Il presidente della Regione Sardegna, Renato Soru, si è dimesso perché, come ha spiegato lui stesso, non si governa "se manca la fiducia della maggioranza". Le dimissioni avranno efficacia dopo trenta giorni. Se non saranno ritirate l’assemblea sarà sciolta. Questo è a conti fatti, il riassunto di una tesissima giornata politica in Sardegna. E’ un Soru pacato, determinato che non rinuncia ma piuttosto, prende atto della realtà. La situazione politica in Sardegna era diventata molto tesa dopo che il Consiglio regionale aveva bocciato a scrutinio palese (con 55 contrari e solo 21 a favore) la prima parte di un emendamento fortemente voluto dallo stesso governatore a uno degli ultimi articoli della nuova legge urbanistica, argomento sul quale si erano registrate divisioni e forti contrasti nel gruppo del Pd. Non appena il presidente dell’Assemblea ha comunicato l’esito della votazione, Soru ha lasciato l’aula e si è chiuso con i più stretti collaboratori in un ufficio. La bocciatura della discordia è su una norma transitoria (che specificava le procedure di applicazione del Piano paesaggistico regionale per le zone interne dell’isola) inserita nella proposta di legge urbanistica. Il provvedimento avrebbe dovuto sostituire la vecchia normativa del 1989 per completare il programma di governo del territorio voluto da Soru, cominciato con la legge ”salvacoste” del 2004 e proseguito con il Piano paesaggistico. Per il governatore era una ”parte fondamentale della legislatura”, quella che avrebbe consentito di puntare ad una pianificazione strettamente legata ad uno sviluppo ambientalmente sostenibile per l’isola. Tra gli aspetti caratterizzanti della legge urbanistica, ora di fatto congelata, ci sono: la conferma del divieto di inedificabilità assoluta nella fascia dei 300 metri dal mare; il principio della compensazione con aree o crediti volumetrici per i proprietari di beni immobili da vincolare per rilevante interesse pubblico; gli incentivi per l’utilizzo di materiali non inquinanti e che favoriscano il risparmio energetico; il sistema del silenzio-assenso nelle concessioni edilizie. Renato Soru si dimette da presidente della Regione. Dice basta, ma non alla vita politica. Lo chiarisce subito: «Non è l’ultimo giorno della mia esperienza politica. Intendo andare avanti ed è per questo che prendo questa decisione». Dice basta, spiegherà poi, perché «non sono interessato a governare a tutti in costi ma in un percorso di coerenza e chiarezza: soprattutto in coerenza con il programma di governo con cui mi sono presentato agli elettori». Dice basta, soprattutto, ai ricatti che arrivavano dalla sua stessa maggioranza: più di tutti da quella metà del Partito democratico che dall’ottobre 2007 fa porta avanti una guerra interna esplosa negli ultimi mesi. E’ tornato, Soru, in Aula per annunciare le dimissioni. «Trasmetterò una nota scritta al presidente del consiglio, per l’apporto di chiarezza con cui ho affrontato questi anni verso i sardi, verso il consiglio e verso tutti voi. E perché voglio mantenere salda questa chiarezza e questo legame ai principi e ai valori che hanno ispirato fino adesso questa mia esperienza. Ho servito bene fino adesso, credo, con coscienza e con tutta l’onesta di cui sono capace. Ho servito mettendo al primo posto l’interesse dei sardi e della Sardegna. E credo di servire il loro interesse anche con questa decisione: i prossimi giorni li valuteremo per fare chiarezza, per fare quello che la legge ci impone». A chi gli chiedeva se su quanto accaduto in Aula abbiano pesato anche le frizioni interne al centrosinistra sulla sua ricandidatura, Soru ha risposto: «Non mi posso nascondere. Probabilmente ci sono state questioni che esulavano dal merito della discussione sulla legge urbanistica. e che possono aver portato qualcuno ad esprimersi come ha fatto. Dall’altra in questa legislatura è successo di tutto, ci sono state persone che sono passate da uno schieramento all’altro. Ed era impossibile, in questo condizioni, affrontare il dibattito sulla finanziaria». Non è un addio, piuttosto un arrivederci: «Sono amareggiato, ma non sono deluso dalla politica. Anzi sono più consapevole del grande valore, anche morale, dell’impegno politico. E non lo farò venir meno».
Massimiliano Perlato
E’ COMINCIATO IL CLASSICO GIOCO AL MASSACRO
CI RIMETTERANNO I SARDI E LA SARDEGNA
Primo: la legge urbanistica è stata solo un pretesto per far scattare l’imboscata a lungo premeditata contro Renato Soru. Il grimaldello più adatto: il siluro doveva colpire (non affondare subito, si badi bene) il presidente nella materia più qualificante e significativa del suo programma: ovvero la legge urbanistica. Perché ora? Era l’ultima occasione possibile per dimostrare al presidente chi comanda, specie in vista della Finanziaria. Ma all’opposto di quanto ritenevano i congiurati, Soru non si è fatto ammorbidire né ha piegato la schiena. Il Nurago la mantiene dritta specie nel momento di massima avversità. Si è dimesso senza esitazioni e indugi, a testa alta, formalizzando in un’ora l’annuncio di una decisione certo sofferta e drammatica, comunicata subito e correttamente in Consiglio. Ma non c’è resa né rinuncia: semmai determinazione a combattere. Forse si va davvero, in condizioni oggi imprevedibili, al voto anticipato. Con Soru ancora in campo: come sembra chiaro dall’affermazione che le dimissioni non sono "l’ultimo atto della mia esperienza politica". Si ricandiderà comunque, come è giusto che faccia, essendo vittima di una classica manovra di palazzo per ragioni altre rispetto a quelle in cui è stato messo in minoranza. La prospettiva dell’immediato "tutti a casa", che Soru non tema ma non piace a nessuno, potrebbe bloccare la deriva verso le urne: per paura del peggio, non per senso di responsabilità. Troppo presto per sbilanciarsi in previsioni. Anche se in queste tenebre politiche il ritorno alle urne appare la soluzione più limpida, preferibile a un’agonia miserabile: benché comporti passaggi ed effetti scellerati contro la comunità sarda. Non è invece mai troppo presto per sottolineare che mentre il mondo si avvita e crolla su se stesso, nelle stesse ore in cui la crisi planetaria viene calata come una mannaia dall’Eni su quel che resta dell’industria chimica sarda, un gruppo di coraggiosi onorevoli statisti nuragici da ventimila euro al mese ha freddamente provocato uno strappo devastante. Perseguito nel cinismo più totale. Con l’indifferente, assoluta irresponsabilità di far saltare la legislatura alla vigilia dell’esame ed approvazione di una Finanziaria da oltre nove miliardi . La crisi si è consumata senza una sfiducia regolamentare, senza la classica mozione ad hoc. L’opposizione non ha avuto alcun ruolo, se non quello numerico aggiuntivo e subalterno, da portatore di borraccia, nel voto che ha portato alle dimissioni di Soru. E’ stato tutto cucinato nella maleodoranti cambuse del Pd e di qualche sigla impr
obabile. Da vecchi arnesi della partitocrazia più squallida, ondivaghi e consunti da spregiudicatezza senile ancora assatanata di potere. Hanno usato ipocritamente una norma della legge urbanistica come arma letale nella guerriglia contro Soru per il controllo del partito e soprattutto delle loro ricandidature a rischio. Per imporre l’eterno dominio della nomenklatura di autocrati veri, senza più alcun seguito e credibilità. E’ dubbio che ottengano altro che la dissoluzione di una maggioranza già a tocchi per guerre laceranti nei e tra i partiti. Con tutti i limiti e i difetti che si possono attribuire a Soru, è personaggio di altra tempra: "improponibile il paragone tra Soru e i mestieranti della politica che l’hanno preceduto". Le dimissioni di Soru non erano un atto dovuto, in assenza della specifica mozione di sfiducia prevista nella legge Statutaria. Solo eticamente doveroso per chi ha moralità e rispetto del ruolo. Soru ha rimarcato la correttezza politica e il rispetto delle regole tante volte violate in passato: il primo presidente eletto direttamente dal popolo le ha osservate e messe in pratica con rigore davvero raro. Fa giustizia dell’accusa ricorrente che lo propone come despota rispetto a un Consiglio in ostaggio. Ma è l’assemblea neghittosa e nullafacente che nei suoi comportamenti resta – sotto ogni profilo – la palla al piede e il vero disvalore dell’autonomia: pur costando cento milioni all’anno, più che ogni altro d’Italia. Soru poteva restare al suo posto, lasciare che una parte benché importante della sua legge più significativa venisse alterata in aula e tirare avanti. La sfida non era sul merito ma al ruolo politico del presidente. Per piegarlo, imporgli la regola miserabile e micidiale che da tre lustri vige nei convulsi finale di legislatura. Un gioco al massacro, con qualunque maggioranza e protagonisti. che distrugge ogni credibilità della politica e mortifica i presidenti di passaggio. Ma in precedenza si trattava di esponenti votati dal Consiglio, non eletti dal popolo. Soru è il primo ma ha subordinato il primato assegnatogli dai cittadini alla fiducia della maggioranza e alla fedeltà al punto qualificante del programma. Non avendo più la prima né volendo rinunciare alla seconda, ha evitato ogni forzatura e si è dimesso. L’unica differenza rispetto al passato dei voti in maschera, è che stavolta il plotone di esecuzione ha agito a volto e voto scoperti. I congiurati, che tali restano benché palesi con la certezza dell’impunità, volevano umiliare pubblicamente Soru. Sicuri che avrebbe subìto e accettato tutto pur di restare al timone. Come è accaduto dal 1994 al 2004 a Federico Palomba (lo stesso pover’uomo che oggi invoca la discontinuità), Mario Floris, Mauro Pili e Italo Masala. Massacrati a ripetizione, sfiduciati a saturazione dalla loro maggioranza, gli ultimi due inchiodati alla poltrona benché ridottisi a essere presidenti di infima minoranza. D’altro canto, se non ora, quando approvare ad abbattere un Soru che è di gran lungo il leader regionale da sempre più noto, stimato, perfino esaltato a livello nazionale? In dieci giorni, intervista al Corriere della Sera sulle mosse anti-Gelmini per la scuola sarda, un vero peana da un opinionista di lungo corso come Mario Pirani su Repubblica, una pagina di inchiesta sul "Sole 24 Ore", un passaggio tutto in positivo a La 7 e in precedenza più volte a Ballarò. Nessun predecessore era stato protagonista nazionale come lo è Soru.
