UNA FIABA SUL SITO ARCHEOLOGICO DI PRANU MUTTEDDU A GONI: LUG E SUO FIGLIO CATORCHIO

Illustrazione di Sergio Pessolano: Il Robotino Catorchio tra i Menhir di Pranu Mutteddu

di PATRIZIA BOI

In un luogo posto tra la terra e il sottosuolo viveva un tempo il dio Lug. Era una specie di caverna che si affacciava su un giardino di olivi e carrubi. Lug amava riflettere e meditare sotto il grande carrubo, un albero con la chioma elegante e compatta e pieno zeppo di carrube. Poiché i suoi figli erano andati per il mondo, era rimasto solo e questa solitudine cominciava a pesargli. Così gli venne in mente di impegnarsi in una nuova creazione da regalare agli uomini.

Del resto non era del tutto soddisfatto della buona riuscita della specie e voleva inventarsi una creatura che aiutasse a perfezionare i comportamenti umani. Siccome lui amava molto i bambini ed era convinto che da loro provenisse il miglioramento degli uomini, pensò di creare un cucciolo di metallo che fosse capace di apprendere come un bambino vero. Cercò di valutare se fosse meglio dargli il sesso maschile o quello femminile, ma riflettendo su tutti i guai che questa differenziazione aveva prodotto, si orientò verso un individuo asessuato. Non che ne fosse del tutto convinto: lui stesso, pur essendo un dio, non riusciva a immaginare un’esistenza senza la donna, non fosse altro che per il ruolo fondamentale che essa aveva svolto come madre dell’umanità.

Per comprendere meglio le caratteristiche di questa sua creazione decise di salire sulla terra e assumere sembianze umane. Scelse di appartenere ad un’epoca in cui l’uomo, a fronte di grandi progressi materiali, stava perdendo il senso spirituale delle cose. Indossò quindi i panni di uno scienziato, uno di quegli studiosi solitari che desiderano far tabula rasa degli studi passati per dare un nuovo corso alla storia, insomma un uomo completamente fuori luogo e molto lontano dal suo tempo, forse troppo avanti, forse troppo antico. Trovò la sua dimora al centro di una grande Isola dove costruì un laboratorio per i suoi esperimenti. E comparve improvvisamente come uno straniero con quel suo aspetto che non passava di certo inosservato.

L’Isola era abitata da uomini e donne piccoli e bruni, con una corporatura muscolosa e una pelle abituata al sole. Lug invece era alto e longilineo, con una pelle candida e lentigginosa, una folta capigliatura bionda dai riflessi rossi e una barba incolta rossastra. Si vedeva lontano un miglio che apparteneva a un’altra razza e questo agevolò la sua comparsa improvvisa in quella terra ancora selvaggia. Si sistemò accanto a un boschetto di sughere in un terreno pieno di sassi e cominciò a costruire il suo cucciolo. Nessuno seppe mai come fece a installare quel laboratorio dotato di ogni marchingegno in un posto così isolato e lontano dai centri abitati e nemmeno come passasse il suo tempo e come guadagnasse il denaro per il suo sostentamento. Quando scendeva in paese a fare la spesa, però, la gente non si lamentava mai perché pagava bene e subito, e, sebbene lui non rivolgesse volentieri la parola a chicchessia, era tenuto in una certa considerazione e ritenuto un benestante.

Lo scienziato era in contattocon le Università di tutto il mondo e i suoi studi avevano fama internazionale. In realtà non era un lavoratore solitario come poteva sembrare, ma collaborava con una squadra di altri scienziati che lo aiutavano nelle sue ricerche. Non è complicato per un dio raggiungere i livelli di intelligenza dei più ingegnosi cervelli umani, e non è nemmeno troppo difficile trascinarli nella direzione che lui voleva visto che possedeva la giusta forza, la volontà e maneggiava l’arte della magia e della divinazione. Inoltre si tenga presente che Lug era maestro nell’interpretare qualsiasi ruolo e qualunque mestiere, capace di indossare varie maschere e di esprimere molteplici personalità.

