuto. E’ la rivincita della foca monaca, che popola ogni cantuccio del golfo col fantasma e col rimpianto di un’antica presenza. Definire la costa incantevole, dunque, è solo un dovuto riconoscimento. Prevedibile, quindi, che essa sia meta obbligata per una sempre crescente quantità di visitatori. Tutti vorrebbero conoscerla "così com’è". Ma è proprio questa montante marea d’interesse che rischia di compromettere gli equilibri più delicati. Soprattutto a causa dell’altissima concentrazione delle presenze in un tempo ristrettissimo: qualche settimana di luglio ed il mese di agosto conoscono vere e proprie situazioni d’ingorgo di persone e di natanti. Cala Luna, "riminizzata" con punte di 10mila presenze giornaliere è un assurdo che banalizza, tra l’altro, il piacere della scoperta. La costa tutta merita ben altra sorte. A questo punto, due paiono le assulute priorità. La prima è che a nessuno può essere impedita la visita del golfo e delle sue cale. La seconda è una logica conseguenza della prima, e impone un’organizzazione disciplinata delle visite, prevedendo, nel caso, anche il numero chiuso. L’apparente antinomia è risolvibile incrementando e incentivando le occasioni "fuori stagione", che, oltre tutto, consentirebbero di godere lo splendore della costa in primavera o durante la languida quiete autunnale. Domenico Ruju