IL CARNEVALE SARDO IN CONTINENTE: QUANDO LE MASCHERE VISTE A PESCHIERA BORROMEO, CINISELLO BALSAMO E VIMODRONE, PERDONO DI AUTENTICITA’

Tocca pensare ad un’assenza quando si assiste al “carnevale d’importazione” che i circoli sardi del continente si ostinano a rinnovare anno per anno, specie qui in terra di Ambrogio che, narra la leggenda, essendo fuori di Milano in tempi in cui era il cavallo che ti dava la dimensione del ritardo, pretese che le festività del carnevale fossero rimandate di qualche giorno, dandogli il tempo di essere presente anche lui, per questo le paste in Lombardia sono sempre “pasticcini”, è perché nel resto della penisola è già tempo di quaresima , da qui il tentativo di festeggiare sì, ma con ipocrita moderazione. Da qui la possibilità di “ingaggiare “ maschere sarde che il carnevale se lo sono lasciato alle spalle, a Mamoiada, a Orune, a Orotelli, in terra di Barbagia. Non si tratta ovviamente di riproporre un “bis” di uno spettacolo, nessuno si illude di poter leggere lo “spirito” del rito che si sa è morto ieri e (forse) risorgerà il prossimo anno, più semplicemente è un assistere a una manifestazione di folclore sardo. Che comunque fa bagnare il ciglio a più di un connazionale, magari emigrato da più di cinquant’anni, che lui sì sa cosa era il carnevale, lui bambino. Le maschere sarde a Peschiera Borromeo, Cinisello Balsamo, a Vimodrone perdono di autenticità, degradano, si fanno ostentatamente “spettacolo per turisti”, parafrasando Bachisio Bandinu (“La Maschera, la Donna, Lo Specchio, Spirali edizioni 2004): “…il volto solare del turismo s’imbatte nella sembianza straziante della maschera etnologica…la piazza, la via, sono luoghi della chiacchiera, dove il discorso si fa intrattenimento. La maschera è invece insensata e non introduce ad alcuna fruizione. La piazza, la via vorrebbero trasformarsi in percorsi della follia. Quasi all’improvviso e per una sorta di miracolo. Impossibile, che le maschere muggiscono, picchiano, aggrediscono”. E ancora: “Le maschere della Sardegna pastorale negano la visione e la riflessione. I Thurpos diventano ciechi per parlare con gli dei. Impossibili lo spettacolo e il consumo. Le maschere battono il piede e urlano secondo il loro ritmo” (pag.70). Le genti dei paesi di Barbagia, venuto il giorno di Sant’Antonio abate, dicono che “è ritornato il tempo della maschera”. E che loro “la maschera l’hanno sempre conosciuta”. Quindi è naturale che la sera prima del grande fuoco che è usanza organizzare in piazza per il Santo “escano le maschere”. E a Ottana, quelle che sfileranno a Peschiera Borromeo, sono Boes e Merdules e sa Filonzana, le principali, ma anche maiali e vitellini. Quindi la maschera non ha tempo, essa viaggia nel tempo, scandisce un suo tempo che non è di tipo umano che possa misurarsi in giorni o anni. Quelle che serviranno a ricoprire un volto sono di pero selvatico. Un legno dolce da modellare, pastoso e leggero allo stesso tempo. Che permette al respiro di fuoriuscire dagli intagli che incide la sgorbia. Da un tronco dell’albero l’artigiano che la intaglierà intravede da prima se sarà maschera di Merdules o se sarà bastante a farne uscire corna di bove o di vitello. In tempi di dignitosa povertà le corna erano meno lunghe che quelle di adesso, ogni pezzo di legno era prezioso pel fuoco del camino. E ora che anche il pero selvatico va facendosi rado in campagna, si fanno maschere di olivo e olivastro, ma sono più pesanti, e vanno bene per i turisti che le inchiodano alle pareti di casa, non per la festa. L’uscita delle maschere non è organizzata, il numero di Boes e di Merdules che gireranno per le stradine del paese varia di anno in anno. Cosa accadrà nell’interagire dell’uno e dell’altro è scritto in una lingua che nulla ha dell’alfabeto che conosciamo, è rito che rimanda a qualcosa d’Altro, a una mancanza che non si riesce a colmare. La maschera che copre il viso dei Merdules è di fattezze distorte, nera e liscia, per renderla tale alla fine della lavorazione, tutta a mano, si usa un affilato pezzo di vetro. Quella dei Boes al contrario è tutta laccata e lavorata con trafori e serpentine, una stella in mezzo alla fronte. Ambedue tenute ben strette da un fazzoletto scuro annodato sotto la gola. Il Boe ha sopra la mastruca di pecora dei campanacci di bronzo, ha passo instabile e storto, ogni tanto si butta per terra e ci vuole che il Merdule lo stuzzichi col suo bastone (magari toccandogli i genitali) , qualche volta lo picchi proprio per farlo rinvenire. Il Merdule ha una andatura di gobbo, e il bastone li serve da stampella. Gruppi di Boes e di Merdules possono catturare sempre qualcheduno degli astanti e si fanno offrire da bere, vino. Si fanno “invitare”. I primi due giorni di carnevale, il terzo giorno sono loro che invitano. Gli astanti possono anche essere presi con una “soca”, una corda, acchiappati al laccio. Diventano così “boes” pure loro, senza però averlo