E così pian piano prese vita quell’organismo che Lug aveva in mente, prima lo progettò insieme agli altri scienziati e poi lo costruì nel suo laboratorio solitario pezzo per pezzo dopo aver ordinato i materiali più sofisticati nelle fabbriche più specializzate del mondo. Nacque così una Creatura di metallo della dimensione di un bimbo di tre anni, ricoperto di una pelle azzurra dotata di sensori tattili, di telecamere luccicanti agli occhi, di sensori uditivi e con mani, testa e occhi in grado di riprodurre tutti i movimenti tipici anche dell’essere umano. Questo bimbo fatto di circuiti e meccanismi gli sarebbe servito per studiare i margini di miglioramento dell’intelligenza umana, o almeno di questo era convinto. La costruzione del suo  cucciolo di robot lo appassionò così tanto che gli dedicò ogni attenzione: era fatto di altre materie rispetto all’uomo, e lui era fiducioso nel matrimonio degli elementi che lo avrebbero condotto alla scoperta di un essere nuovo.

Sapeva benissimo che da anni l’umanità studiava l’intelligenza artificiale, ma i passi da gigante che sembravano prevedibili all’inizio si erano limitati fino ad allora alle opere di fantasia. L’immaginazione di Lug, però, trascendeva la realtà e le sue arti magiche lo favorirono senza dubbio.
Il bimbetto d’acciaio fu chiamato Catorchio e divenne il pensiero incessante di Lug, dedicava alla sua costruzione e al suo perfezionamento giorno e notte. Quando costruì le sue braccia gli parve di impazzire, quando perfezionò i movimenti delle sue mani rimase tutta la notte sveglio per l’emozione, quando fabbricò la sua prima faccia che reagiva agli stimoli con un sorriso o con una smorfia di delusione si sentì felice come un bambino e quando riuscì a farlo gattonare e camminare sentì di possedere i più intimi segreti della materia inanimata. Eppure, nonostante tutti i miglioramenti fisici di Catorchio, rimaneva limitata la sua capacità di provare emozioni e lo sviluppo dell’intelligenza artificiale. Fino a quel momento Lug aveva condiviso i suoi progressi con gli altri scienziati, poi però cominciò a isolarsi e a cercare di stabilire con Catorchio un altro tipo di relazione.

Una sera provò a distaccarlo dagli enormi computer che facevano funzionare il suo corpo, sorridere il suo volto e parlare la sua voce metallica e asettica e se lo mise davanti così nel suo aspetto incompleto e senza vita di dispositivo d’acciaio. È vero che Lug aveva assunto le sembianze umane e cercava di comportarsi come tale, ma siccome possedeva qualche potere in più rispetto ai comuni mortali, cominciò a parlare con la materia inanimata che componeva Catorchio per tentare di trasformarla. Quello che voleva ottenere era un individuo dal pensiero puro, infinitamente curioso e capace di percepire la vita nascosta in ogni cosa animata e inanimata, in grado di penetrare l’essenza delle cose e la magia di ogni mistero.

Mentre era assorbito da queste riflessioni, il suo livello di coscienza si intensificò e precipitò in uno stato catatonico di sonno – sogno aprendo una porta verso i segreti del tempo. In quel momento sette sferette infuocate comparvero nell’aria e volarono ritmicamente verso Catorchio. Gli penetrarono dentro attraverso un occhio, una alla volta, e risvegliarono tutto il suo sistema addormentato. Prima si mosse un occhio, poi l’altro occhio, quindi si mosse una mano, poi l’altra, dunque Catorchio alzò la testa e si rizzò in piedi per domandare infine con una voce dolcissima da bambino vero e sincero:

«Cosa si mangia papà?».
E Lug sorpreso ma consapevole del suo potere rispose:
«Va bene una bistecca di cammello?».
«Per iniziare a mangiare con il mio stomaco metallico il cammello può andar bene, ma poi ho bisogno anche di qualcosa di dolce!».
«Cosa ne dici della torta della nonna Pina?».
«Se è farcita di cioccolato… credo di poterla digerire».
«La crema di cioccolato è la sua specialità …».
«Perfetto! Sbrigati, portami da mangiare, ho la fame di un selvaggio!».

Lug aveva paura che gli ingranaggi di Catorchio si bloccassero durante l’ingestione di quel cibo ma gli servì senza esitare quanto richiesto. Dopo che ebbe mangiato con l’appetito di un robusto adolescente, Catorchio cercò di capire meglio se stesso tempestando di domande quello che considerava suo padre. Le richieste di Catorchio proseguirono fino all’alba allorché Lug, non riuscendo più a tenere gli occhi aperti, precipitò in un sonno profondo. Approfittando della dormita di Lug, Catorchio si incamminò verso la porta e uscì nel mondo esterno. Non sapeva dove andare, ma camminò spedito dentro un boschetto.

