di Sergio Portas
Anche il centro culturale sardo di Milano si fa carico di mettere in campo una iniziativa nella "giornata della memoria". E in collaborazione con "Disterru Onlus" e il centro di documentazione delle culture migranti di Asuni presenta, tramite Piero Ausonio Bianco, coordinatore del centro oristanese, e Nello Rubattu che è giornalista e scrive pure dei libri (l’ultimo:"Hanno morto a Vinnèpaitutti, il Maestrale 2006), il libro "Gli anni sospesi" di Giuseppe Porcu, Angelica editore. Che narra la storia della vita un emigrato sardo in Belgio. L’idea di Rubattu è che moltissime siano le storie dei nostri emigrati che hanno la dignità di essere conosciute, e quindi scritte. Figuratevi se posso trovare stravagante questo suo modo di pensare, visto che sono quattro anni che non faccio altro, grazie allo spazio concessomi dalla "Gazzetta"che leggete. Anzi io vado teorizzando da sempre che la vita di ognuno di noi è abbastanza "strana", unica, particolare, buffa e drammatica, da meritare che qualcuno la metta in prosa. E il fenomeno dei blog nella rete di internet ne è la prova provata. Certo questa di Giuseppe Porcu che comincia a Dolianova nel 1920 e continua in Belgio, a Genk, dopo aver fatto tappa, fra le altre, nel campo di concentramento di Dachau, si fa davvero leggere con crescente curiosità, confortati anche dalla consapevolezza che il nostro eroe è riuscito a cavarsela anche nell’inferno del campo di sterminio. Non molto fortunato anche da piccolo Giuseppe quando, orfano di padre, sua madre si risposa, e il patrigno diciamo che a lui non si affeziona. Allora se ne va a vivere dai nonni a Ghilarza, coprendo in bicicletta i 120 chilometri che lo separavano da Dolianova, su quelle belle strade sarde dei primi del novecento. Per combinazione i nonni abitavano in quella che era stata la casa di Antonio Gramsci. Né Giuseppe aveva la minima idea di chi fosse costui, naturalmente. Ne udì parlare solo quando lo chiamarono alla leva militare e finì a Torino, dove nel giro dei compaesani erano alcuni antifascisti che non volevano saperne di doversi accontentare di un partito unico ( e del Cavaliere che lo guidava). Ma mal gliene incolse che detto partito aveva occhi e orecchi dappertutto e lo spedì in una caserma di punizione, a difendere i sacri confini della patria. Cosa che però gli permise di varcarli, tra neve alta un metro e mezzo e reticolati vari, e di capitare in Francia, giusto prima che scoppiasse quell’orrore che è stata la seconda guerra mondiale. Che lui iniziò arruolandosi nella Legione Straniera, continuò per un anno e mezzo in nord Africa e poi, ammalatosi e congedato, finì nuovamente in Francia, nella parte che i tedeschi non avevano occupato. Ma i francesi collaborazionisti di Vichy lo trovarono a trafficare con la resistenza partigiana e lo rispedirono nell’Italia di Mussolini. Era disertore, in tempo di guerra. Come sia scampato alla fucilazione, dopo essersi fatto il giro delle carceri italiane (a botte), è un’altra storia che meriterebbe da sola un altro libro. Fatto sta che, dal carcere di Peschiera del Garda, in quella che era tragicamente diventata la repubblica di Salò, presidente il Cavalier Benito Mussolini che era stato tradito dai suoi, imprigionato al Gran Sasso e liberato dai tedeschi. Il re d’Italia e il suo nuovo primo ministro Badoglio avevano intanto cambiato alleanze: stavano coi vincenti che risalivano la penisola. I traditori dell’italianità che si trovavano in galera, come Giuseppe Porcu, furono spediti in Germania, nei "campi di lavoro" che, come si leggeva entrando in quello di Dachau: rende liberi. Di per sé. Come i tedeschi trattassero i "traditori italiani" è facile immaginare. Quel popolo accecato da un regime che aveva nel suo originario programma una visione razzista del suo essere nazione , che aveva fatto la sua fortuna politica con una piattaforma che dichiaratamente parlava del "problema ebraico" come quello che avrebbe dovuto trovare una "soluzione finale", stava drammaticamente perdendo una guerra che aveva già fatto milioni di morti. Nonostante ciò milioni erano ancora i prigionieri di guerra che arrivavano in Germania dall’Europa tutta, veri e propri schiavi da mettere a lavorare per l’industria bellica che, grazie a quella mano d’opera che si sostentava ( si fa per dire) con un piatto di brodaglia e due pezzi di pane al giorno, girava ancora a pieno regime, anzi non aveva ancora raggiunto il culmine di produttività assoluto. Per chi non ce la faceva a tenere i ritmi di lavoro, c’erano i forni crematori. Che per gli ebrei, di ogni genere ed età, divennero parte integrante di quella soluzione finale, che già il giovane Hitler aveva preconizzato nel "Mein Kampf". Spiace che uno dei vescovi di Santa Romana Chiesa rientrati da poco dallo scisma di lefevriana memoria sia scettico rispetto a numero dei morti passati per il camino dei forni, visto il numero di pubblicazioni accademiche, le testimonianze dirette, i documenti ritrovati nei campi di sterminio. Insomma di questo pastore della Chiesa cattolica rientrato nel gregge da poco non si sentiva davvero la mancanza. Giuseppe Porcu potrebbe spedirgli il suo libretto, magari con autografo. Del resto lui non porta rancore a nessuno, né ai tedeschi che gli hanno fatto passare l’inferno, né agli italiani che ce lo hanno mandato. Pesava 29 chili quando è stato liberato, degli internati italiani non si interessava nessuno, essendo la patria in tutt’altre faccende affaccendata. Meno male che i francesi si ricordarono che aveva combattuto per loro nella legione. Un suo amico francese di Dachau divenne ministro con De Gaulle, ma a Giuseppe non passò neanche per la testa di andargli a ricordare i loro trascorsi nel campo di sterminio. Tornò invece a Carbonia dove si mise a lavorare nelle miniere e poi in Belgio, sempre minatore di carbone. Si sposò e fece sette figli. Che fece studiare, come usa nei sardi della diaspora. Nello Rubattu, che lo ha intervistato e gli fatto "l’editing" , insomma gli messo in italiano il libro, dice che a sentire lui non si considera se non una persona normale, e che la sua famiglia è stata di gran lunga la cosa più significativa della sua vita. Porcu non solo non prova odio per i tedeschi ma da subito, a Dachau liberata, si è battuto perché i suoi aguzzini avessero tutti un regolare processo. Sono le storie come queste che il museo di Asuni vuole catalogare perché rimangano nella memoria della Sardegna tutta. Perché, dice Piero Bianco, il fenomeno emigrazione è complesso. Lui sta a Torino e fa il sociologo e tra le altre singolarità dell’emigrazione ha appreso che tra i barboni torinesi parecchi sono i sardi. Che però si differenziano dagli altri per un concetto tutto loro di dignità, assai singolare. Anche quelli emigrati in Belgio negli anni ’50 erano tosti. Allora nei campi verdi i belgi usavano far pascolare, liberamente, bianche pecorelle. Che morivano di vecchiaia. La cosa dovette stupire parecchio i nostri connazionali che riuscirono a farsene regalare parecchie. Per amore degli animali dicevano. Triste il giorno che i belgi ebbero a scoprire quanto gustoso possa essere l’agnellino al forno. Adesso lo mangiano anche loro sen
za sensi di colpa. Potenza dell’emigrazione capace di scompigliare tutte le culture!