IN BARBAGIA, LA PUNTATA DELLA SEGUITA TRASMISSIONE TELEVISIVA DI ALESSANDRO BORGHESE: LO CHEF MAURO LADU DI MAMOIADA HA VINTO LA SFIDA

Mauro Ladu e Sara Tavolacci

di MANUELA VACCA

Oggi è l’ultimo giorno di ferie: l’Osteria Abbamele di Mamoiada riapre domani con il sorriso dei titolari, lo chef Mauro Ladu e la moglie Sara Tavolacci. Il cuoco classe 1984 è uscito trionfante dalla sfida lanciata da Alessandro Borghese nel suo fortunato format televisivo 4 Ristoranti che ha visto partecipare Federico Azuni dell’agriturismo Su Pinnettu di Olzai, Lino Ruiu del ristorante Sant’Elene e Giovanni Nieddu dell’agriturismo Canales, entrambi a Dorgali. Sono tutti loro, in luoghi bellissimi con interessanti proposte a tavola, i protagonisti della puntata andata in onda su Sky (ma registrata lo scorso luglio) dedicata al miglior ristorante delle vie dei pastori della Barbagia.

Come da regola, i quattro ristoratori in gara hanno espresso il loro voto – con un punteggio da 0 a 10 – su location, menu, servizio, conto del ristorante che li ospita e sulla quinta categoria, la Special, che ha visto il Pane Frattau come protagonista. Mauro Ladu ha portato a casa la migliore votazione dei colleghi e Borghese ha confermato il risultato assegnando un voto altissimo, 40, che si è sommato a quanto già espresso dagli altri concorrenti. “Seguo tutte le puntate e vedo che Borghese tende a premiare i progetti seri. Però pensavo che la gara andasse in un’altra direzione e che venisse premiato il discorso della via pastorale più tradizionale”, confida lo chef mamoiadino.

Il suo locale non è il classico ristorante tradizionale. Le sue esperienze professionali lo hanno visto misurarsi in Costa Smeralda, con Cristiano Andreini ad Alghero, in Russia e poi a Cagliari (da Cucina.eat). Alla fine il ritorno a casa dove, in piena pandemia nel dicembre del 2020, ha fatto nascere il nuovo progetto insieme alla moglie Sara, mettendo in pratica l’intento di fare cucina contemporanea rivisitando i piatti della tradizione. “Avevamo aperto da soli tre mesi quando, a marzo, ci hanno contattato per la selezione e ci siamo detti: partecipiamo, vada come vada, giochiamo e divertiamoci – racconta -. Avevamo paura di emozionarci davanti alle telecamere per cui abbiamo cercato di fare il nostro lavoro come se si trattasse di clienti normali”. Sinora sono stati fedeli al progetto di partenza e non hanno mai fatto retromarcia su questa scelta coraggiosa, premiata dai tanti che mese dopo mese sono arrivati a Mamoiada proprio per scoprire la “tradizione rivisitata” dell’Osteria Abbamele, a partire da quel Pane frattau diventato Ovu frattau. Ladu non ha fatto mistero delle proprie convinzioni durante la puntata della settima stagione. Per esempio quando ha citato il pensiero del compositore Malher: “La tradizione è la conservazione del fuoco e non l’adorazione delle ceneri”.

Innanzi tutto questa vittoria: cosa crede che porterà? “Era importante partecipare più che vincere perché c’è un riscontro nell’incremento di lavoro, come mi hanno confermato due amici che hanno concorso in passato alla trasmissione, Roberto Paddeu e Pierluigi Fais. E noi siamo a Mamoiada, dove non è proprio facile arrivare. Siamo comunque fiduciosi”.

Proprio Fais, di recente, ha raccontato a SardegnaEventi24 cosa significhi per lui innovare. Qual è l’idea di innovazione di Mauro Ladu? “La mia idea è partire sempre dalla tradizione perché devi conoscerla, è fondamentale. Non ho mai visto sperimentatori che non partano dalla tradizione. Da poco ho rivisitato la minestra con il latte che mi faceva mia zia, una grande cuoca. Ho pensato alla fregua ma, anziché cuocerla nel latte, ho usato una ricotta di pecora, quindi ho aggiunto una manzetta e pepe di Sichuan quale elemento esotico molto aromatico. Inoltre la mia cucina è diventata ecosostenibile, con sprechi al lumicino: andiamo a recuperare tutto dell’ingrediente e dalle foglie esterne facciamo alcuni centrifugati. Usiamo acqua locale microfiltrata, non abbiamo plastica o tovagliati. Il tovagliolo, pur di alto livello, è biodegradabile”.