Giorgio Melis
L’ULTIMA INTERVISTA (AL SOLE 24 ORE) DA PRESIDENTE DELLA REGIONE SARDEGNA
RENATO SORU ALLO SPECCHIO
«Davvero parlano male del mio carattere?». Renato Soru si toglie la giacca, scorre i pollici sulle bretelle e appoggia sul tavolo un vecchio e scrostato cellulare Nokia. «Con chi ho litigato?», s’interroga mostrando di prendere sul serio la questione. Soru alza gli occhi e cerca nella memoria qualche episodio che lo ricolleghi alla fama di uomo scontroso che i sardi, praticamente all’unanimità, gli hanno cucito addosso. Il cronista, seduto di fronte a lui nella sede romana della Regione Sardegna, quattro mori scolpiti su una lucidissima targa di ottone alle spalle dell’ambasciata americana di via Veneto («questa sede è inutile e costosa, prima o poi la venderò») è lì per elencargli fatti e circostanze. I quattro anni alla guida della Sardegna di un uomo che contraddice tutti i pedigree dei leader politici italiani dall’Unità a oggi, qualche curiosità dovrebbe suscitarla. Ancor di più se annettiamo geograficamente la Sardegna a un Mezzogiorno d’Italia – molti sardi avranno da ridire, lo sappiamo che mostra la deriva oligarchica, populista e clientelare di tutti i governatori della grandi regioni meridionali (isola maggiore compresa), con la parziale eccezione di un altro unicum come Niki Vendola (impolitico Soru, iperpolitico il suo omologo pugliese). Impolitico perché la sezione di un partito non l’ha mai vista. Soru è di Sanluri,un paesone perso nell’assolata campagna del Campidano a non molti chilometri da Cagliari. Dopo la laurea alla Bocconi comincia a costruire supermercati in giro per la Sardegna. Poi l’incontro con Nichi Grauso, l’esperienza in Polonia, l’intuizione di Tiscali («quando mi candidai, pensavo che Tiscali potesse fare a meno di me») che ascende alla ricchezza con la bolla internettiana. Dicono che l’idea di candidarlo sia stata di Massimo D’Alema, uno che in cuor suo imprenditore avrebbe voluto essere. Potenza del transfert. Soru vince, anzi stravince, e con lui porta al successo (8% dei consensi) anche il suo partito personale, Progetto Sardegna, nel cui listino candida un gruppo di donne pure, competenti e determinate, le future assessore. Arrogante (forse), prepotente (di sicuro), antropologicamente ostinato, non abile nell’ammissione dei propri errori, ma anche politicamente corretto (le donne al potere, assessori tecnici di prim’ordine, come Francesco Pigliaru, il quarantenne Giavazzi sardo, insediato al Bilancio) e aspirante Robin Hood miliardario (la legge salva coste, approvata, e la tassa sul lusso cassata dalla Consulta). Soru la mette così: «Negli ultimi anni, in Italia, abbiamo urbanizzato cinque volte in più della Francia e quattro volte in più della Germania. Il territorio è stato saccheggiato. La Sardegna è il suo ambiente. Così dobbiamo lasciarlo a chi verrà dopo di noi». Un bel giorno prende il professor Pigliaru sotto braccio e bussa a Palazzo Chigi per ridiscutere la quota di Irpef e Iva che spetta alla Sardegna in virtù della sua autonomia. Spuntano un accordo che vale miliardi. L’imposta sulle persone fisiche incassata non sul riscosso ma su quanto prodotto in Sardegna e la quota Iva, come in Sicilia, elevata al 90 per cento. In tre anni si azzera un deficit miliardario, si aboliscono i mutui a debito che avevano fatto tracollare i conti delle passate amministrazioni, si azzerano mille stipendi della formazione professionale, terra di conquista dei sindacati, che da quel giorno giurano vendetta. Gli stessi quattrini finanziano un
master and back, che fa la gioia di tremila neolaureati sardi che vanno in giro per l’Europa a specializzarsi con i soldi della Regione, ribattezzato master without back. Uno spirito decisionistico dal quale non è esclusa la sanità: assessore Nerina Dirindin, competente, torinese (e donna), i due direttori delle principali Asl Cagliari e Sassari, rispettivamente emiliano e veneto, con l’aggiunta di un piano per rafforzare la sanità pubblica. Scelte coraggiose che gli alienano parecchi consensi. Tore Cherchi, ex senatore e deputato del Pci, attuale sindaco di Carbonia, l’uomo che i Ds avrebbero candidato a governatore se non fosse arrivato Soru, con lealtà d’altri tempi definisce i quattro anni del governatore «una discontinuità positiva». E di discontinuità si tratta, se è vero che il Pd sardo ormai è l’ombra di se stesso,praticamente ridotto a un ectoplasma dalla litigiosità interna e dalle incursioni del governatore, sconfitto da segretario del partito (sarebbe stata una diarchia monocratica, se ci passate il neologismo) ma che poi si salva in corner imponendo alla testa del partito una segretaria eletta per protesta solo da una minoranza dei delegati. E nella sovrapposizione tra governatore e leader di partito che si nascondono le prime crepe della leadership di Soru. Uno dopo l’altro, gli assessori più brillanti lo abbandonano. Pigliaru se ne va con una lettera garbata ma ferma in cui sostiene che l’idea di separare il bilancio dalla programmazione ( avocata a sé dal governatore) significa riaprire l’assalto alla diligenza delle risorse regionali. Soru, one man show ripudiato da un partito, il Pd, che l’ha sempre considerato un corpo estraneo, inviso da una coalizione, Sinistra democratica e Idv in testa, che adesso invoca le primarie per tentare di sbarrargli la strada.Il paradosso è più nell’autolesionismo dell’uomo che nel politico, in quella contorta ruvidità che invano tenta di sciogliersi nella limpida sobrietà berlingueriana, l’eterno idealtipo di qualunque sardo si dia alla politica. Il governatore cerca di concentrare potere e risorse perché sa che da questo combinato disposto dipende la sua rielezione. In primavera si vota, e i sondaggi attribuiscono alla coalizione al potere il 39,8% dei consensi. Molto dipenderà dal candidato che gli contrapporrà il centro- destra (al momento, il nome più probabile è quello del sindaco di Cagliari, Emilio Floris). Prima di Soru e dopo di Soru, si dirà in Sardegna nei prossimi vent’anni: un patrimonio personale di 2 miliardi e la gestione di una montagna di soldi pubblici – in Sardegna la quota di spesa pubblica sul Pil è del 65% – ne fanno uno degli uomini più ricchi e potenti d’Italia. Inevitabile che i nemici si moltiplichino. «Tiranno», lo apostrofa addirittura Paolo Maninchedda, professore di Filologia romanza e tra i suoi (ex) accaniti fan della prima ora in Progetto Sardegna. Le defezioni fanno il resto: al Bilancio, al posto di Pigliaru, va Eliseo Secci, un ex andreottiano di lungo corso. Il cambio di marcia rispetto agli esordi è evidente, ma allo stesso tempo improponibile il paragone tra Soru e i mestieranti della politica che l’hanno preceduto. Con tutti i camaleontici adattamenti del suo doppio Dna: imprenditore che celebra il mercato e governatore che sogna i monopoli. Di vettori aerei («la chiamerei Alisarda») o compagnie di navigazione («invece di buttare 70 milioni l’anno per la Tirrenia, basterebbe che lo Stato ci assicurasse almeno un terzo di quelle risorse per due o tre anni»). «Al resto penseremmo noi», dice sicuro lui. Dove quel noi è così maiestatis che ha il suono e la forma della prima persona imprenditoriale.
