Sino al 16 novembre, Pinuccio Sciola in mostra ad Assisi

di Gianluigi Colin *

 

Sotto la Basilica di San Francesco una ragazza si muove lentamente tra le grandi pietre e le piante di ulivo che avvolgono la piazza più sacra di Assisi. Cammina incredula, quasi a cercare il perché di quella immensa incursione di pietre come una colata lavica. Poi, improvvisamente, chiede al primo che incontra: «Che cosa sono queste pietre? E questa fessura, chissà come hanno fatto a inserire questa roccia nell’altra. È incredibile, c’è qualcosa di magico». Sciola ascolta divertito e risponde: «Sono dei semi, i semi della pace». E poi, sottovoce: «Un giorno ho fatto vedere a un gruppo di bambini delle pietre come queste, ma piccole, le tenevo in mano. Ho chiesto: che cosa si può fare con questi semi? E loro: bisogna piantarli, così crescono le montagne. Così li ho piantati qui, ad Assisi». Pinuccio Sciola è abituato a tutto questo, all’incontro spontaneo con le persone, a parlare con semplicità e leggere lo stupore nel volto degli altri, soprattutto se viene scambiato per un passante e non per l’autore di quelle opere così sorprendenti, visibili nella piazza inferiore della basilica di Assisi sino al 16 novembre. Già, perché a lui (classe 1942, piccolo grande leone della scultura italiana, grandi occhi azzurri e mani possenti) proprio l’abito e la parte dell’artista non vanno giù. Anzi, gli sono proprio estranei. Appare più come un francescano senza saio, un seminatore di pace che usa l’arte come parola, anche spirituale. Ma Sciola è uno scultore vero, un uomo vero, che non si maschera. Nel panorama italiano è un caso, se non unico, certamente particolare. Non entrerà mai nella lista stilata da ArtReview sui personaggi più influenti dell’arte, è l’opposto di Damien Hirst e dell’arte come multinazionale. Piuttosto, fa parte di quella categoria di artisti che pur esponendo in prestigiose sedi internazionali, scelgono di vivere nella marginalità, in una difficile e invisibile linea di confine, che ha la forma del piccolo paese che lo ha visto nascere, San Sperate, a una manciata di chilometri da Cagliari. Nella sua casa, che è un infinito via vai di amici, visitatori, critici, si muove sempre a piedi nudi, accoglie tutti con un pezzo di pecorino e un buon bicchiere di vino. Poi, via a parlare o a incantare con la musica delle sue sculture, quelle «pietre sonore» che lo hanno reso celebre. Poche carezze sulla pietra e un suono inaspettato avvolge lo spazio: un suono liquido se la pietra è calcarea. Quasi un crepitio del fuoco se si tratta di basalto. «Ho sconfitto l’idea della pietra muta – ripete sorridendo -. Faccio emergere la memoria della materia, l’acqua e il fuoco: tiro fuori le nostre origini primordiali». Pochi artisti hanno un legame con la terra come questo scultore ingannevolmente semplice che parla di sassi citando Rimbaud: «Se ho fame è solo di terra e di pietra. Mi nutro d’aria, di roccia e di fango». Ma tutto questo non stupisce. Basta essere stati una volta nel suo «orto», un prato dove raccoglie le sculture monumentali per capire come ogni suo comportamento abbia qualcosa di antico e poetico. Basta andarci al tramonto, basta un fuoco acceso che illumina le sue pietre. Basta appoggiare l’orecchio a quelle sculture tagliate da linee verticali come corde di uno strumento musicale. Già, Sciola è uno di quelli che ti stupisce, sempre. Uno di quelli per cui non conta la linea della vita incisa nella mano. È uno di quelli che la linea la cambia con un taglio di coltello: figlio di contadino, sette fratelli, una sorella, un destino segnato. Invece, da bambino, nelle pause del lavoro nei campi, disegna, intaglia il legno, modella il fango. E il destino ha il volto e il nome di una maestra elementare, Luisa Gonzalez che lo scopre e lo protegge. La sua vita imbocca una strada diversa, ottiene delle borse di studio, comincia a studiare a Cagliari e poi a Firenze. Determinazione, carattere, sacrificio: inizia la scoperta del mondo. Va all’accademia di Salisburgo dove conosce Kokoschka, Manzù, Vedova, Moore. Ma non gli basta: prima Spagna, poi Parigi (è lì nel maggio del ’68), nel ’73 incontra Siqueiros a Città del Messico con cui lavora. Comincia da qui la trasformazione della sua San Sperate in un «Paese Museo » avvolto di murales fatti da artisti internazionali e da bambini e dove ogni anno prendono vita mostre, concerti, incontri. E poi, sempre, la scultura, con la scoperta delle sue «pietre sonore»: essenziali, stupefacenti e magiche, tanto da affascinare, tra gli altri, anche Renzo Piano che vuole una sua grande opera all’Auditorium di Roma. «In uno dei tanti miti della creazione, dai sassi antichi crescono giganti. Sciola, scalda nella terra i semi di una foresta pietrificata. Segni di una grande arte» sottolinea lo storico dell’arte Arturo Carlo Quintavalle, che ad Assisi ha presentato il lavoro dello scultore. Certo, c’è un vero fil rouge che prevale in tutta la sua opera: l’arte come necessità di riflessione sulla natura, sui valori della nostra esistenza, sulla primavera della speranza. Arte come etica. E anche per questo, Sciola è un artista raro. Un vento caldo accarezza l’enorme distesa di pietre vulcaniche appena bagnate da un amico. L’acqua le rende luminose, quasi pulsanti sotto la luce tersa e restituisce a questa mostra all’aperto il suo senso di un momento straordinario e irripetibile. Come ricorda Gillo Dorfles, «Le pietre di Sciola hanno il potere di suscitare l’equivalente di un evento sacro». Ed è così davvero, soprattutto in questo luogo pieno di valori simbolici, di storia e spiritualità dove il tempo appare sospeso in una cornice mistica e quasi metafisica. Sciola si siede su una delle sue pietre. È stremato ma con una energia ancora incontenibile: «I problemi non sono quelli delle banche ma della pace. Siamo circondati da violenza, intolleranza, rifiuto dell’altro, in un mondo dove incombe costante la paura e un senso di morte. L’artista propone utopie. Vive di utopie. E cerca di lasciare delle tracce, tracce per pensare. Se ho una missione, questa è la mia missione».

