di Massimiliano Perlato
"Questa terra non assomiglia a nessun luogo, incantevole spazio intorno e distanza da viaggiare, nulla di finito, nulla di definito… È come la libertà stessa".
David Herbert Lawrence (da "Sea and Sardinia")
Sardegna è magia. Il milione di situazioni che la decorano a festa rendono idilliaco il pensiero di una tranquillità interiore che non ammette paragoni. Luoghi paradisiaci che cantano soavi il loro benessere. E poi la natura che dipinge con colori armoniosi la tavolozza della propria esistenza non appena se ne assapora il contenuto. Ed è così da quando sono bambino. Terminata la scuola, i miei genitori mi caricavano su un aereo: destinazione paradiso. Il conto alla rovescia che mi portava alla felicità, alla gioia, cominciava subito dopo Pasqua. Sull’isola, eterno senso di serenità e amore, trovavo i nonni materni, gli zii e i cugini coetanei in una Terralba assolata, che sbadigliava nel silenzio e nella quiete sotto l’arsura estiva. Ma non frenava assolutamente il senso di magia. Le corse a piedi scalzi sino a piazza Marconi, il vociare delle donne anziane che lungo via Trudu strideva con il rumoroso giocare continuo di un’infanzia inimmaginabile. Il senso d’amicizia e d’affetto della gente che ti dà il cuore se solo glielo si domanda. Il solo respirare l’aria ti riempiva i polmoni di una vitalità fatta di virtù e appagamento. Sardegna non voleva dire solo spiagge incantevoli e mari cristallini: Sardegna significava apprezzare anche i piccoli sassolini scalciati con le scarpe che andavano a sbattere contro le cancellate. Girovagare per le viuzze in corse sfrenate con le biciclette o ritrovarsi lungo una striscia d’asfalto incandescente a tirar calci ad un pallone con le magliette inzuppate di sudore, e, nonostante la stanchezza che lentamente s’impadroniva del fisico fanciullesco, la voglia, la tenacia di continuare a godere di quegli attimi che, ripensati adesso a distanza di anni, accrescono il magone dei tempi che furono. I rimbrotti degli adulti che continuavano ad indicare l’orologio quando ci si gettava a capofitto fra le onde dell’acqua, schiamazzando all’infinito in una lotta all’ultimo respiro con i lamenti di un mare che vedeva violata la propria pacatezza d’esistere. Dopo le corse nella rena, con il cuore gonfio che batteva nel petto all’impazzata, si crollava nella sabbia sfiniti a contemplare i raggi del sole ad occhi aperti sino a farli lacrimare dal dolore.
Lacrime che scendevano sconvolgenti e senza soluzione di continuità, il giorno della partenza a fine agosto, insieme ai genitori che nel frattempo mi raggiungevano all’eden. In questo caso il conto alla rovescia era inverso: significava la tristezza, la fine quasi di una serenità d’animo. Ti sentivi derubato delle piccole cose di cui godevi: il distacco da una terra che adoravo e adoro in ogni suo microrganismo esistente. Il drammatico distacco dagli affetti degli amici e dei parenti raggiungeva vette angosciose sempre più devastanti, anno dopo anno, sino a raggiungere il male fisico quando dalla banchina del porto a Porto Torres la nave lasciava in un silenzio irreale la terraferma. Si sentivano solo i turisti entusiasti che fra di loro si raccontavano le esperienze di un’estate indimenticabile. Ma coloro che portavano la Sardegna nel cuore, si notavano subito. I loro occhi mostravano la sofferenza del distacco, atto ripetuto nel corso della vita per tornare al continente che dava lavoro e benessere. Guardavo il viso di mia madre solcato dalle lacrime e immaginavo i suoi pensieri, l’allontanamento dagli anziani genitori e la paura di non rivederli mai più. L’accarezzavo e l’abbracciavo e la voglia di lasciarmi andare era troppo forte, ma avevo terminato le lacrime per piangere e così lo facevo solo singhiozzando. Sardegna è magia anche ora che ho più di trent’anni. E per me lo è sempre stata in tutte le sue sfaccettature. L’adolescenza è finita da tempo, e con sé si è portata via il senso fanciullesco delle cose.
