STORIA DEL COLONIALISMO ITALIANO: VALERIA DEPLANO E ALESSANDRO PES, DOCENTI DELL’UNIVERSITA’ DI CAGLIARI

Sardinia colonia, un mantra che si giustifica con la ripetizione, come una “bandierina di preghiera” tibetana che il vento himalaiano scuote perennemente aumentandone a dismisura, secondo l’intenzione dei devoti, l’intensità della supplica. Ma se davvero vogliamo dare uno sguardo a quello che è stato il colonialismo italiano, la Sardegna non c’è, almeno in quanto “colonia classica”, essendo stata inglobata nel regno sabaudo in epoche storiche precedenti e quindi, paradossalmente, segue casa Savoia nel partecipare al processo di colonizzazione, prima liberale, poi fascista, delle terre africane, prima in Eritrea e Somalia, poi in Libia e infine in Etiopia. Nel processo di decolonizzazione, quali perdenti della seconda guerra mondiale, è implicata ovviamente l’Italia repubblicana. E, badate bene, continua ad esserne implicata, che questi fenomeni che hanno avuto luogo pur in epoche passate hanno tuttavia contribuito da par loro a formare il carattere, le convinzioni, i racconti storici degli italiani tutti. Lo spiega bene un libro appena uscito per Carocci editore, che due professori di Storia contemporanea all’Università degli Studi di Cagliari, Valeria Deplano e Alessandro Pes, hanno dato alle stampe: “Storia del colonialismo italiano. Politica, cultura e memoria dall’età liberale ai giorni nostri”. E a questo proposito faccio mio l’attacco dell’articolo che ha scritto Luca Peretti su il “Manifesto” del 18 aprile scorso: “Un libro atteso, necessario, e destinato a diventare un punto di riferimento…”. Perché innanzitutto si sforza di far emergere quanto storicamente infondati siano tutta una serie di luoghi comuni che fanno parte del sentire di ognuno di noi, primo fra tutti quell’essere gli italiani, in fondo, della “brava gente”, incapaci dunque di mettere in atto tutte le atrocità, le ingiustizie, le carcerazioni di civili innocenti, insomma le barbarie che hanno caratterizzato lo spiegarsi dei colonialismi occidentali, segnatamente di Inghilterra e Francia, sino agli anni sessanta del novecento scorso. Gli è che per essere “nazione che conta” in Europa e quindi nel mondo tu (le tue classi dirigenti) dovevi ambire a possedere colonie. Punto. Quindi, nel bilancio di “uno stato che si rispetti”, si dovevano destinare all’impresa coloniale soldi e risorse notevoli, a scapito ovviamente di scuole, ospedali, infrastrutture tutte, in primis una rete ferroviaria decente, tutte cose a cui lo stato italiano appena seppur parzialmente unificato avrebbe dovuto dedicarsi con solerzia, eppure l’acquisto della baia di Assab da parte del gruppo Sapeto, da cui si svilupperà poi l’espansione italiana nel Corno d’Africa, data 1869. I bersaglieri di La Marmora entreranno a Porta Pia per “liberare” Roma solo l’anno dopo. E praticamente da subito, vie e piazze d’Italia tutta iniziarono ad essere intitolate ai “valorosi dell’esercito italiano” caduti in battaglia nel tentativo di conquistare territori in cui, ahimè, già esistevano potenze in grado di metter in campo un esercito che sarebbe stato schierato a sbarrare la strada agli invasori stranieri, noi. La piazza antistante la stazione Termini di Roma venne ribattezzata “dei Cinquecento”, in onore dei caduti di Dogali (gennaio 1887) e al centro di essa c’è tutt’ora un obelisco commemorativo dello scontro: Ras Aula, fedelissimo del Negus Neghesti (Re dei Re) Giovanni IV d’Etiopia, forte di 7000 abissini, sterminò la colonna formata da 548 soldati comandata dal tenente colonnello De Cristoforis. E solo nove anni dopo furono l’Amba Alagi, Macallè e la fatale Adua ( e l’esercito etiope guidato da Menelik II) a decretare la caduta del governo Crispi  e la “perdita della faccia” di fronte alle maggiori potenze europee. L’Italia