Mariano Maugeri (* dal sole24ore.com)
DA UN ARTICOLO SU "LA REPUBBLICA", SI RIDISEGNA LA SARDEGNA DI "BADDHEVRUSTANA"
GAVINO LEDDA A 70 ANNI, RINNEGA "PADRE PADRONE"
«Mio padre aveva ragione. Io ho sbagliato. Voleva liberarmi dalla prigione dell’industria, che sfratta usando la scienza, per restituirmi alla libertà della natura, che trattiene rigenerando la bellezza. Lui aveva visto che il mondo rurale, assieme alla terra, avrebbe perso il potere. Io non ho capito che, nel deserto, comanda il vuoto. La mia vita è la risposta alla tragedia ignorata della Sardegna e dell´Italia». Gavino Ledda, a 70 anni, rinnega "Padre padrone". Nella casa di Siligo, dove è tornato, sta riscrivendo il suo capolavoro. Dopo 35 anni vuole denunciare la violenza opposta a quella che, costringendolo a diventare un bambino pastore, recise il suo destino di scolaro: i genitori ridotti ormai a «spingere nel mercato dello studio», cacciando i figli da campagne e paesi. «Eravamo padri e padroni – dice – ora siamo sterili e servi. Meglio essere proprietà di un padre che di una banca, o di un podestà». È la sintesi del dramma che, nell’arco di una generazione, erige oggi l’isola a specchio di un Paese orfano. «I campi – dice a Baddhevrùstana – sono la metafora dell’enigma chiamato libertà. Dobbiamo ammettere l´incapacità di chiarirlo: e riconoscere che, per non mettere a tutti una valigia in mano, si deve avere una cultura propria da trasmettere».Da sette giorni, per guardare il divorzio italiano dall’agricoltura, dalla natura e dai suoi borghi, vago in Sardegna assieme a pastori, casari, contadini e genti delle Barbagie. In nessun altro luogo, sospeso tra coste brulicanti e montagne inselvatichite, la rinuncia della nazione a se stessa è tanto impressionante. L´ultima crisi del mondo, come l´alluvione annunciata a Capoterra, travolge chi è rimasto a produrre cibo, o a mettere ordine nei campi, sui pascoli e tra i boschi. Migliaia di sopravvissuti sono scossi da uno stupore: prendere atto di essere stati abbandonati.«La mancanza di un grande progetto civile nazionale – dice lo storico Manlio Brigaglia – riproduce la catastrofe antropologica del dopoguerra. L’ufficio sostituisce lo stabilimento. Lo spaesamento sociale, culla di una rivolta possibile, è però peggiore: perché politica e sindacato, inconsapevoli, hanno rinunciato ad affrontarlo». Gli effetti di tale distrazione, motore degli abbandoni, sono una serie di primati devastanti. In Sardegna c’è il luogo più avvelenato d’Italia, Portovesme, e il più intatto, Budelli. Quartu Sant’Elena ha la più alta concentrazione demografica, 602 abitanti per chilometro, e Gerrei la più bassa, 14. L’età media dei contadini è di 62 anni. Non c’è più di un figlio per donna. Attorno al Gennargentu le femmine hanno in media 52 anni. Su 377 Comuni, 164 sono prossimi all’estinzione. Olbia, in trent’anni, passerà invece da 3 mila a 100 mila residenti. Villasimius, in agosto, schizza già da 20 a 110 mila. In estate le persone che vivono sull’isola oscillano da 1,6 a 20 milioni. Arzachena è il Comune più ricco d’Italia, Desulo il più povero. Cagliari, su 9 mila ettari, ospita 190 mila persone. Orgosolo, su 22 mila ettari, 3 mila. L’86% dei sardi vive ormai a non più di 30 chilometri dalla costa
, solo il 5% nei villaggi più antichi dell’interno. In due città, Cagliari e Sassari, si è spostato un terzo di tutti gli abitanti. Sull’isola ci sono 800 mila abitazioni: 8 mila vuote solo nel capoluogo, mentre nei paesi il 47% sono abbandonate. In dieci anni la superficie coltivata si è dimezzata, i pascoli incolti sono quintuplicati, mentre 90 milioni di metri cubi di cemento hanno coperto i 1600 chilometri di litorale. Settemila aziende agricole sono all’asta,180 mila contadini pagano i mutui solo grazie ai contributi Ue e sono schiacciati da 800 milioni di euro di debiti. Belano in compenso quasi 4 milioni di ovini: 300 mila quintali di pecorino romano prodotto per il sempre più precario mercato Usa. Il cortocircuito, economico e sociale, tocca qui il suo apice storico. Esprime però, nella sospensione di un’isola a rischio liquidazione, il carattere nuovo dell’Italia all’asta. E rivela infine il suo esito: 300 mila poveri, un sardo ogni cinque. «La costa produce cemento – dice l’antropologo Bachisio Bandinu – l’interno formaggio. Le due materie prime sarde, mare e latte, sono nelle mani di un pugno di persone, in maggioranza del continente, o straniere. Alla gente non resta nulla. La Sardegna, come il resto della nazione, si rende conto dell’errore. Ha trasformato la natura in industria, turistica o alimentare, ignorando la lezione dei petrolchimici. Il guaio è che, nonostante il fallimento di quel modello, lo Stato continua ad alimentare la catastrofe: con la complicità dell’Europa».Il tentativo di reagire, da alcuni mesi, lacera l’opinione pubblica. La Sardegna è l’unica regione italiana ad aver approvato un piano paesaggistico coerente con il codice dei beni culturali. La sola ad aver vietato nuove costruzioni a meno di due chilometri dalle rive. La rivolta, scatenata dal partito di costruttori e speculatori, ha avuto un finale inatteso: il referendum contro la conservazione dell’ambiente, i primi di ottobre, si è schiantato sul 20% di votanti. «Non è purtroppo – dice il leader degli ambientalisti, Stefano Deliperi – un addio al cemento. Certifica però vergogna e nostalgia: l’appello di genti che, ovunque, si sentono sempre più impotenti. Inutili».Il paesaggio in sé, del resto, è un certificato di incertezza. Spiagge, campagne, colline e monti non trasmettono un carattere, né rivelano un’attitudine. Loculi di calcestruzzo, ammassati, si alternano a scollegate distese selvagge. Per metà si coltiva, per metà si abbandona. In parte si tutela, in parte si sfrutta. Una scissione consumata, ma non compiuta. «È un territorio indeciso – dice l’archeologo Giovanni Lilliu – che esprime un’insicurezza, la sfiducia in se stesso. Penso alla mia isola e vedo l’Italia: luoghi dal destino imprevedibile, che nessuno ama più. Ho 94 anni: se l’improvvisazione non si arresta, temo di essere in tempo per assistere a un collasso». I sintomi sono evidenti. La piana tra Uta e Decimoputzu è invasa da migliaia di metri quadrati di serre pericolanti. Scheletri di plastica, o di vetro, con le piante secche ancora all’interno. Centinaia di fallimenti, innescati da contributi illegali. Vani scioperi della fame. Un banchetto, per il credito. «Per ventimila euro – dice Riccardo Piras, di Altragricoltura – battono all’asta terreni che valgono 2 milioni. Un infermiere in pensione, per conto di un’immobiliare milanese – ne ha comprati 32. Prima ci hanno fatto investire, poi fallire. Il verde agricolo perduto, in un anno, diventa edificabile. Politici, banchieri e costruttori, il potere sardo e italiano, si stanno spartendo le campagne». Esemplare, pochi giorni fa, il ciclone tropicale a Capoterra. Fino al 1990 qui si coltivavano carciofi e pomodori. Tre ore di diluvio hanno sommerso una distesa di case brutte, abusive e senza piano. Sugli alvei di fiumi e canali hanno costruito asili, scuole, negozi, cimiteri, strade. «La soglia della sostenibilità – dice Fanny Cao, presidente regionale di Italia Nostra – è stata superata. Confondere lo sviluppo con il cemento non distribuisce ricchezza. Brucia risorse: e semina cadaveri».Una lista terribile di orrori, per l’isola più bella e completa del Mediterraneo. Il Campidano, granaio di Roma, è abbandonato ad un’orticoltura intensiva avvelenata e fallimentare. Portovesme soffoca in una nube tossica. A Porto Torres le scorie restano sepolte nei terreni. Liquami e concimi chimici devastano gli stagni di Arborea. Nel Sulcis, liberato dalle miniere, i fiori sono ancora impregnati di metalli. Pula, la costa del Sud, Villasimius, la costa Rei, Olbia e la Gallura, la Nurra attorno ad Alghero, sono sepolte di hotel e seconde case. Uno squallore: design seriale camuffato da architettura d’autore. Altri milioni di metri cubi di edifici giacciono nei progetti: le onde, invisibili, si gonfiano oltre i centri commerciali. Si salvano solo le valli delle Barbagie. «Perché ormai sono vuote come agnelle arrostite – dice Bachisio Porru, portavoce dei piccoli Comuni – e i politici non sanno nemmeno dove siano. In 60 paesi l’età media è di 48 anni, il ricambio generazionale impossibile. È il destino che sta travolgendo tutto il Meridione, gli Appennini, l’arco alpino. Lo Stato ha tolto l’occupazione, quindi i servizi: quattro italiani su cinque costretti a lasciare le loro immense case nei villaggi. Sono gli stessi che oggi, in città, non riescono a pagare il mutuo dei miniappartamenti. Chiamano globalizzazione quello che nel secondo Novecento battezzavano progresso. Ma i sardi sanno che il cambiamento si risolve in un affare da agenzia immobiliare: chiudere paesi per aprire periferie».Attorno a Nuoro la Sardegna chiusa per paura, e l’Italia che sceglie di trasformarsi in un’isola governata dalla preoccupazione, si impongono con ferma meraviglia. I quartieri della città sono un mosaico di borghi serrati, come se qualcuno li avesse raccolti al tramonto e innestati qui entro l’alba. Molte vecchie, nere e rotonde come bacche di ginepro, siedono sugli usci di condomini incompiuti, in mattoni rossi, come fossero al focolare. I costumi restano abiti: trasportano nei villaggi vicini, di cui non resta che un’indecifrabile traccia, oppure nei paesi che si consumano in un isolamento accanito. Queste stesse donne, che mantengono i figli con pensioncine antiche, si incontrano anche in altri luoghi. Si muovono come fantasmi, calme e indifferenti, e trasformano la regione in una sconfinata, silenziosa corsia di ospedale. «I loro nipoti – dice lo scrittore Giorgio Todde – sono camerieri, o commessi. Non si fidano del turismo, che vedono rapace, ma non credono più nella civiltà rurale, che sanno spietata. Aspettano, come tutti, di vedere se davvero la bellezza può tramutarsi in oro, senza poi sparire».Orune, Lula, Olzai, Teti, Osidda, Oliena, Desulo, centinaia di altri borghi remoti e sacri, restano intanto cavi come ghiande. Non sono più contadini, non ancora altro. I bar offrono sandwich con speck e fontina, o "vero formaggio svizzero fatto in Olanda".I caci affumicati e ingrassati con l’olio, che per secoli hanno annegato i pastori con un sogno, sono irraggiungibili, come una nuvola oltre il Supramonte. Di bello, di valentemente banditesco, restano i cartelli stradali sfondati a pallettoni. Ricordano un destino: una nazione incerta tra Orgosolo e Porto Cervo, esposta al rischio di essere felice perché non si conosce, eternamente.«Sembriamo in effetti la Sardegna – dice a Ollolai Efisio Arbau, portavoce del movimento dei pastori – ma non siamo più capaci di fare i sardi. È chiaro che non possiamo più consegnare 300 mila quintali di latte a 3 industriali, che confezionano un sottoprodotto per gli hamburger made in Usa. Qualità significa però avere una capacità artigianale, credere nella natura, in una identità. Non i piccoli
con un carattere, ma i grandi privi di espressione, iniziano a morire. Unendoci, reinvestendo nella nostra dimensione, possiamo sottrarci ai "prenditori" che svendono il Paese a pochi: per incompetenza, o per corruzione». Come sempre, nella "domo de casu" barbaricina, o nello stabilimento di Andrea Pinna a Thiesi, si discute del prezzo del latte di pecora. A Cagliari Giorgio Piras e Luca Saba, leader sindacali, sfornano studi e appelli alla Regione. A Seneghe Francesco Cubeddu lotta per la quotazione della carne di Bue Rosso. Fulvio Tocco, nel Medio Campidano, tratta il costo del porcetto. Battista Cualbu, a Campu Calvaggiu, poco fuori La Corte, si commuove contando quattrocento pecore in linea e pensando al padre: scendeva a piedi da Fonni, per la transumanza nella Nurra, e per mesi dormiva nei cespugli. Potrebbe sembrare tutto immutabile, o reale come le aste – truffa dei terreni contadini a Villasor: una civiltà che affonda nei debiti, tra l’ex Mussolinia e Reggio Emilia, in balìa dell’assistenza e in ostaggio del mercato. «Invece siamo in crisi – dice a Fordongianus Giuseppe Cugusi detto Cuccara, professione pastore, vocazione casaro – solo perché abbiamo dimenticato chi siamo, rinunciato alla storia. Non crediamo più nelle pecore e raddoppiamo le stalle. Non crediamo più nel latte e quadruplichiamo le mungitrici. Non crediamo più nel Fiore Sardo e ci umiliamo con il pecorino romano. Non crediamo più nella terra e investiamo in sementi e concimi. Non crediamo più nemmeno nel mare, e lo sostituiamo con l´idromassaggio. I sardi non credono più nella Sardegna come gli italiani con credono più nell’Italia: perché rinunciano a se stessi e imitano, come patetici replicanti cinesi. Per andare avanti dobbiamo tornare indietro: animali al pascolo, forme preziose stagionate dietro l’ovile, vendita diretta, on-line come un tempo alle fiere. Gavoi che sfila a cavallo, Rimini che sega gli ombrelloni: il massimo della modernità, contro gli strozzini che producono conti. Ma soprattutto contro una politica vecchia, che non vede la profondità di un cambiamento». Francesco Pigliaru, economista originario di Orune, conferma che non è una resa alla nostalgia.«La qualità dell’ambiente – dice – diventa sviluppo perché chi investe su quel valore acquista ormai solo natura. Per averla, paga di più: ma se non c’è, non spende. Il riflesso, per i prodotti agricoli, è il medesimo. Mondo rurale, civiltà paesana e turismo della bellezza, sono davanti al bivio della tutela integrale: o bruciano l’ultima materia prima rimasta all’Italia, o si impegnano per ricostruire un equilibrio infranto, cuore della competitività economica». Cemento, Turixeddu, pecorino romano, serre e "Unione Sarda", contro sabbia, Busachi, Fiore sardo, grano e "l’Unità". «Due Sardegne – dice l´antropologo Giulio Angioni – ma pure due Paesi opposti, un´idea di Europa: una sfida estrema, in primavera, tra ritorno al feudalesimo e riscoperta della democrazia». È già, rapidamente, buio. Gavino Ledda, ancora pastore, continua ad aspettare una donna. Cammina nell’arboreto che ha piantato con i soldi dei suoi libri. Una collina di cotogni, corbezzoli, mirti, ginepri, olivi, sugheri, lecci, erbe. I compaesani adesso hanno capito. Suo padre aveva ragione: ma lui, alla terra da cui era fuggito, lascia infine un giardino. Una profezia, cesti di frutti, come eredità.
Gianpaolo Visetti
MEGLIO ESSERE PROPRIETA’ DI UN PADRE CHE DI UNA BANCA O DI UN PODESTA’
TANTI MALI E TANTE VERITA’
Questo passo mi ha bloccata, quasi paralizzata, dopo aver letto tutto ci sono ritornata. L’articolo de "La Repubblica" credo sia bellissimo. A prescindere dalla condivisione che ognuno di noi può avere rispetto ai diversi temi affrontati, elenca in una sintesi incalzante e coinvolgente tanti mali e tante verità. Ma… c’è un ma. Non nascondo che ho sempre odiato e sparlato e con particolare veemenza del film dei fratelli Taviani "Padre padrone" tratto dal libro omonimo di Gavino Ledda, poiché vedevo in quel film/romanzo una lettura falsata nonché pericolosa della storia sociale e antropologica del mondo rurale sardo nonché un doloroso cedere ad una "deriva interpretativa" della quale ancora oggi paghiamo i difficili non sense e luoghi comuni che dominano quella parte fondante dell’economia sarda. Dopo tanti anni vedere e leggere in Ledda un revisionismo autobiografico e perciò culturale in questa direzione mi fa raddoppiare la rabbia, e mi chiedo perché debbano essere sempre questi stessi che a suo tempo non avevano capito un granché della loro Terra e delle loro dinamiche ad avere ancora oggi tutta questa voce in capitolo su media e dintorni. Gli stessi ad avere la possibilità di "esprimersi", e non solo gli viene pure dato ampio spazio per affermare addirittura che sbagliavano. Perché? Mi chiedo. Non solo… Meglio essere proprietà di un padre padrone??? Ma come si può accettare un’affermazione del genere? Essere proprietà? Dovremo pensare oggi dopo 40 anni di errori politici, sociali e culturali che sarebbe stato meglio essere schiavi di chi ci aveva generato biologicamente? Questa la modalità per restare "vicini" alla Terra? Ma che follia è questa? Ma che cultura si produce in questa Terra? Ripristiniamo lo schiavismo? O il vassallaggio feudale? Io sono senza parole. Continuo a vedere in questi intellettuali non una spallata ulteriore alla "deriva interpretativa" ma una spinta verso una apocalisse antropologica che non so bene per quale motivo sembra che questi stessi bramino. Mi viene da supporre ad una perversione di natura psicologico-sociale della quale veramente vorrei ci liberassimo sotto ogni punto di vista. Io proprio non ne posso più neanche di considerarli. Forse qualcuno penserà che esagero. Ma se pensiamo soltanto a quel film dei sessantottini Taviani che a prescindere da alcune trovate artistiche come le pecore parlanti, quello che ci è rimasto davvero per lustri e lustri è stata l’idea di una Sardegna retrograda, immersa in un oscurantismo culturale degenerativo, incapace di progresso umano, proprio perché legata ad un mondo rurale e pastorale che aveva ahimè ancora i tratti di un’economia medievale. La "liberazione" a quel tempo veniva vista perciò esclusivamente abbandonando terra, allevamenti, paesi e padri naturalmente. Inutile dire che il povero Gavino era vittima di un padre "malato" come tanti ne esistevano allora in tutte le civiltà contadine e pastorali e ne esistono ancora oggi nelle progredite civiltà metropolitane dove picchiano figli, mogli e quant’altro. Non capire questo ancora oggi da parte dello stesso scrittore è grave. Che giornali e dintorni continuino a vedere in questi personaggi profeti del futuro mi spaventa, e non poco. Meglio essere proprietà… Quale etica può contemplare un’affermazione del genere? A me basta questo per capire che le distanze culturali fra noi e questa generazione post bellica e neo-industriale sarda sono davvero abissali e inconciliabili. Che indipendenza e che libertà potrebbe mai a
vere un uomo che sceglie di "essere proprietà" di qualcosa o qualcuno proprio non lo capisco. Ricostruire tutto. Dobbiamo proprio farlo.