Anche la forma è un elemento importantissimo per innovare i piatti. “Penso alla pecora in cappotto, tradizione che spesso viene bistrattata. Per servirla nel mio ristorante ho pensato di rivederla nella forma, usando la cipolla come metafora del cappotto. Poi ci sono gli elementi della tradizione: la pecora, la patata cotta nel brodo di pecora, il pomodoro secco e l’armidda, ossia il timo selvatico. Rivisto nella forma è bello, soprattutto è buono e rispecchia anche la tradizione. Si ha la chiusura del cerchio”.

Questa idea di “cucina che osa” parte sempre da carta e penna? “Sì, scrivo tanto e disegno tanto. Metto le mie idee su carta e poi entro in cucina e inizio a lavorare. Magari dopo modifico ma parto sempre dalla carta. A me piace osare: il detto “chi non risica non rosica” significa rischiare, avere coraggio. Devi prenderti delle responsabilità e non è semplice, specialmente nella cultura sarda della cucina tradizionale: bisogna stare attenti a quello che si fa. Comunque chi viene nel nostro ristorante sa già che trova un un posto diverso. Il porcetto arrosto lo faccio ma è diverso da quello che uno si aspetta perché seguo il mio pensiero e le mie tecniche”.

Come si valorizza il patrimonio enogastronomico della comunità di Mamoiada e i compaesani come hanno reagito alla novità? “Bisogna andare step by step davanti a una cucina di questo tipo in un ambiente tradizionale. Il nostro compito è spiegare e raccontare il nostro progetto. Lavoriamo principalmente con persone di fuori con l’idea di far lavorare tutti attorno, l’artigiano come i produttori dell’enogastronomia. E a un anno di distanza ci siamo riusciti. Ovviamente per l’approccio alla mia cucina serve pazienza ma è la pazienza a portarti ai risultati prefissati. Credo che il mamoiadino ora sia fiero di avere un locale che innova. Il tempo è galantuomo”.

Mauro Ladu è cuoco per merito del padre e di altri componenti della famiglia? “Mio padre, che è scomparso quasi vent’anni fa, aveva avuto l’intuizione. Dopo le scuole medie pensavo di seguire gli amici ma lui mi fece riflettere e capire la mia passione per la cucina e che il cuoco era un lavoro ricercato. Mi ha detto di provare per un anno all’alberghiero e dopo di mollare se non mi fosse piaciuto. Dopo due settimane che ho iniziato i laboratori sono entrato in cucina e non sono mai uscito. Ma hanno inciso anche mia nonna, mia madre e le mie zie: mi hanno mostrato ricette tradizionali che mi hanno ispirato, come la sebada di ricotta e zafferano che mia nonna faceva nel periodo pasquale. Io l’ho scomposta e ci ho messo più ingredienti. Quella della gara di 4 Ristoranti aveva miele di timo e castagno, una produzione di nicchia di Fonni”.

E oggi c’è un’altra figura femminile, Sara. “Mia moglie è la mia spalla. Sara è di Cagliari, lavorava in uno studio notarile e mi ha convinto a tornare qua, dove ero partito quasi vent’anni fa, per fare qualcosa di bello. È stata veramente brava: ha cambiato lavoro e non era facile”.

Avete un nuovo progetto tra le mani? Vogliamo creare una vineria. Nel menu abbiamo 12-13 cantine. Nel nuovo locale partiamo dal raccontare il territorio mamoiadino che oggi conta circa trentacinque cantine, ma includiamo altri vini regionali, nazionali e internazionali. Vogliamo proporre una vasta scelta di tapas, inserendo pure una cervellina fritta, un pezzo di cordula. Insomma: continueremo il pensiero di Abbamele ma nasceranno tapas territoriali per raccontare una tradizione anche nell’aperitivo. Un luogo versatile dove vogliamo fare incontri magari con scrittori che presentano i loro libri seguendo un filo conduttore che richiami al vino, al cibo, alle maschere di Mamoiada e all’archeologia. Insomma, al territorio”.

Un sogno ancora nel cassetto? “Ho un tatuaggio nel braccio: è Remy, il topolino di “Ratatouille” (film di animazione della Pixar, ndr). A quel tatuaggio ho aggiunto un fumetto con il simbolo della stella Michelin. Uno deve ambire al massimo. Se ci arrivi bene, altrimenti stai facendo comunque quello che ti piace, con la passione e l’amore che ci metti. Sono già contento così, il risultato più importante è avere il ristorante pieno. Per il resto chi vivrà vedrà”.

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