tornerà in Africa con Giolitti nel 1912 nella cosiddetta “guerra di Libia”, in realtà un esteso territorio, allora sotto sovranità egiziana, composto da tre grandi regioni con caratteristiche culturali e storiche ben differenti: Cirenaica, Tripolitania e Fezzan. Non a caso la “Libia” odierna, uno stato fallito, si sta ricompattando intorno a queste storiche differenze. Poi toccherà a Mussolini vendicare le sconfitte etiopi e fondare l’impero: Badoglio entra con l’esercito ad Addis Abeba nel maggio del 1936 e il Negus Haile Selassie si rifugia a Parigi. Nasceva l’Africa Orientale Italiana (Libia, Eritrea e Somalia): durerà poco, tutto si sfascerà ad El Alamein. Nonostante  l’Africa Corps di Rommel fosse al nostro fianco. Al di là delle modalità con cui si formò l’AOI: guerre prima perse poi vinte, sterminio e deportazione di popoli (ribelli), creazione di campi di concentramento dove la gente internata moriva di fame e di stenti a decine di migliaia, uso di gas asfissianti in spregio alle convenzioni internazionali che li vietavano, massacri di preti  innocenti, a migliaia, razzie di bestiame e incendi, la colonizzazione italiana fu “diversa” da quella degli altri paesi, che usarono perlopiù metodi di annessione analoghi. I tedeschi (regnanti Kaiser Guglielmo e governante il Bismark) si distinsero per ferocia contro le popolazioni Herero nell’attuale Namibia. Fu sterminio di tipo genocida, con medici tedeschi che iniettarono tetano e altri agenti patogeni ai disgraziati dei “campi” per “sperimentare”; le grandi uccisioni industriali di Auschwitz erano ancora al di là da venire ma l’idea di segregare le persone “inferiori” e di ucciderle nel più breve tempo possibile nacque forse in quel periodo (1907) e purtroppo si incistò ed ebbe modo di rifiorire nella mentalità di alcuni tedeschi (nazisti). Nel 2015 Angela Merkel e nel 2017 il Parlamento tedesco hanno riconosciuto ufficialmente che lo sterminio perpetuato dall’esercito del Kaiser si può definire con il termine di genocidio. E, bontà loro, hanno chiesto scusa. Noi italiani ( fascisti) a Debra Libanos , un villaggio sacro per il culto cristiano copto etiope, due grandi chiese in muratura risalente al XIII secolo, un migliaio di tucul abitati da monaci, preti, diaconi, studenti di teologia, suore e un centinaio di tombe di illustri capi abissini, fucilammo circa 2000 persone. Ree, secondo il generale Graziani, di dare copertura alla resistenza etiope. Mai, ha scritto lo storico Del Boca, nella storia dell’Africa una comunità religiosa  aveva subito uno sterminio di tali proporzioni.  Come che sia in Africa orientale l’Italia mandò anche molti dei suoi figli più poveri, a coltivare terre che “sarebbero state se no preda del deserto”. In realtà, come è ovvio, a occupare le terre che i contadini del posto coltivavano da sempre. Con tutte le conseguenze che ne potevano nascere da una situazione in cui era chiaro chi fosse “il padrone” e chi “il servo”. Che naturalmente la legge coloniale non poteva certo essere “uguale per tutti”. Nè i servi dovevano osare di mischiarsi coi padroni. Ma capirete bene che la “nota propensione alla lascivia” delle donne africane non poteva che minare la ferrea volontà del colono italiano a praticare un regime di castità. Nacquero, come è ovvio e nonostante i divieti di legge, molti figli di relazioni miste. Il noto giornalista italiano Indro Montanelli allora venticinquenne, si “comprò” in sposa una bambina di dodici anni! E mai si pentì di tanto matrimonio. Non a caso la statua eretta in sua memoria, ora nei giardini milanesi di porta Venezia, viene imbrattata una sera sì e una no da vernice rosa. “Madamato” era chiamato questo singolare contratto matrimoniale, scrivono a pag.92 Deplano e Pes: “ le donne non erano tutelate in alcun modo, e capitava di frequente che la cessazione del