Ornella Demuru
UN’OCCASIONE PER PRESENTARE AL PUBBLICO ANCHE LA "DIGITAL LIBRARY"
A MACOMER LA MOSTRA DEL LIBRO DAL 27 AL 30 NOVEMBRE
Dal 27 al 30 novembre si è rinnovato a Macomer l’appuntamento con la Mostra del Libro in Sardegna. "Il programma intrapreso, in un processo che è stato il più inclusivo e collaborativo possibile, è finalizzato a promuovere la lettura specialmente tra i ragazzi e candida Macomer a diventare il laboratorio in cui ciò accade, non solo nei tre giorni della Mostra, ma durante tutto l’anno" ha dichiarato l’assessore della Pubblica istruzione Maria Antonietta Mongiu presentando il programma alla stampa. L’ottava edizione della manifestazione, negli spazi dell’area fieristica delle ex Caserme Mura, ha sperimentato un percorso che è partito dalle scuole – rappresentate da cinque Focus Groups di docenti, uno per ogni grado di istruzione scolastica ed uno dedicato alle biblioteche scolastiche – chiamate a mettere a fuoco i percorsi, i temi e le proposte culturali della prossima edizione della Mostra del Libro in Sardegna che si svolgerà nell’Aprile del 2009. Un vero e proprio laboratorio di idee che testimonia quanto la scuola sia importante per la Mostra del Libro e viceversa, tanto da affidarle il compito di "progettare" il proprio futuro. La Mostra del Libro di Macomer è anche, come sempre, l’occasione per conoscere libri, incontrare autori, partecipare alle tante iniziative che anche quest’anno danno vita a un programma vasto e stimolante. La grande esposizione curata dall’Alsi nel Padiglione Tamuli ha visto protagonista la produzione editoriale sarda, mentre un calendario di dieci presentazioni ha previsto l’incontro con gli scrittori Cristiano Cavina, Alberto Capitta, Francesco Abate, Pierdomenico Baccalario, Elena Peduzzi, Michela Murgia, Gianfranco Liori, Gianluca Floris, Paolo Maccioni, Gianluca Medas, Mario Mereu, Simona Tilocca, Nino Nonnis, Eliano Cau e Bepi Vigna. Le esperienze informali di scienza e lettura, l’incentivazione alla lettura, l’incontro tra teatro e scienza, la creazione di giocattoli dai rifiuti e l’importanza della divulgazione scientifica nel settore delle energie rinnovabili sono i temi che si sono susseguiti. Nelle tre giornate, inoltre numerosi gli appuntamenti con il teatro, le mostre, la presentazione di lavori delle scuole, mentre la sera è stato possibile dedicarsi all’osservazione degli astri. Sono stati presentati al pubblico la "Sardegna Digital Library", la recente Carta Giovani regionale, le opportunità offerte dalla Regione agli studenti (assegni di merito, laboratori scuole, diritto allo studio) e l’iniziativa "Adotta un libro dimenticato", ovvero la distribuzione gratuita agli studenti dei libri acquistati dalla Regione negli ultimi anni. In contemporanea dal 28 al 30 novembre si è tenuta sempre a Macomer la Conferenza regionale della lingua sarda.
IL RUOLO DEL "PREMIO OZIERI" NELLA RINASCITA DELLA CULTURA E LINGUA SARDA
LETTERATURA A STATUTO SPECIALE
Cinquant’anni fa un gruppo di poeti e di intellettuali fondò a Ozieri un premio per promuovere la ripresa della letteratura in lingua sarda. Fu un segnale e nel giro di pochi anni la tradizione scritta e orale dell’isola conobbe una ripresa impetuosa. Nicola Tanda, per anni ordinario di Filologia sarda a Sassari e massimo esperto di scrittori isolani, oltre che attuale presidente del Premio Ozieri, ancora recentemente ha sostenuto in "Quale Sardegna?" (Delfino, Sassari) che a salvare l’isola sono stati i poeti. Si è trattato di una riforma culturale e di una rinascita di creatività, che dalla poesia in dialetto si è estesa rapidamente agli altri settori del sistema letterario. Anche nel romanzo in lingua narratori di successo come Marcello Fois, Giorgio Todde e Salvatore Niffoi hanno recuperato il mondo isolano, un tempo espulso dalle loro pagine. La reazione a catena ha investito anche le altre manifestazioni della cultura: il nuovo cinema (Mereu, Columbu), gruppi che impiegano la lingua sarda come i Tazenda, cantadores che nelle feste improvvisano a gara ottave ariostesche, tenores con voci chi paren trumbas, senza scordare, dai dolci ai gioielli, i prodotti della gastronomia e dell’artigianato, i costumi, il ballo tondo e a tre passi, le feste popolari. Eppure di questo impetuoso fenomeno, fuori e talvolta perfino dentro la Sardegna, si continua ad avere una consapevolezza insufficiente. Da una parte il canone nazionale sostanzialmente ignora autori di prima grandezza come Predu Mura, Antonino Mura Ena, Benvenuto Lobina. Dall’altra continua a mancare anche nel pubblico più preparato un’adeguata comprensione della singolarità linguistica e culturale dell’isola. Ai tempi in cui lavoravo ai tre volumi mondadoriani della Poesia in dialetto, io stesso affrontando la Sardegna mi convinsi della necessità di andare oltre la classica diglossia lingua- dialetto. Non si tratta solo del fatto che il sardo non può essere considerato un dialetto italiano. È l’architettura stessa del sistema che va ridefinita. Per interpretare correttamente la produzione letteraria dell’isola occorre infatti sostituirvi un modello più articolato, in cui sono in gioco almeno tre codici con le relative culture, sardo, spagnolo e italiano, se non addirittura cinque, se si prendono in considerazione anche catalano e latino. La produzione in lingua sarda, che ha dovuto trascorrere attraverso le ricorrenti campagne di acculturazione e di estirpazione linguistica condotte dai nuovi dominatori (nel 1567 il catalano è soppiantato dal castigliano, con l’arrivo dei Savoia nel 1720 il toscano scaccia a sua volta il castigliano), è cresciuta dando vita a relazioni di volta in volta diverse con i sistemi linguistici e culturali egemoni. Ecco perché la letteratura dialettale romagnola o campana sono altra cosa da quella sarda, che davvero è una «letteratura a statuto speciale». Ciò che hanno fatto i poeti del Premio Ozieri è stato rivendicare la peculiare identità della Sardegna, che non poteva essere garantita da alcuna facile coloritura dialettale, come avevano dimostrato le scelte linguistiche dei maggiori scrittori dell’isola, Salvatore Farina, Grazia Deledda, Giuseppe Dessì, Salvatore Satta, Salvatore Mannuzzu, che alla mescidazione avevano preferito il prestito. Mi piace oggi pensare che il Premio Ozieri sia nato nello stesso decennio in cui un assurdo Piano di Rinascita proponeva la costituzione di due poli chimici del tutto estranei alla cultura del territorio. Il poeta Tonino Ledda, l’oscuro maestro di Ozieri che fondò il premio, sognava che le voci della tradizione tornassero a rivestirsi dei suoni sardi che da sempre le avevano espresse, ma nel quadro di un radicale aggi
ornamento della poesia. Emblema di questa operazione potrebbe essere Jeo no ippo torero di Antonino Mura Ena. Rifacendosi al Lamento por Ignazio Sanchez Meiijas di García Lorca, il poeta sardo immagina che il ragazzo pastore Juanne Farina di Lula, incornato da un bue, salga in cielo insieme a un torero. Notando nell’inguine del ragazzo una ferita simile alla sua, il torero gli chiede se anche lui sia un trionfatore dell’arena. Quando conosce la sua umile storia, il campione dell’Andalusia non esita un istante e, preso per mano il piccolo torero sardignolo, lo accompagna a los toros celestes. È un’allegoria della promozione al Parnaso della poesia e della cultura della piccola nazione sarda.
Franco Brevini (da "Corriere.it")
UNA LINGUA UNICA PER LA NOSTRA IDENTITA’
RIAPPROPRIAMOCENE!