Dopo che ebbe percorso un lungo tratto di strada in mezzo a delle piante straordinarie, s’imbatté in una strana roccia cosparsa di licheni. La pietra aveva la forma di un sedile e Catorchio vi si sedette sopra per far riposare le gambe metalliche poco abituate a tanto movimento e approfittare dell’ombra di uno splendido ulivo. Mentre se ne stava là sotto a osservare tutt’intorno, sentì un vocino misterioso che canticchiava sotto la pietra. Era curiosissimo di sapere a chi apparteneva quel canto in una lingua strana, una specie di latino antico ma più incomprensibile dell’arabo. Certo Catorchio comprendeva perfettamente l’inglese e poteva facilmente tradurre nelle lingue canoniche quali italiano spagnolo francese e tedesco qualsiasi parola, ma quella lingua non l’aveva mai udita. In quel momento sentì la mancanza di suo padre che lo avrebbe potuto aiutare inserendo la lingua sconosciuta in uno dei suoi circuiti. Ma visto che Lug era rimasto a casa, Catorchio provò a parlare in italiano sperando di essere compreso:

«Chi sei? Da dove viene questa vocina?».

«Ti sei seduto all’ingresso della mia casa! Se guardi bene sotto la pietra c’è un corridoio e poi ci sono delle stanze scavate nella roccia: questa è la mia Domus. E io sono una Jana!!!».

«E che cos’è una Jana?».
«Non lo sai? Sono una fatina di quest’Isola!».
«Io sono ancora piccolo e non so quasi nulla! Perché non ti fai vedere?».
«In genere non mi mostro agli uomini, non mi fido di loro!».
«Ma io non sono un uomo, sono un cucciolo d’acciaio!».
«E com’è un cucciolo d’acciaio? Voglio proprio vederti! Sai che mi sei simpatico?».

La Jana comparve da una finestrella di pietra e Catorchio rimase stupito da tanto fascino: quel corpicino minuto e delicato, quella lunga chioma di capelli rossi scintillanti, quel visino bianchissimo con due occhi neri come schegge d’ossidiana e quel vestitino di veli bianchi e azzurri lo attraevano immensamente. E poi le orecchie a punta della Jana gli ricordavano qualcosa che aveva già visto altrove e gli fecero nascere un’enorme simpatia. La Jana lo squadrò dalla testa ai piedi ed esclamò:

«Come sei pallido! Lo sai che sei molto strano? Hai l’aspetto di un bambino, ma somigli di più a uno scheletro di ferro con una specie di testa montata sopra. Ma un nome ce l’hai?».

«Mi chiamo Catorchio, o almeno così mi chiama mio padre… Sono così orrendo?».
«Oh no, non è che sei orrendo, ma ai miei tempi non esistevano bambini come te! Sai, io sono morta almeno cinquemila anni fa!».
«Cinquemila anni? Io ho solo tre anni! E cosa vuol dire che sei morta?».
«Io sono uno spirito, sono evanescente, non mi puoi toccare!».
Catorchio provò ad avvicinare la mano e non riuscì ad acchiappare nulla.
«Hai ragione, è come se tu fossi fatta d’aria!».
«Ma possibile che tu non sappia assolutamente nulla?».
«Io devo ancora imparare tutto! Non conosco nemmeno le pietre! Questa dove sono seduto è la prima che vedo, devo dire che mi sembra comoda e anche molto morbida».
«Devi imparare a conoscere le pietre, esse possono parlare e raccontare storie misteriose. L’energia delle pietre antiche è potente e ci fa entrare in contatto con i mondi invisibili che ci circondano svelandone i segreti magici, le storie incantate, le verità nascoste!».
«Davvero? Perché non mi fai raccontare qualcosa da questi sassi?».
«Ma lo sai che sei veramente curioso, Catorchio? Io sono una fata e non posso perdere molto tempo con gli umani, ma visto che tu sei una creatura ancora pura, voglio accontentarti! Vedi tutte queste casette come la mia? Si chiamano Domus de Janas e sono le dimore del popolo delle fatine sarde. Nessuno ci può vedere, salvo i puri di cuore come te. Siamo fuggite da questo paese diventando solo spirito, perché la gente non ci rispettava più. Ora viviamo dentro queste tombe. Vedi come sono fatte? È come se fossimo tornate nel ventre materno!».
«Che cos’è questo ventre materno?».
«Ma insomma dove sei nato tu? Non ti ricordi la pancia di tua madre? È quel luogo dove ti trovavi prima di nascere!».
«Io non ho memoria di nulla! Non so cosa sia una madre! Ho solo un padre e non ricordo di essere uscito dalla sua pancia!».
«Oddio come è difficile parlare con te, ci vuole una pazienza…! Naturalmente non conosci nemmeno la Grande Madre, la nostra dea! Quando siamo morte hanno pensato che saremmo tornate alla Grande Madre Terra, così ci hanno scavato queste tombe di pietra fatte come un utero materno, come se dovessimo tornare alla terra. Hai capito? Vedi questo cunicolo di ingresso? Esso rappresenta il canale della vagina e poi il sepolcro vero è fatto proprio come un utero. Siamo state sepolte in posizione fetale, come quando siamo nate, in modo che il nostro riposo fosse una specie di rinascita. Hai capito?».
«Beh! È tutto così difficile… ma non preoccuparti, poi, con l’aiuto di mio padre, ne capirò di più! Sai, mi ha costruito da solo e mi ha pure donato un soffio vitale fatto con sette sferette infuocate!».