rapporto coincidesse con la semplice scomparsa dell’uomo italiano, senza che questo provvedesse alcun sostegno economico. Ancora meno erano tutelati i figli di quelle unioni: la maggior parte degli italoafricani non fu riconosciuta…”. Molte pagine del libro si soffermano sui tentativi fatti dai vari governi, liberali prima, fascisti poi, per accreditare nella stampa e nei libri di testo delle scuole una narrazione edulcorata di quale fosse la vita nelle colonie. Il fine primario comunque era quello di una vera e propria “costruzione della nazione”, che veniva cementata dalla potenza del paese che veniva accresciuta dall’occupazione di terre coloniali. I territori dell’AOI erano grandi sette volte la cosiddetta madrepatria. La Libia fu il primo laboratorio coloniale fascista. “Il piano di creare in Libia comprensori agricoli in cui far lavorare contadini italiani era funzionale al progetto ruralista del regime che, non senza contraddizioni, presentava la vita di campagna come quella in cui si sarebbe rivelato il carattere dell’”uomo nuovo” (pag.96). Un intero capitolo si intitola: “Resistenza e repressione nel Corno d’Africa”.  Si dilunga sulla difficoltà di controllare veramente il vastissimo territorio occupato. Che in realtà non fu mai veramente “pacificato”.  Eppure la repubblica appena nata dalla guerra non si rassegnò del tutto alla “perdita delle colonie”. Venne messa in opera una vulgata, che pure funzionò, di un periodo “buono” e liberale e di uno “cattivo” e fascista. Per cui De Gasperi riuscì ad ottenere per l’Italia un protettorato che sarebbe durato dieci anni su quella che era stata la Somalia italiana e britannica. E ancora oggi siamo preda di quella vulgata, che è passata nel sentire comune degli italiani. E i rimpatri degli italiani dalle colonie? “Invisibili. Gli ex sudditi coloniali e la Repubblica”: tutto un capitolo. Persino gli ascari, a migliaia, che avevano combattuto nell’esercito italiano, parlavano italiano e si sentivano italiani a tutti gli effetti, vennero tutti ( o quasi) rimandati forzosamente nei “loro paesi”. Sorella Giorgia deve aver preso appunti. E poi ci sono gli ultimi coloni, quelli che rimasero nonostante tutto in Libia, molti di loro erano del resto nati lì. Quelli ce li ha rimandati, verrebbe da scrivere a casa, ma non era veramente casa loro, il colonnello Gheddafi, subito dopo il colpo di stato con cui cacciò il re Idris e si impossessò del paese. “Attorno ai segni del colonialismo oggi si sta combattendo una battaglia che non ha lo spazio pubblico come posta in palio, ma l’dea di società a cui dare forma nel presente per il futuro prossimo” pag.180.  Un memento questo anche per i coloni israeliani, che pure in Cisgiordania combattono una loro feroce battaglia colonialista contro i palestinesi, andando così a schierarsi nel segmento perdente della storia umana.

Aggiungi ai preferiti : Permalink.

6 commenti

  1. Antonio Appeddu

    Il colonialismo in Sardegna o in Africa?

  2. Valeria Deplano

    Grazie per la bella recensione!

    • Tore Amos Pirino

      In cauda venenum… Che caspita c’entrano i ‘coloni’ israeliani con i coloni italiani, sta tutto nel cervello di chi ha scritto questa recensione. Malgrado questo strafalcione, comprerò il libro

  3. Francesco Casula

    Antonio Appeddu questo è il punto, Antonio!

  4. Gianfranco Mura

    Già…si dovrebbe affrontare la piaga del colonialismo moderno contemporaneo…e di questa piaga che il popolo sardo ne subisce le conseguenze giorno per giorno … inoltre mi chiedo dov’è finita la favola dell’autodeterminazione dei popoli??? Mi sembra che un popolo in questi giorni abbia urlato a gran voce per difendere il suo territorio dalla speculazione… è stato ascoltato??? Parlate di questo… è attualità…e non storia

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *