di PATRIZIA BOI
C’era una volta in un paese smarrito tra i monti una pianta di Larice di quasi mille anni. Viveva solitaria su una sponda del lago, guardando da lontano la foresta di Betulle situata più in basso. Il Larice aveva scelto di vivere la sua esistenza al limite del mondo, anche se talvolta si era trovato a socializzare con i fratelli Abeti bianchi, con i cugini Carpini neri e con gli amici Pini silvestri, ma sempre in foreste rade e luminose.
Quest’albero proteso verso l’abisso, pagava il prezzo della sua scelta con la sofferenza delle tempeste urlanti, delle scariche tonanti di rocce instabili, delle valanghe che si abbattevano come scuri affilate, dello scarso nutrimento aggrappato in pochi grammi di terra e della solitudine infinita dei secoli. Aveva deciso di vivere in quel posto, lo aveva scelto con cura, conosceva i molti pericoli e le poche certezze, perciò si affidava a solide radici che con un abbraccio saldavano terra e rocce in un unico elemento.
Il suo fusto possente e diritto era fiero di essere l’unico albero che può vivere cosi in alto, i rami si allungavano verticali poiché non avevano alcun timore di sporgersi nel vuoto. Lui era il creativo della grande famiglia delle Conifere, si distingueva perciò dalla normalità di una vita mediocre, era il solo che d’autunno dava spettacolo sulle pareti inaccessibili della montagna. E non passava inosservato nemmeno d’inverno quando la sua chioma si alleggeriva silenziosa con una pioggerellina di aghi dorati, o a primavera quando invece esibiva puntuale mille rose di aghi verde pastello. Quest’albero era energia limpida, la sua carne a lungo temprata dagli eventi era immortale, poteva far conoscere all’acqua del lago la sua leggendaria ostinazione, diventando solido guscio di galeoni e corvette, prezioso tesoro sommerso per insolite traversate. Nel suo inverno spesso il Larice era ricoperto di neve e osservava muto la distesa ghiacciata del lago, i suoi rami spogli resistevano alle intemperie con forza e determinazione ed erano d’esempio per tutto il mondo vegetale.
Una di quelle mattine grigie e gelide in cui il respiro si ghiaccia istantaneamente nell’aria, il Larice guardava distratto le luci dell’abitato. Una slitta trainata da lupi argentati si fermò proprio sotto di lui. Una bimbetta con una madre incantevole, scesero dalla slitta e ammirarono l’albero. La piccolina si mise ad accarezzare i suoi rami innevati e a far scivolare al suolo farina di neve. Il Larice s’inchinò per salutare le due fanciulle e sorrise allargando i suoi rami. La donna restò affascinata da quel movimento delicato e passò la sua mano calda sul ramo più basso. In un attimo la neve si sciolse e sul Larice crebbero vertiginosamente gli aghi della sua chioma, di un verde brillante che accese di luce tutta la foresta.
La donna fu stregata da quella pianta e non se ne seppe allontanare. Nel suo fusto vedeva nascosto un tesoro, nella sua resina percepiva un’energia di rinnovamento e purificazione. Pensava a quell’albero che una volta vecchio non sarebbe stato usato per il fuoco, ma invece per farne assi, tavole, mobili, panche, letti, e, in altri paesi dove ancora l’antica sapienza è un valore, sarebbe stato usato di certo per costruire case dalle fondamenta affidabili.
Soltanto lì una donna illuminata poteva sentirsi protetta, le calde assi del Larice si sarebbero abbracciate l’una con l’altra respirando dalle venature aromatiche essenze. Il Larice poteva essere il riparo perfetto per filtrare e assorbire sia le tensioni umane che degli elementi, il tempio di pace per sfidare inalterato i secoli e i millenni. La donna non avrebbe mancato di abbellire il suo giardino piantando Larici: al tempo della mietitura avrebbe trovato riposo sotto la sua ombra, e quando il sole sarebbe stato troppo basso sull’orizzonte avrebbe, al sicuro nel suo riparo, gioito dell’ultimo raggio. Avrebbe guardato il grande e solitario Larice d’inverno stendere ai suoi piedi la calda coperta di morbidi aghi, offrendo riparo agli abitanti della foresta infreddoliti: così il capriolo, il cervo oppure il camoscio avrebbero risparmiato le delicate gemme primaverili.
Mentre la donna sprofondava in questi pensieri, sedotta dalla forza, dalla vitalità e dal calore del Larice, sentì un grande slancio verso la pianta e i suoi arti si protesero per abbracciarla. In quel momento i rami del Larice si intrecciarono alle braccia della donna, il suo fusto si fuse con il suo corpo aggraziato e le gambe di lei si attorcigliarono con le sue profonde radici. La bimbetta vide sparire la figura di sua madre nel groviglio di rami e germogli di quel Larice scintillante. Si sentì disperata e sola e urlò alla notte tutto il suo dolore. Allora il Larice si inchinò, con il suo ramo più tenero la prese su di sé, la pose fra i suoi rami e l’abbracciò con tutta la sua essenza. La bimbetta divenne germogli di primavera e una luce sfavillante si diffuse sul paese illuminando il ghiaccio del lago e riflettendosi sulla luna. Un canto ancestrale attraversò ogni elemento e si diffuse per tutto il Cosmo.
Il Larice distese i suoi rami, si stiracchiò dolcemente e si risvegliò dal suo lungo sonno, ed ecco perché sotto i suoi rami, da quel momento in poi e per tutti gli inverni del mondo, nessuno vide mai più congelata quella parte del lago. La slitta con i suoi splendidi cani si mosse quel giorno in direzione di un nuovo destino.
Quando l’Amore inatteso s’accende
ogni bel fusto nel vuoto protende
scioglie la neve nel suo calore
e placa il tempo con le sue ore.
Se tutto accade senza parole
in un abbraccio che infiamma il sole
una gran gioia poi incendia il viso
e tutto illumina nel suo sorris