Ma tornare a Terralba risveglia sempre in me il senso primordiale della felicità acquisita. Progettavo un futuro per i miei eventuali figli, le stesse sensazioni giocose che avevo vissuto, magari con i figli stessi dei miei cugini coetanei. La realtà attuale si è presentata sotto una forma meno fiabesca, ma poco importa. È solo un sogno che al momento ho accantonato in attesa di dare luce positiva ai miei giorni attuali. Ciò che conta è ritrovare le stesse sensazioni quando arrivo nell’isola. Sardegna rimane costantemente punto di riferimento per ritrovare un equilibrio
mentale e d’approccio all’emotività caratteriale che ti spinge a lasciarti andare. Giungere nei luoghi della propria adorata infanzia, e correre lungo la spiaggia di Pistis, non in estate, ma nel silenzio di un mese autunnale, affondando con i piedi nudi nella sabbia madida d’umidità, sovrastato dal cinguettio dei gabbiani e dal tormento di uno schiumoso mare di un blu tenebroso pronto a fare la parte del Padre confessore. In quegli attimi il tempo si ferma e non si ha nemmeno la forza di asciugare la lacrima che solca il viso e il nodo alla gola si fa sempre più serrato e pressante. Uno sguardo al mare che con gli spruzzi delle sue onde impetuose sembra accarezzarti e ti lancia una sfida a cui non ci si può sottrarre: comincia una corsa come vent’anni prima e si torna sempre bambini, felici e privi di ogni tormento interiore. Le passeggiate in una Terralba che oggi sembra più adulta, serafica, quasi cinica sotto certi punti di vista. Sembra una cittadina che vuole a tutti i costi mostrarsi vitale, attrezzata prima di tutto con se stessa, per dimostrare di aver cambiato pelle. Forse le partite lungo la via Trudu, quelle di vent’anni fa, non sono più possibili perché la generazione che è cresciuta con me, oggi fruisce di tutti i privilegi che la modernità offre. Il silenzio dell’acciottolato di allora non collima con le auto parcheggiate lungo i muri delle case vecchie e fatiscenti. Il sordo stridere di hifi e le corse sugli scooter lasciano un’immagine sfocata rispetto ad un mondo, quello infantile che ho vissuto, che non può più tornare.
Ma il resto, l’animo di questa gente, i sassolini che puoi prendere a calci lungo le strade sono gli stessi. La pace interiore e il senso di quiete esistenziale rimane, e ti circonda astrattamente le spalle nell’atto di proteggerti e farti sentire a casa, coccolato e vezzeggiato. La gente che incroci e che non conosci, che ti saluta e che ti domanda come stai, ti fa vibrare forte il cuore, semplicemente perché non si è abituati ad un confronto così
diretto con il mondo che ti circonda. L’affetto dei cari che rimane invariato e muta solo perché è un po’ più attempato, segno indelebile di una vita che purtroppo scorre veloce ed inesorabile. Il nonno, che passeggiava lungo la via, lemme lemme, con i passi cauti imposti dalla sopravveniente cecità, e la nonna, che regalava spiccioli ai nipoti, che correvano subito al negozietto per comperare gelati e dolci, da tempo non ci sono più. Quando arrivo in quei luoghi, e scendo dall’auto, ogni volta è come se li rivedessi sulla soglia della vecchia casa a sventolar fazzoletti umidi e a cercare il suono della tua voce per accoglierti fra le loro braccia. Rivedo nei cugini più piccoli, e nei figli di quelli più grandi, il senso della vita che mi circondava e la voglia infinita di urlarlo ai quattro venti. Rimpianti esistenziali che colmano i ricordi di una cornice dorata ed incontaminata. Sardegna è magia e l’atto finale prima del congedo, nonostante i vent’anni in più, è lo stesso: è un rito che si consuma sempre uguale a se stesso, lungo la balaustra di una nave sovraffollata e concitata. Rimanere lì, nella notte scura ed ombrosa, a cercare di scorgere l’ultima luce che si spegne nella lontananza, in modo da non far luccicare il riflesso di una lacrima che scende inevitabilmente sul viso colmo di tristezza.
complimentus po custu blog deo seu sardu in Maranello e moi ca sciu che esistiri dappa liggi de moi in poi ciao
ciao! questo è il mio paese! hai descritto esattamente la mia infanzia. ma non è che ci conoscevamo quando eravamo più piccoli? ieri ho postato proprio una foto dell’85, giorgio, monica, claudia e valeria. dimmi se ci riconosci.
mi ha commosso questo tuo racconto, io tutto quello che hai raccontato su via trudu, lo facevo nel vicinato dell’asilo, al campetto e da zia malvina. e ogni tanto nel mio blog racconto di quei bellissimi anni. dai vieni da me!
ciao e buon natale
L’Associazione Culturale “Terra delle O” Presenta “El Tano” Interpretato e diretto da Antonella Puddu Musiche in scena Riccardo Pittau 14-15-16-17 Gennaio 2009 ore 21 Rassegna “Spazio Teatro 89” Auditorium Polifunzionale Via F.lli Zoia 89 Milano La rappresentazione è la trasposizione teatrale dell’omonimo libro “EL TANO” che il giornalista-scrittore Carlo Figari ha dedicato alle vicende dei “Desaparecidos” sardi in Argentina, per i quali negli anni scorsi, lo Stato Italiano e la Regione Sardegna si sono costituiti parte civile nel processo tenutosi a Roma contro i militari. La notte prima avevo fatto un sogno? così comincia il racconto di Maria Manca, madre di Martino Mastinu chiamato “El Tano”, un giovane operaio originario di Tresnuraghes, emigrato in Argentina con l’intera famiglia dall’età di quattro anni: desaparecido…
L’articolo sul tuo paese d’origine mi ha emozionata molto, anche qualche lacrima eppure sono una donna matura, perché ho ritrovato le stesse sensazioni, gli stessi personaggi e atmosfere ma non sono mai riuscita a esprimerlo cosi BENE, non è un talento di TUTTI. BRAVO!