«Oddio, vuoi dire che non hai mai avuto una mamma? E che sei nato da un padre e vivi solo con lui che ti fa sia da padre che da madre? Umh… vediamo, ai miei tempi non era così, la madre la chiamavamo ‘mammay’, il padre ‘babbay’, come possiamo chiamare un padre-madre o una madre-padre? Cosa ne pensi di ‘mammoy’?».

«Oh, è bellissimo cara Jana!!! Mi piace proprio tanto! Il mio ‘mammoy’è molto in gamba! È uno scienziato, si chiama Lug!».
«Uno scienziato? Non so che cosa sia, però il suo nome non mi è nuovo! Devo averlo già incontrato nel mondo sotterraneo!».
«Davvero? Lui non mi ci ha ancora portato in quel mondo… ».
«Lascia perdere, è meglio che tu ci arrivi il più tardi possibile! Ora guarda questi grandi sassi, si chiamano Menhir. Si tratta di pietre verticali che simulano il potere maschile e rappresentano l’elemento di congiunzione tra la Terra e il Cielo. Qui ce ne sono diciotto, sono allineate da Est a Ovest, nella direzione della nascita e del tramonto del Sole. Se ti avvicini e le abbracci sentirai che energia! La gente oggi viene in mezzo alle sughere anche per ricaricarsi di energia. Ci sono spiriti potenti intorno a queste pietre, sono gli antenati degli uomini moderni, persone sagge e illuminate, sono sia maschi che femmine!».
«Che bello, mi piace sentire queste storie e vedere i volti di queste pietre, me le stai mostrando come fossero vive… ! Anche se io devo ancora capire molte cose di tutto quello che hai detto. Mi spieghi perché quelle due pietre, scusa, Menhir, sono lontane dalle altre?».
«Loro sono un maschio e una femmina, sono soprannominate “Gli amanti”, un prete e una suora che si sono innamorati! Ma la Religione lo vieta e quindi sono stati pietrificati!».
«O poverini! Non so cosa significa essere innamorati ma deve essere una cosa piacevole. E non so nemmeno cosa facciano insieme un maschio e una femmina, so solo che mio padre ha preferito fossi asessuato per avere meno problemi. In ogni caso detesto i divieti, quindi questa signora Religione non mi piace!».
«Non piace nemmeno a noi Janas quel suo modo di raccontare ai bambini che non esistiamo. E poi ha distrutto tutta la nostra cultura antica, le nostre tradizioni. Inoltre, ci ha scambiato per streghe e molte donne come noi sono finite sul rogo. Solo perché conoscevamo i segreti delle erbe, la magia, come guarire i mali dell’anima… Per la Religione eravamo incontrollabili, sapevano guarire la gente e questo era pericoloso!».
«Suppongo che finire sul rogo non sia una cosa gradevole!».
«Ti piacerebbe essere arso vivo?».
«Oh, no! Si scioglierebbe tutto il mio metallo! E anche la plastica…».
«Insomma è proprio disumano. Per evitare che la gente avesse altri dei, sono stati distrutti gli alberi che noi adoravamo. E così sono stati bruciati i più bei Boschi Sacri della terra! Meno male che questo Bosco di Querce da sughero si è salvato. Guarda che tronchi hanno queste piante! Vedi tutti quei rigonfiamenti? Pare sia una malattia dell’albero, una specie di tumore che produce delle escrescenze, ma sono certo dei tumori benigni, perché il loro aspetto mette allegria».
«Hai ragione, queste piante sembrano piene di vita, è come se si muovessero quando il vento spira. E questi grandi bozzi le rendono eleganti e originali, una diversa dall’altra. Certo io so poco delle piante, ma qui ce ne sono tante e mi sembrano in una certa armonia con le pietre».
«Loro sono le Signore del bosco, proteggono le anime antiche nascoste in queste pietre, esse stesse sono anime antiche, se tu le osservi bene vedrai lo spiritello invisibile di ogni pianta. È una fatina come noi, ma così piccola che è difficile da distinguere. Se aguzzi la vista e fissi l’attenzione su quel ramo scorgerai una piccola porta, là dentro c’è racchiusa la fatina. La porta si apre solo se lei si sente protetta e accetta la tua presenza. Questi spiritelli sono entità pure che vogliono essere rispettate, innanzitutto attraverso il rispetto della pianta che le ospita, poi amano il silenzio, l’armonia, la luce bianca intensa o i colori dell’arcobaleno. Se io adesso canto vedrai aprirsi ogni porticina. Le fatine usciranno dal rifugio con i loro abitini di raso e seta, di petali di fiore e di fili di luna e con le loro alucce trasparenti per svolazzare intorno alla pianta da loro protetta. Sai che quest’ambiente è così puro e incontaminato che la notte ci sono tante lucciole?».

