CHE CASINO, MICHELA… DA QUEL GIORNO CHE INCONTRAI LA MURGIA NEI PRESSI DI MILANO, E’ STATA SINERGIA PURA

Sergio Portas e Michela Murgia

Che casino Michela, foto tue in tutte le prime pagine dei giornali, senza capelli, ancora coi tuoi capelli, persino su “Vanity Fair”, tutta ammantata di rosso, turbante compreso, e con il rossetto ancora più infuocato, a schiudere uno dei tuoi sorrisi sparati a trecentosessanta gradi. Gli occhi che sprizzano malizia. Un numero speciale che ti hanno fatto persino dirigere. E le televisioni tutte, Mediaset compresa, radio Popolare che apre di te i suoi notiziari del mattino. Tutto per questa tua abitudine di mettere tutto sulla piazza, sui “social”, e me lo avevi detto anche: “Sergio, per un giornalista oggi, non avere un “profilo su Facebook”, è come voler tenacemente rimanere ai tempi del Manzoni, e accontentarsi dei suoi venticinque lettori, contento te…”. Intanto Manzoni si scherniva usando questo paradosso, ben consapevole che i suoi “Promessi sposi” avevano avuto un successo planetario, ma a parte questo non piccolo particolare, io ero di una generazione diversa dalla tua: di quelle che sarebbero inorridite al solo sospetto che le cose “di famiglia” sarebbero diventate pettegolezzo per tutto il paese (di Guspini, ndr). Immaginarsi che effetto mi avrebbero fatto se “postate” sulla rete delle reti, come dire nel mondo. “Come non sapessi che ai tuoi tempi, ma anche ai miei, l’attività prediletta di tutti, ma proprio tutti, era di spettegolare sulla vita di ogni compaesano, la “critica” delle malelingue era ed è più velenosa del morso di un cobra. E a Cabras, dove sono nata io, la situazione non era certo diversa”, mi avevi risposto ridendo. E al solito mi avevi zittito, Ci eravamo incrociati giusto una quindicina d’anni fa con Michela, a Cassina De Pecchi, un tiro di schioppo da Milano, Francesca Murtas che allora presiedeva il coro sardo “Sa oghe de su coro” diretto da Pino Martini Obinu dove anche io ero “tenore” (saremo andati avanti per dieci anni, da non credere!) , una di quelle persone che ha sempre fatto e volontariato, e manifestazioni, e il 25 aprile, e l’Anpi, e i diritti delle donne…la prova provata che i comunisti esistono veramente, avrebbe detto l’ex cavaliere che se ne è appena andato pure lui all’altro mondo facendo “boom!”, aveva organizzato una serata in cui la scrittrice cabrarissa sarebbe stata la “star”, lei e il suo romanzo: “Accabadora”, fresco vincitore del premio Dessì a Villacidro. Io avrei dovuto agire da “intervistatore”. E rivederci tutti e due in quell’inizio di settembre del 2019, tu con quel vestitino di tessuto stampato da quattro soldi, io ancora tutto colorato del sole di cui avevo fatto abbuffate a Funtanazza e a Piscinas, confesso mi fa un poco tenerezza, tanto sembriamo giovani e spensierati. E quante risate anche, perché un’altra delle tue caratteristiche era di saper spandere allegria a profusione, qualunque argomento si stesse trattando, e in quel caso nientemeno che la morte, e quella diceria di cui avevi scritto e da cui avevi tratto ispirazione che, nella nostra Sardegna, non tantissimo tempo fa vi operassero queste anziane donne, un poco levatrici e un poco fattucchiere, che per pura pietà aiutassero i moribondi con agonie lunghe e dolorose, a mettere fine, con metodi non proprio ortodossi, a tanto patire: accabadore. Sarebbe rimasto quello il tuo libro più bello, a mio avviso, dove riuscivi con un paio di capoversi a delineare lo stato d’animo di una situazione, di un intero paese, a scorgere tra le pieghe del pensare dei presenti, tutto un mondo che si basava sul sapere degli “antichi”, su “connottu” diciamo noi sardi, il conosciuto, che giammai avrebbe voluto sapere di cambiare, di passare. Se non violentato e rigettato a forza. E, sebbene allora non lo sapessi, una delle cose che avresti tenacemente cercato di fare nella tua vita, sarebbe stata di volerlo rivoltare come un calzino, quel vecchio mondo, quel vecchio modo di pensare, quel vecchio modo di usare le parole. Già la dedica del romanzo era curiosa, un poco inquietante: “A mia madre. Tutte e due”. Non ti eri sbilanciata più che tanto di fronte alla mia curiosità e alle domande conseguenti: “Anche io sono “filla de anima”, per una sorta di tacito accordo tra due famiglie, né codificato né scritto in alcun documento, ho lasciato la mia famiglia di nascita per traslocare in quella di mia zia”. Nell’ultimo tuo libro: “Tre ciotole, Rituali per un anno di crisi”, appena uscito per Mondadori, che più autobiografico non si può a pag. 115 fai dire al tuo personaggio, una ragazza giovane come eri tu a diciott’anni quando te ne “scappasti di casa”: “…I loro padri non li picchiavano, cosa avrebbero pensato del fatto che il mio dietro alla porta, tra gli ombrelli teneva un oggetto appositamente dedicato alla mia correzione…Esistevano davvero famiglie dove i figli non venivano picchiati? Mia madre mi aveva sempre detto che succedeva in casa di tutti, che era normale e che chi diceva il contrario mentiva, perché ogni famiglia conosce la verità. Le avevo creduto…”. Sul “tuo” numero di “Vanity Fair” rispondendo alle domande di Simone Marchetti sei più esplicita: “Mio padre, ovvero la persona che avrebbe dovuto prendersi cura di me, ha tradito il suo mandato. Per molto tempo non ho capito che quello era un tradimento, perché l’unico padre che conoscevo era lui…Non l’ho mai perdonato perché non si è mai pentito. Non ha mai ammesso di avermi fatto male. Ha sempre detto che avevo capito male io. Che ero io a provocarlo…Il padre è un ruolo, non è una persona. E quel ruolo nella mia vita, l’hanno ricoperto altri uomini meglio di lui” (pag.39). Ne avevo scritto sulla “Gazzetta” di quell’evento, con un po’ di enfasi la redazione nel titolo ti aveva definita “Grandissima scrittrice dalla personalità carismatica”, te ne avevo fatto avere una copia di quel giornale e da allora, quando ci ri-incontravamo, che di libri ne avresti scritto un’altra dozzina, ci si baciava e abbracciava, come fanno i sardi che si incontrano in continente coscienti di portarsi sulle spalle tutta una serie di ricordi, di conoscenze, di modi di vita, che sappiamo solo noi, quelli che nascono nel Campidano di Cagliari, o sulle rive dello stagno di Cabras, venuti su a muggini, anguille e bottarga. Quelli che in Sinis, d’estate, non vanno a “Is aruttas” a fare il bagno, che ci trovano mezzo mondo e piantando l’ombrellone rischi di infilzare qualcuno, tutti a “rubare” i cristalli di quarzo policromi di cui è fatta la spiaggia, ma a “Maimoni” dove la spiaggia di rena bianca gareggia per bellezza con quella di Varadero di Cuba. In Sardegna, a Seneghe, per “Cabudanne de poetas” avresti fatto scompisciare dalle risate la platea, raccontando dei “fastimos” che usano le mamme sarde quando vogliono sottolineare che non gradiscono il comportamento dei loro figlioli e, in sardo, augurano loro i peggiori destini: “Ancu ti curra sa giustizia, ancu ti curra su buginu…” E cento altri ancora. Poi, seguendo quella generosità che davvero ti ha sempre contraddistinto, ti sei messa in testa che sarebbe stato possibile cambiare il modo che i sardi hanno di scegliere chi li deve governare (leggi: comandare). Anche su questo avevamo un po’ litigato, che io avevo messo su tutta una prosopopea derivante dai miei studi in scienze politiche, che mi avevano marchiato di uno scetticismo ormai incorreggibile, da cui in verità non sono ancora guarito. Alle tue sacrosante obiezioni del perché non avrebbero dovuto scegliere, una volta buona, l’opzione “separatista”: quella che avrebbe da subito buttato a mare ogni base militare presente sul territorio, avrebbe buttato a mare lo stupido sviluppo costruttivista delle coste sarde, avrebbe finalmente scelto di utilizzare energie “verdi”, che di sole e di vento ne avevamo da vendere a mezza Europa. E bonificato finalmente le miniere del Sulcis, chiuso le industrie energivore, e le scorie inquinanti un ricordo del passato. Come le malformazioni di uomini e animali causate dall’uranio impoverito sparso per l’aere dai proiettili sparati per decenni sui poligoni militari. Perché non avrebbero dovuto scegliere