Dobbiamo ri-appropriarci, io credo, dell’uso della lingua sarda com’era comunemente già dal tempo dei Giudici. Nel 1065, il segretario giudicale (Nicita lebita iscribanus) si scusava, in sardo, scrivendo al monastero di Montecassino, per il suo latino approssimativo nello stendere un documento di donazione fatta dal giudice Barisone I di Torres a quel monastero. Un documento che lo scrivano dovette comporre quasi al buio e in grande fretta (et grande presse erat mihi). Poco meno di un decennio dopo (1075), sia nel sud che nel nord dell’isola, appaiono i primi documenti scritti in lingua sarda. Uno è del giudice di Cagliari che "cum muliere mia donna Bera et cum filiu miu donnu Costantinu" fa un’importante donazione "ass’archiepiscopadu nostru de Calaris, ad honore de Deu et in gratia de sancta Maria matrighe Domini". Un altro è quello del giudice di Torres, Mariano I (1073), che concede ai pisani "pro calis so ego amicu caru et itsos a mimi", il "telòneu", ossia il diritto di commerciare nel suo regno per terra e per mare, d’inverno e d’estate, senza pagare tasse. Nell’archivio civico di Marsiglia, c’è un altro documento nella nostra lingua che addirittura usa l’alfabeto greco per esprimere il sardo. In esso il giudice Mariano Salusio I di Cagliari (1150 circa) fa alcune donazioni alla chiesa di san Saturno e ordina ai sacerdoti di quella chiesa (i monaci Vittorini di Marsiglia) che "fatzanta missas suas pro anima de patri meu iudiki Ortzokor a santu Saturnu in… dies de agustu, kantu futi mortu". E’ superfluo ricordare il principe dei documenti ufficiali in sardo, la Carta de Logu di Eleonora del 14 aprile 1392, da molti storici ritenuto il primo esempio di costituzione europea. Documento fondamentale, che restò di vigore legale fino al 16 aprile 1827, quando Carlo Felice la sostituì col codice di Leggi civili e criminali del Regno di Sardegna. Ricordiamo ancora che l’inno del regno d’Italia, fino al 1946, fu il sardissimo Cunservet Deus su re. Il sardo, nei documenti laici, nella predicazione, nei catechismi, a scuola, nei canti della chiesa, era di uso normale, fino alla calata dei piemontesi, i padroni di turno, nel 1720. Con i primi soldati piemontesi c’erano anche tre padri gesuiti venuti "pro fagher iscola de limba italiana a sos mastros de iscola sardos". Il 29 novembre 1847, re Carlo Alberto concedeva ai sardi il cosiddetto "privilegio della perfetta unione" al regno piemontese, il che comportava uguali diritti, stesse leggi e… purtroppo anche stessa lingua. Nelle scuole, di conseguenza, l’unica lingua permessa cominciò ad essere l’italiano. Un vero sfregio, forse il più micidiale, alla nostra identità di popolo sardo. Fortunatamente, l’anima sarda, anche sotto questo aspetto ha resistito ostinatamente. A partire specialmente dagli anni ’50-’70 del secolo scorso, con la riscoperta della civiltà nuragica, è riaffiorata nella nostra gente una sempre maggiore consapevolezza dei nostri valori inconfondibili. Il convegno scientifico internazionale sulla "limba", organizzato a Quartu dalla Sardinian Language Group, d’intesa con la Pro Loco di Senorbì, il 9 e 10 maggio del ’97 ha aperto un ampio sipario europeo ed extraeuropeo, forse il più significativo finora, sulla diffusione e l’interesse sempre crescenti che riscuote lo studio del sardo, la lingua della minoranza più numerosa d’Italia. Erano presenti tanti studiosi e ricercatori stranieri: dall’Inghilterra, dalla Francia, dalla Germania, dall’Olanda, dalla Spagna. Faceva un certo effetto sentir discorrere in sardo professori universitari come Michael Jones, Guido Menshing, Jurgen Rolshoven, Kerjin Elsloot, Eduardo Blasco Ferrer. Assieme a loro erano nel convegno Massimo Pittau, Antonio Chessa, Michele Columbu, Roberto Bolognesi, Maria Teresa Pinna Catte, Michele Contini, Lucia Molinu, Maria Giuseppa Cossu, Raffaele Ladu e diversi altri nomi illustri. Il professor Menshing, nel corso del suo intervento in sardo, aveva parlato in particolare della vasta ragnatela telematica su Internet, nella quale è sempre più frequente imbattersi in documentazione scritta in lingua sarda e dei siti entrati in contatto con quello da lui creato all’uni-versità di Colonia fin dal 1994. Tutti i partecipanti all’assise scientifica avevano convenuto sulla necessità di un potenziamento dell’uso del sardo e sulla possibilità concreta di superare le varianti dei dialetti locali. E’ facile essere d’accordo con loro. Infatti, non si tratta di un arrogante esproprio, di una prevaricazione di un dialetto su un altro, o di calare una lingua artificiale dall’alto (tipo l’esperanto), ma di accettare una convenzionale lingua de mesanìa, che possa esprimere unitariamente e ufficialmente la Sardegna, lasciando intatti i singoli dialetti. Come è avvenuto, più o meno, nell’accettazione del dialetto toscano, diventato lingua unitaria per tutta la nazione. Il vantaggio di avere una lingua unica per esternare i nostri sentimenti e la nostra identità sarda è enormenente superiore a certi puerili orgogli di campanile. In tutti gli Stati esiste una situazione simile e una convenzione linguistica per una espressione unitaria collettiva. L’esempio massimo, tra tutti, potrebbe essere il kisuahili, la lingua del gruppo bantu scritta in caratteri arabi fin dal secolo XVI e diventata lingua franca di scambi e di cultura grazie all’amministrazione britannica, una lingua oggi largamente diffusa, capìta e parlata in tutta l’Africa orientale. In kisuahili ha prodotto perfino una notevole letteratura: poesia, racconti, proverbi, canti. Il kisuahili è ora lingua ufficiale in Kenya, Tanzania, Uganda, Zaire e altrove, accanto ai dialetti locali. E fa bene il governatore Soru a insistere perché si arrivi una buona volta all’uso di una nostra lingua sarda ufficiale per esprimere pienamente la nostra piccola patria sarda. (Informazioni dello storico padre Raimondo Turtas).
Vitale Scanu
IL PAESAGGIO SARDO, VARIEGATO E PREZIOSO, DEVE RIMANERE INTATTO
RIPRISTINARE QUELLO DETURPATO
Il paesaggio sardo, pur essendo un tipico paesaggio mediterraneo, ha anche sue peculiarità. Per struttura geologica, associazioni florofaunistiche e segni della storia umana, la varietà appare frantumare il paesaggio sardo, vero mosaico geo-bio-antropico. Ma come il mosaico in figura piena, anche il paesaggio sardo è percepibile nella sua unità. A parte le coste così nettamente segnate dal contatto col mare e dall’abbandono millenario fino a ieri, nelle sue linee maggiori geologiche, sebbene la Sardegna non sia "una montagna in mezzo al mare" come è stato detto della Corsica, l’unità del paesaggio sardo interno può essere vista innanzitutto come fatta dalle presenze unificanti di orizzonti larghi e piatti e dalle forme arrotondate, che all’occhio esterno dà molto la sensazione di ampiezze "continentali". L’unità dei paesaggi interni si deve certamente anche ai segni della preistoria come le migliaia di nuraghi in tutta l’isola, della storia, come le chiesette romaniche spesso solitarie, ma soprattutto si deve ai modi plurimillenari della presenza umana, dove dominano i segni della lunga durata delle due grandi attività della cerealicoltura e della pastorizia, più nel Sulcis l’altra grande attività tradizionale delle miniere fortemente strutturante quel paesaggio. Tralasciando effetti come l’azione dell’incendio estivo o del maestrale che piega tutto il piegabile a Sud-est, il paesaggio sardo interno può dirsi strutturato e formato dalle due grandi attività tradizionali millenarie della pastorizia mobile e brada e dell’agricoltura cerealicola estensiva asciutta. I paesaggi, anzi il paeggio interno della Sardegna, senza forzare le cose nel senso di una individuazione sintetica e semplificata, può essere utilmente visto come un paesaggio agropastorale di tipo mediterraneoi. L’agropastoralità di lunga durata caratterizza tutto il paesaggio, montano, collinare e di pianura, seppure la montagna da una parte si caratterizza come pastorale e la pianura e le colline, dall’altra parte, come cerealicole: la montagna per I pascoli permanenti e la collina e la pianura per I campi aperti, con una zona centro-occidentale più caratterizzata dalle chiusure con muretti a secco. L’insediamento umano unifica ulteriormente il paesaggio, generando l’accentramento degli abitati e il non popolamento della campagna: questa tendenza ha stabilizzato ovunque, nella montagna pastorale come nelle pianure, nelle colline e nelle valli cerealicole o di culture specializzate della vite e dell’olivo, un habitat accentrato e rado con distinzione netta tra abitato e disabitato. E il disabitato del salto è il tratto che dà più l’impressione di scarsa antropizzazione del paesaggio sardo, spesso detto selvaggio con accezioni di volta in volta positive o negative. L’architettura del paesaggio sardo interno qualificabile come agropastorale è anche il risultato della storia dei rapporti tra le due grandi attività plurimillenarie dell’allevamento soprattutto ovino e della cerealicoltura incentrata sul grano, cioè è anche o principalmente il risultato della necessità di coordinare e permettere la compresenza della cerealicoltura estensiva e della pastorizia mobile e brada, per esempio all’interno dei singoli agri attraverso il coordinamento tra vidazzone e paberile mediante la rotazione agraria comunitaria, e, nel