«Che cosa sono le lucciole? E queste fatine? Me le mostri? Le fai uscire un poco? Non so se cantare con la mia voce metallica può attrarle, di certo preferiscono la tua voce. Dai, mi canti ancora qualcosa?».

E la Jana intonò una melodia dolce e delicata adatta solo a chi possiede un udito fino. In quel momento si udì il suono di migliaia di campanellini e magicamente in ogni pianta si aprì una porta: da qui uscirono una moltitudine di creature incantevoli che volarono intorno alle piante. Le fatine delle querce erano tutte brune, ma i loro abiti fatti di tulle e di veli colorati erano dei più svariati modelli. Le fatine delle sughere avevano i capelli turchini e le vesti azzurrine di broccato. C’erano poi le fatine del mirto, minuscole, con i capelli rossi e i vestitini di seta viola, mentre quelle del lentisco erano bionde e vestivano veli di raso bianchi. Poi c’erano le fatine dell’ulivo, castane, con vesti di petali rossi, mentre quelle del cisto avevano i capelli dorati e le gonnelline di fili di sole.

Le più deliziose erano le fate del ginepro, con i capelli argentati e le lunghe vestine fatte di fili di luna. Insomma, lo spettacolo era unico e Catorchio, stupito ed entusiasta, esclamò:

«Non vedo l’ora di raccontare tutto al mio papà!».

«Sai che gli adulti non credono mai a quello che raccontano i bambini? Pensano siano tutte fantasie e talvolta nemmeno li ascoltano! Guarda, se ti sporgi un attimo laggiù c’è una capanna di legno. Gli umani chiamano questo luogo PranuMutteddu: è un sito archeologico molto importante per questi allineamenti di Menhir. Il paese vicino si chiama Goni e la gente viene anche da lontano per studiare queste pietre. Dentro c’è un’archeologa di nome Alessandra, con lei ogni tanto riusciamo a parlare e a farci vedere, è curiosa come i bambini perché è ancora una fanciulla. Invece vicino al muretto c’è un uomo non più tanto giovane, quello che sta lavorando quelle schegge nere d’ossidiana. Lo conosciamo da tanti anni, si chiama Sergio, ma è un tipo molto strano. Non potrebbe vivere lontano da questo posto, lui ha scavato nel terreno e ha scoperto ogni sasso di questo luogo e siamo sicure che può vederci e sentirci, eppure fa finta di niente e non ci rivolge mai la parola. È come se avesse paura di noi!».
«Io non ho paura di voi e sono certo che non ne ha nemmeno il mio papà. Lui è molto coraggioso e anche curioso, sono certo che si stupirà!».
«Non illuderti, tutti gli adulti hanno paura di vederci. Per questo non ci vogliono guardare e così si lasciano sfuggire l’essenza della vita. Noi siamo stufe di provare a distrarli, ci abbiamo creduto fino a cinquemila anni fa, poi abbiamo deciso di abbandonare il mondo visibile per rifugiarci nel Regno dell’invisibile dove ci vede e ci sente solo chi lo vuole. Tuo padre non farà di certo eccezione!».
«Ma lui è uno scienziato e io ho molta fiducia in lui…».
«Vabbè, ma ora non vuoi parlare con queste fatine? Non vuoi chiedere loro come si chiamano e che cosa hanno da dirti?».
«Oh sì, mi piacerebbe tanto!».