questa opzione, i sardi? L’altra, in fondo, non diceva altro che si continuasse così come (quasi) sempre: moltiplicare i vari “Billionaire”, pagare il latte dei pastori secondo quello stabilito dai “Mercati” sovrani, mandare in Regione nani e ballerine, tutti proni a seguire i dettami dei partiti “nazionali”, fin della “Lega lombarda” che non ha mai fatto mistero di cosa pensasse dovesse diventare l’interesse nazionale: quello della Lombardia ovviamente. E del nord in generale. E non ha mai smesso di praticarlo questo intento, chiedere in merito all’onorevole Calderoli e al suo progetto di “autonomie regionali”. Bè in verità prendere il 10% e 80.000 preferenze non è proprio una sconfitta, considerato anche che eri tu a guidare “Sardegna Possibile”, pur sempre una donna, e da che Eleonora d’Arborea aveva fatto sventolare al vento la bandiera dell’albero deradicato oristanese, nessuna donna in Sardegna, politicamente, aveva contato più che nulla. Certo non hai mandato a dirlo cosa pensi della nuova “leader” Meloni Giorgia, sorella d’Italia che coi suoi Fratelli, e un po’ di Lega e “Berluscones”, è alla guida del paese (aiuta anche Matteo Renzi in verità). Anche lei, ne ha scritto, ha avuto come te un padre sardo “problematico”. Avevi detto e speravi di non dover morire “fascista”. Non è andata così. Voglio sperare che tu abbia ragione nel tuo credere fermamente che ora sarai finalmente al cospetto di Dio, e stari intortandolo come solo tu sai fare, con quell’intelligenza cristallina che ti riconoscono tutti, anche quelli che hanno a motto: ”Molti nemici, molto onore”. E tu di nemici te ne sei fatti un sacco e una sporta. Andando per anni in televisione a battibeccare con l’universo mondo, ferma nelle tue idee di libertà per ogni persona umana, donna o uomo che sia, maschio o femmina o “queer”, senza che nessuno abbia potuto farti deflettere da queste scelte “per gli umili della terra”, evangelicamente intesi. Anche qui il nostro accordo vacillava, che io credente non sono, e tu non rinnegavi neppure la tua militanza nell’azione cattolica di Cabras, il tuo aver insegnato religione nelle scuole. Certo, conoscendoti, mi viene il dubbio che se il vescovo di turno avesse potuto seguire una qualche tua lezione, la tua sarebbe stata una carriera breve. Come quelle tentate da te nei “call center”, nel fare la “portiera di notte”, vendere terreni edificabili e negli altri cento mestieri che avevi tentato prima di metterti a scrivere, e allora, come una fiumana: Ave Mary, Futuro interiore, Noi siamo tempesta, L’inferno è una buona memoria, Stai zitta, Il mondo deve sapere, Istruzioni per diventare fascisti…Quando avevi scritto quello su “Avalon” della Zimmer Bradley, decantandone la trama che vedeva finalmente per protagonista una donna, seppure una maga, e non il solito eroe maschio tutto muscoli e “spade nella roccia”, non avevo potuto non dirti che a me quando l’avevo letto era sembrato “una cagata pazzesca”. Cose che si dicono fra amici e di cui ora mi pento. Anche se non ho mutato opinione. Questo articolo non potrò fartelo avere di persona come facevo di solito, ma vuoi vedere che tu abbia come sempre ragione, e Dio esista davvero, che esista un aldilà, alla resurrezione dei corpi proprio non mi riesce di credere, né all’inferno in verità. Vuoi vedere che nell’aldilà si possano vedere le cose che gli umani fanno ancora nella loro vita terrena. Te ne starai facendo di risate! Ciao Michela, mi mancherai.

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4 commenti

  1. Sergio Portas è un grande scrittore e giornalista: sa informare ma contemporaneamente appassionare e coinvolgere.. aspetto il prossimo articolo

  2. Francesca Murtas Cherchi

    Grazie Sergio Portas. Un ricordo indelebile.
    A Cassina de’ Pecchi avevo organizzato questa serata fantastica.

  3. Anche se con colpevole ritardo mi piace rimarcare che la foto che mi ritrae con Michela l’ha scattata Eros Sua’. Il fatto che tanta acqua sia passata da allora sotto i ponti non scusa la dimenticanza

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