grandi rapporti tra zone alte e zone medie e basse, tramite le regole e le usanze delle varie forme di mobilità, a cominciare con la transumanza dalla montagna ai piani. Nella misura in cui ciò è dappertutto più o meno constatabile dal punto di vista paesaggistico, e più in particolare dal punto di vista del paesaggio in quanto strutturato e variamente segnato dalle due grandi attività plurimillenarie, la Sardegna interna colpisce per il fenomeno delle grandi estensioni incolte ma che sono pascoli permanenti, dai campi aperti o chiusi da muricce, dagli insediamenti accentrati e dalle grandi estensioni che appaiono vuote e selvagge all’occhio esterno. Un Paesaggio, dunque, primordiale e selvaggio per lo sguardo esterno (oggi soprattutto turistico), ma molto carico di storia e di abitudini operative e appaesanti per gli indigeni e per chi lo sappia leggere. Dal punto di vista della pianificazione paesaggistica, ecco allora alcuni temi, sebbene ovvii e su cui anche qui mi sono altre volte soffermato, che appaiono importanti e preliminari: – che tipo di presenza operativa, e prima di tutto che tipo di attività agropastorale prevedere, promuovere, incentivare e magari recuperare nei grandi spazi a presenza umana debole della montagna oggi ancora prevalentemente pastorale e I grandi campi aperti di pianura e collina? – come comportarsi in pianificazione paesaggistica rispetto alla discontinuità netta tra grandi paesaggi operativi caratterizzati dai saltus disabitati e dai piccoli insediamenti accentrati? Mantenere o ristrutturare questa grande caratteristica storico-antropologica della discontinuità netta tra paese e salto, tra presenza operativa agropastorale debole o nulla (le grandi silenziose solitudini sarde) e presenza insediativa fortemente accentrata? – che fare delle grandi estensioni di pascoli permanenti, o incolti più o meno produttivi (posto che tutti ci poniamo facilmente il problema del che fare dei "boschi", tra l’altro non tutti nelle aree dei supramontes e da definire normativamente su misura sarda, della macchia, dei rimboschimenti e simili)? – che fare delle grandi estensioni dei campi aperti, posto che tutti si pongono facilmente il problema del che fare dei tipici chiusi sardo-mediterranei con muretti a secco?) – che fare, in genere e nei singoli casi, delle zone, quasi sempre costiere (Gallura, Nurra, Sulcis, Sarrabus, Arborea, Fertilia), a insediamento sparso e a volte appoderato che risulta in qualche modo "non caratteristico" rispetto ai grandi paesaggi agropastorali tradizionali e prevalenti? E più in generale, che significa, normativamente, la parola d’ordine del governatore Soru che suona: l’intatto dev’essere lasciato intatto, e dove e quanto possibile dev’essere ripristinato?
Giulio Angioni
TOCCANTE ESPERIENZA VISSUTA IN BOLIVIA DALLA SARDA ELISA CAPPAI
ATTRAVERSO LE ANDE
Siamo stati abituati fin da piccoli a vedere sui telegiornali e sulle riviste i volti tristi e sfigurati dei bambini che vivono in condizioni di povertà,
come delle famiglie che sfuggono dalle carestie o di intere popolazioni che vengono travolte da calamità naturali. Alcuni ci hanno fatto l’abitudine, altri cambiano canale, altri ancora ogni volta restano sconvolti da queste immagini e spegnendo la televisione cercano intorno una soluzione a portata di mano. Altri ancora cercano di bucare lo schermo e di entrare in quella dimensione. Per toccarla con mano e sentire quanto sia reale, quanto ci sia di vero dietro a quelle immagini in cui spesso non c’è posto per l’aspetto altrettanto reale della forza e della pazienza di queste genti. Così tempo fa ho deciso di spegnere il televisore e di vivere quella situazione che a molti sembra lontana, distante, ma che ho riscoperto straordinariamente vicina. Nell’Agosto 2006 ho partecipato con altri otto studenti ad un campo di lavoro internazionale a San Jose’ de Chiquitos, nell’oriente dello stato boliviano. Spinta anche dai miei studi in antropologia culturale e dalla curiosità di immergermi in una nuova dimensione culturale, lontana dalle comodità europee, dalla frenesia occidentale. Con l’associazione italo-boliviana "Donne per la solidarietà" abbiamo collaborato per un mese con le donne impegnate nel progetto di gestione degli orti comunitari nei quartieri del municipio di San Josè, abbiamo assistito alla realizzazione di splendidi prodotti di artigianato tessile, inoltre siamo stati testimoni dei lavori di realizzazione di un pozzo per l’acqua, nonché di una fattoria didattica che diventerà sede di ulteriori progetti di sfruttamento sostenibile delle risorse naturali. Così terminata la prima parte dei miei studi son voluta ritornare in America latina per sei mesi, per un viaggio che mi ha fatto attraversare diverse realtà ma che soprattutto mi ha riportato verso la Bolivia, che questa volta per tre mesi e’ stata la meta del mio impegno sociale. Sono arrivata a San Josè de Chiquitos nel Febbraio 2008, dopo un anno e mezzo dalla mia prima visita, il progetto era in parte cambiato e si era sviluppato in altre direzioni. Gli orti comunitari si sono spostati dalla città alle comunità rurali in mezzo al bosco chiquitano, perché contrariamente a quanto si pensi la Bolivia non e’ tutta Ande, ma ci sono vaste regioni di pianure, tra cui appunto la Chiquitania, ricoperta per buona parte del suo territorio da un vasto bosco che giunge a superare il confine con il Paraguay. Le comunità’ che partecipano al progetto sono cinque, con differenti problemi ed esigenze ma tutte accomunate dalla stessa speranza, di recuperare le risorse naturali e i saperi tradizionali, come appunto la terra o l’artigianato locale, per creare prospettive di sviluppo sostenibile e alternative alla fuga dei giovani verso le città, che offrono opportunità lavorative molto poco dignitose e insicure. Ho dovuto abbandonare gran parte delle abitudini e delle comodità di cui ero circondata nella mia vita in Italia, corrente e acqua sono servizi quasi del tutto inesistenti. Ho passato tre mesi in mezzo alle comunità indigene del bosco chiquitano, in mezzo alla terra e agli orti, ai bambini e alle famiglie che mi hanno aperto la porta della loro casa come se mi conoscessero da sempre, che mi hanno ceduto il loro letto. Ho vissuto con i ritmi della natura, svegliandomi all’alba e riposandomi dopo il tramonto, aspettando che una settimana di pioggia si placasse per tornare al lavoro. Quel lavoro ha per questa gente il valore della sopravvivenza. Le piante di pomodori che sarebbero spuntate o i peperoni che abbiamo raccolto sono una sicurezza per il domani. Sia perché assicurano l’alimentazione alla comunità, sia perché le eccedenze vengono vendute sul mercato generando introiti necessari a creare ulteriori servizi e a venire incontro alle esigenze delle famiglie dei villaggi interessati. Ho pregato a me stessa che tutto quella fatica fatta, tutto quel lavoro con zappa e pala non fosse un modo per lavarmi la coscienza, per sentirmi buona. Perché sapevo benissimo che il mio aiuto era sì necessario, ma non indispensabile. Semmai sono le cose che ho imparato in quei mesi ad essere state per me essenziali. Qual’è il volto della povertà? Ho visto famiglie senza una macchina, senza soldi, senza elettrodomestici in casa, senza vestiti nuovi, ma non erano persone povere. Povero e’ chi non sa valorizzare quello che ha dentro e ciò che ha intorno. Povero e’ chi e’ sfruttato. E chi non sa crearsi l’alternativa, vedere con gli occhi della speranza. Il cuore geografico dell’America latina, la Bolivia, lo sa bene. Nel proseguire il mio viaggio dopo l’esperienza da volontaria ho avuto l’opportunità di attraversare le Ande. Ho visitato la bella e decadente Potosì, la città mineraria sovrastata dalla montagna del Cerro Rico, nelle cui viscere lavorano ogni giorno più di quindicimila minatori, molti dei quali bambini. Le condizioni di lavoro sono indecenti e annullano la concezione di dignità dell’uomo. A qualcuno potrebbero ricordare vecchie foto di inizio Novecento delle miniere della nostra zona. Ma sono cose che accadono adesso, ogni giorno. Quei minatori nel buio della miniera continuano a cercare la luce brillante di un filone d’argento, ma sanno che quella montagna sfruttata da più di cinquecento anni non potrà regalare i suoi gioielli ancora per molto. E non solo sognano, ma lottano perché un domani che sembra terribilmente vicino i loro figli possano avere l’opportunità di scegliere un’altra strada. Al mio ritorno ho cercato di comunicare ciò che ho appreso alle persone che mi circondano, senza la presunzione di avere in mano la verità o di essermi comportata da eroe. Ho cercato di comunicare alla gente che la povertà del sud del mondo è il riflesso dei nostri comportamenti quotidiani, che l’impegno deve andare oltre la beneficenza. Magari spegnendo quella televisione e ragionando sulla fortuna che abbiamo nel ritrovarci di fronte ad una tavola imbandita o su quanto siano realmente necessari i consumi che facciamo. Ma soprattutto apprezzando quello che abbiamo davanti ai nostri occhi, la nostra terra. Apprendendo nuovamente a sfruttare le sue risorse come facevano i nostri nonni, a creare sviluppo con il rispetto dell’ambiente. Noi sardi non dobbiamo dimenticarlo. Altrimenti a passi sempre più rapidi ci avvicineremo davvero a conoscere il vero volto della povertà.
Elisa Cappai
TRA I DESAPARECIDOS IN ARGENTINA ANCHE MOLTI SARDI
LA DRAMMATICA TESTIMONIANZA DI ENRICO CALAMAI
"Niente asilo politico" potrebbe essere piuttosto considerato, a pieno titolo, una testimonianza in prima persona di uno degli eventi più sanguinari che hanno sporcato la fine del secondo millennio: vale a dire il periodo di feroce dittatura che ha insanguinato l’Argentina durante la metà degli anni 70. Scritto con passione e trasporto da Enrico Calamai, che all’epoca dei fatti era un giovane diplomatico inviato dal governo italiano ad assumere la carica di vice console all’ambasciata durante quegli anni di terrore, racconta una vicenda di coraggio fuori dal comune di un uomo che si ribella e tenta con le proprie forze di arginare, l’orrore del quale è testimone, tentando di usare con destrezza e grande umanità la posizione di privilegio che era andato ad assumere. Mentre l’Argentina era teatro di atroci bru
talità che passavano inosservate, l’autore del libro divenne una sorta di eroe per tutti coloro che chiedevano disperatamente il suo aiuto per tentare di sfuggire alla persecuzione, aiuto che lui non rifiutò mai, rischiando spesso la propria posizione e la propria vita nel tentativo di farsi vidimare i permessi di rimpatrio degli italiani e non, emigrati in Argentina ed a rischio di scomparire per sempre dalla faccia della terra. Sorte, questa, che toccò anche ai sardi emigrati in Argentina per sfuggire alla miseria e alla disoccupazione. Ricordiamo, tra tanti mai più tornati né mai più ritrovati, Martino Mastinu e Mario Bonarino Marras di Tresnuraghes, massacrati assieme agli altri 30mila desaparecidos. Calamai contravveniva a leggi, regolamenti e convenzioni per salvare alcune centinaia di persone nascoste in casa propria, fornendo loro documenti falsi per apparire turisti italiani e un passaggio in nave o in aereo con destinazione Roma. Calamai era convinto che quello fosse il modo migliore anche per servire il proprio paese; non il governo, che come molti altri all’interno del mondo occidentale si rese complice dei militari argentini. In 7 anni dal 1976 al 1983, 30mila persone vennero uccise o furono fatte scomparire nei centri di tortura argentini o con i voli della morte. "Contrariamente al Cile di Pinochet" osserva Calamai, "gli orrori della dittatura argentina furono una sorta di delitto perfetto, perché privo del tutto di visibilità. Mentre la vita a Buenos Aires e nel resto del paese proseguiva in un’apparente normalità, i governi imbrigliati negli schemi della Guerra Fredda, fingevano di non sapere qual’era la sorte della gente dispersa". Rientrato in Italia, Calamai è stato chiamato in anni recenti a testimoniare nel processo che ha portato alla condanna di 8 militari argentini. Desaparecidos, questo l’appellativo tristemente famoso, e si trattava per lo più di giovani animati dalla volontà di ribellarsi al regime instaurato dopo la caduta di Peron. Anche l’Italia in quei tempi ebbe la propria parte di colpe, sia politiche che mediatiche. La stessa Rai, evitava accuratamente di mandare in onda i servizi sulle barbare uccisioni perpetrate dai militari. A Buenos Aires vigeva una vera e propria congiura del silenzio. Nel 1978 l’Argentina vinceva i Campionati Mondiali di calcio e mostrava una nazione apparentemente tranquilla e pacifica, la realtà quotidiana parlava di rapimenti, retate ed esecuzioni. Un libro importante e impegnativo con l’intento di non far dimenticare quanto accadde in quegli anni oscuri.
Giovanni Fiabane
VOGLIONO CAMBIARE IL NOME AL GOLFO DI ORISTANO
I FENICIOMANI ALL’ATTACCO
Avete presente quel golfo che all’altezza di Oristano si apre verso la Spagna? Da lì, cinquemila anni fa partivano i battelli dei commercianti sardi di ossidiana del Monte Arci, poi intorno al XIV secolo partirono e approdarono le navi dei shardana. Di quel mare si servirono i costruttori dei nuraghi del Sinis che, intorno al 1000 avanti Cristo scolpirono le grandi statue di Monti Prama. Molti secoli dopo, ai tempi del Regno di Arborea, lo attraversarono i battelli dei Giudici per le loro missioni diplomatiche in Europa. Nel frattempo quel mare fu attraversato dai sardi che andavano in Etruria e degli etruschi che venivano a commerciare. Un golfo sardo, insomma, come fu sempre conosciuto. Sapete come lo vogliono ribattezzare? "Golfo dei Fenici". E non sono poi così sicuro che quel nome sia solo una idea pubblicitaria di quegli archeologi (il canonico Spanu non avrebbe esitato a chiamarli feniciomani) che da tempo si battono per la costituzione del "Parco archeologico del Golfo dei Fenici". Temo che finirà come per Monti di Mola, l’antico e bel nome di quel che oggi è "Costa Smeralda", come una classe dirigente insulsa (e un po’ bottegaia) consentì si ribattezzate un pezzo di terra sarda. Mi sono sempre chiesto se "Monti di Mola", sponsorizzato da una potenza finanziaria come quella dell’Aga Khan, sarebbe stato un nome meno di richiamo. Insomma, chi sa se il nome Golfo di Oristano non lascerà posto nelle carte future a quello di "Golfo dei Fenici". Solo in Sardegna penso si può permettere, senza che ci sia alcuna costrizione geo-politica, che una civiltà di antichi conquistatori (grande civiltà, senza dubbio) faccia quel che non ebbe in mente di fare all’epoca del dominio: cambiare il nome di una intera regione geografica. Avrà, su questa violenza, una qualche influenza il fatto che a proporre e a dirigere questa operazione sono alcuni fra i maggiori studiosi di fenicerie? O è solo una malignità? Non parlo, per carità di patria, degli amministratori che questa violenza hanno accettato con grande gioia. Voi, certamente, siate convinti che il crinale che divide le epoche sia la nascita di Gesù Cristo: si dice infatti che la tal cosa è successa in un certo anno avanti Cristo o dopo Cristo. E nel resto del mondo così è. Qui da noi c’è chi propone un diverso crinale: "Tra i 14 pezzi anche un magnifico arciere del periodo prefenicio" titola La Nuova Sardegna la notizia della restituzione del bronzetto trafugato e ritrovato nel Museo di Cleveland. A Sant’Antioco, dunque, secondo quel titolista (non il cronista) le ere sono o avanti o dopo i Fenici. E sì che nel testo dell’articolo si riferisce della reazione del sindaco della cittadina al ritrovamento dell’arciere nuragico, simile a quello che si deve più sopra e trovato a Teti. Dice Mario Corongiu: "Mi piace sottolineare che questo bronzetto è di eccezionale bellezza e ricorda che il nostro patrimonio culturale risale anche a prima dell’arrivo dei fenici nel nostro territorio e che nella nostra isola ci sono e sono davvero tanti, i segni della presenza dei nuragici. Basti ricordare che la densità di nuraghi nel nostro territorio è fra le più alte, se non la più alta, dell’intera Sardegna. Forse vorrà dire qualcosa". Già, ma che cosa? Forse che sarebbe l’ora di ridurre alla ragione i tanti baronetti dell’archeologia sarda che, sol perché studiosi della civiltà fenicia, ritengono che tutto il prima non vale nulla? O forse che la Regione sarda debba finalmente intervenire con forza per indurre la Soprintendenza e i suoi feniciomani a considerare la grande civiltà fenicia solo una delle civiltà che su questa terra si sono sviluppate, prima fra tutte – se non altro per anzianità – quella nuragica?Non vorrei che, in preda ad un delirio di feniciomania, a qualcuno venisse in mente di ribattezzare S. Antioco come Phoinix o altro nome fenicio.
Gianfranco Pintore
Personalmente non ritengo troppo appropriato il titolo, perchè non mi sembre proprio una resa.
Bravo Max. Grazie. Un indice come questo è quantomai utile nel mare magnum delle informazioni che arrivano. Si rischia di mancare le notizie veramente interessanti. Ciao