scelto. In questa lotta tra boes e merdules il carnevale,in tempi passati, faceva scoccare scintille che portavano a risse furiose, complice il vino bevuto e invitato. I suoni che vengono dalle maschere sono muggiti strozzati, una sorta di tamburo di pelle d’asino contenete un filo che ci passa attraverso lancia uno stridio che atterrisce gli animali, anche quelli veri. E un’altra maschera suona su un piatto di rame con una grossa chiave di ferro. Solitaria e vestita di nero, la Filonzana fila la lana, le forbici pronte a tagliare il filo che è la vita dell’uomo. Cattivo presagio per i raccolti se lo va a tagliare davanti a te o ai tuoi parenti. Molte sono le interpretazioni che si possono dare a questo scandirsi di passi zoppicanti e di corpi distorti da cui escono suoni inarticolati, l’eterna lotta tra pastori e contadini, tra servi e padroni, tra l’umano e il bestiale che abita l’uomo da sempre. Riti di fine inverno che aspirano ad una primavera che si fa attendere per le dolcezze che prefigura, riti che si rifanno ad un Dioniso che spadroneggiava in Sardegna quando i nuraghi non avevano ancora conosciuto la concorrenza dei campanili ed erano ancora le torri che più si stagliavano nella pianura di Ottana. Per tacere, oggi, dei camini spenti del petrolchimico. Ma la maschera non conosce cronologia, ha un tempo che è solo suo. Al più ti coinvolge nel suo incedere. Nel suo caracollare a passo storto. Nè i buchi del suo sguardo vogliono incontrare i tuoi occhi, si perdono in un vuoto che non conosce luce alcuna. Non si deve chiedere, a Ottana, se il rito dei Boes e dei Merdules sia venuto meglio che gli altri anni perché sempre le maschere “escono secondo il loro passo e il loro muggito”. “Non c’è un sapere della maschera e tanto meno un sapere sulla maschera. Si vive un’esperienza di verità. Nessuno svelamento di un mistero, nessuna soluzione di un enigma. E tuttavia l’”hybris”, come intensità esperienziale, ha effetti di senso. Un detto sardo dice: “sapit ma no hat cussenthia”, intende qualcosa ma non ne ha piena coscienza…Si può parlare di una sapienza del rito? Vivere un “inventu”, cioè l’avventura del rito, rimanda a un’altra scena. L’esperienza rituale è nell’atto: procedendo lungo la traccia, qualcosa avviene anche in relazione al senso, come esercizio dell’esperienza stessa. Nello scatenamento motorio, nell’indicibilità del salto e del muggito, il pathos ha una qualche relazione con la sapienza che non è sinonimo di conoscenza” (pag.54, op cit.). Sarà per questo che ad ogni carnevale continentale “in salsa sarda” c’è qualcosa che mi frena dall’aderirvi senza remore, sono sempre un po’ bloccato, un po’ restio a farmi coinvolgere completamente. Gli spazi che fanno da contorno alla manifestazione sono troppo ampi, se non vuoi farti catturare da una soca te ne puoi scappare con facilità, vuoi mettere le stradine strette di Ottana coi muri sgarrupati che ti premono alle spalle, prima di essere salvo ti tocca invitare e contemporaneamente bere decine di bicchieri, vino o vernaccia che sia. E i suoni strozzati che  se ne escono dai visceri dei mascherati rimbalzano innumerevoli volte prima di disperdersi sulle tegole rugose dei tetti, mischiandosi al fumo di legna dei comignoli. Il tutto immerso in raschi di lingua sarda, di urla di spavento di bimbi, e di risa “a scraccasgiu”. C’è una fusione tra chi assiste e le maschere che sfilano, tutti a far parte di una scena comunitaria che pure viene sconvolta dalla imprevedibilità dei comportamenti delle maschere, che non sono mai decisi a priori, sconosciuti sin da chi li pratica. Catastrofici talvolta, come solo il Destino sa fare. Qui in continente mi sento sempre troppo “spettatore”, come guardassi criticamente queste maschere sarde che mi appaiono come fantasmi provenienti da luoghi diversi, di cui ho memoria nel sangue più che nel cervello. E allora vado interrogando Bachisio Bandinu, il bittese per antonomasia che pure ha vissuto e insegnato per anni in terra di Lombardia prima di tornarsene a casa, che mi aiuti a svelare il disagio. Ma anche nella sua prefazione al libro di cui sopra, i suoi sono detti di una Sibilla: “ Le maschere sarde dei Mamuthones, dei Thurpos e dei Mrdulès, pongono un’interrogazione perturbante e avviano un’analisi non canonica. Dicono di un rito senza messa in scena e senza testo da rappresentare. Negano la relazione con il volto e rifiutano qualsiasi significazione e interpretazione. Intercorre una differenza radicale tra rito come traccia e festa come cerimonia catartica. La maschera-rito è l’esperienza di una metamorfosi…E infine la maschera pone la questione sessuale. Non è pertinente alla donna perché la Donna è la maschera per antonomasia: “est capra”, è già animale-dio.

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Un commento

  1. Francesca Murtas Cherchi

    Grazie Sergio! Condivido le tue riflessioni!

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