*Corriere della Sera

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2 commenti

  1. Maria Pia (Aosta)

    no.. non ci credo… non ci credo… Valeria, mia cugina Monica… i ragazzi di Gonnos e di Occhieppo… la pianta di zio Efisio, il poeta! NON CI CREDO!!! Allora tu sei quel Massimiliano di Milano, il cugino di Alberto Mura? INCREDIBILE (scoppio a ridere)… c’era anch’io in quelle estati a Torre! vi ricordate? la casa prima della spiaggia, vicino al pozzo… Alberto come sta? Ragazzi son passati vent’anni!!! Come è piccolo il mondo… Io mi sono sposata e ho un bimbo… Monica anche… Mamma mia.. che tempi quelli.. mi mancano da morire.. non sapevo il tuo cognome Massimiliano.. ma leggo il Messaggero Sardo e adesso ho fatto qualche ricerca in internet.. ti dai da fare eh? Come facciamo noi figli di sardi a non amare la Sardegna con i ricordi stupendi che abbiamo? Vi abbraccio tutti!

  2. Max (...Milano)

    .. sembra proprio una riedizione di “sapore di mare”.. o una sorta di Carramba che sorpresa! Valeria segue da tempo le mie “attività”.. ma gli altri.. beh, una grandissima sorpresa! Utilizziamo questo strumento per mantenere il contatto, ok? Alberto sta bene.. vive a Terralba, sposato cuìon 2 figli! Quando torno in quei luoghi.. cerco sempre di andare alla pianta di zio Efisio (il nostro rifugio).. è sono sensazioni meravigliose legate all’adolescenza che non c’è più! Bei ricordi davvero! Recentemente ci ho portato anche Valentina, la ragazza che cura il blog con me e che il 2 maggio 2009 diverrà mia moglie.. Così vi aggiorno anche sulla mia vita… Saluti a tutti

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