«Io son la Jana Gina
e sono la Regina
del Regno di Fatine
sia grandi che piccine.

Ora te le presento
cerca di stare attento
prova ad udire il canto
e sentirai l’incanto»:

«Io sono Raffaella
son veramente bella
nella Quercia son nata
dentro un guscio di fata.

Dei miei veli arcobaleno
questo popolo va fiero
rappresentano le tracce
della nostra vita in Pace».

«Io sono Maria Sole
sono del color di viole
son posta a protezione
del Mirto ogni stagione

La terra il cielo e il sole
sono la mia passione
nel mondo di magia
io porto l’Armonia
».

«Il mio nome è Piera
son la fata sincera
vivo dentro al Lentisco
con il mio volto vispo.

Nella mia chiara veste
faccio promesse oneste
tra raso bianco e veli
di Sogni e Desideri».

«Sono la fata Pina
son gialla di mattina
dimoro dentro al Cisto
è bello averti visto.

Ho la chioma dorata
come s’addice a una fata
amo i raggi del sole
ti rendo caldo il Cuore
».

«Io invece sono Rita
non riesco a stare zitta
qui dentro al bell’Ulivo
intensamente vivo.

Son l’appassionata
della stirpe di fata
rossa come la Luna
porto da te Fortuna».

«Eccomi son Lucina
sono molto carina
nella veste verdina
ogni virtù cammina.

Vivo dentro un Carrubo
sorrisi e baci rubo
amo Madre Natura
la tua patria Futura»..

«Io mi chiamo Mimma
non te l’ho detto prima
sono l’anima del Noce
senti che bella voce.

Fata dell’arancione
coltivo l’illusione
o forse la missione
della tua Evoluzione».

«Il mio nome è Serena
mi sveglio di gran lena
ho la bacchetta dorata
e la vestina argentata.

Spirito del Ginepro
d’ogni suo fiore fresco
sono elegante e ho stile
t’insegno a esser Gentile
».

«Se mi chiami son Vera
sono la Fata Nera
madre d’ogni colore
e strega dell’Amore.

Dimora ho nel Cipresso
e con la fine ho un nesso
ti dono un nuovo Inizio
col sole di Solstizio
».

«Io invece son un Mago
la notte un poco vago
tra Viola e Isabella
nel cuore di una stella.

Il mio vestito è blu
non so cosa vuoi tu
abito nell’Alloro
e ogni Fata adoro».

Catorchio era trasognato e felice, salutava ogni fata con rispetto ed era così attento che non perdeva né un gesto né una parola. Rimase un poco stupito quando comparve il mago, ma poi accettò subito quella diversità e sorrise soddisfatto. La Jana si fece avanti e gli disse:

«Oggi hai imparato tante cose, adesso torna a casa e inizia a riflettere su quanto hai visto. Noi apparteniamo a universi diversi, ma se presti attenzione puoi passare da un mondo all’altro. Se tu lo vuoi puoi conoscere ogni segreto, se non hai paura puoi penetrare ogni mistero e se hai fiducia puoi scoprire immensi tesori. Ognuna di queste fatine nasconde un segreto che tu puoi conoscere, ma adesso è l’ora del tramonto e io torno nel sottosuolo, ho bisogno di riposare. Benvenuto nella nostra Terra Antica che raccoglie i misteri degli originari abitanti dell’Isola».

E dopo aver detto queste parole la Jana scomparve come una nebbiolina che si dissolve al vento. Catorchio cominciò a sentire un fame immensa e cercò disperatamente la strada di casa. Percorse a ritroso tutto il cammino fatto all’alba e quando giunse accanto alle mura domestiche chiamò suo padre con tutto il fiato che poteva:

«Papà, apri! Sono tornato!».

Lug sentì subito la voce di Catorchio. Era nel suo laboratorio, stremato dopo aver inutilmente girovagato tutto il giorno alla ricerca del suo pupillo. Era l’ora del crepuscolo e corse subito ad aprire. Appena vide Catorchio con il suo volto ingenuo e solare non ebbe la forza di sgridarlo, ma lo prese subito tra le braccia per constatare che non fosse danneggiato. Catorchio non lo fece nemmeno parlare ed esclamò:

«Ho una fame tremenda!».

Lug aveva fatto un sacco di provviste per cui gli chiese:

«Preferisci un’anatra arrosto o un cinghiale allo spiedo?».
«Voglio il cinghiale e anche un piatto di patate!», rispose immediatamente Catorchio.
«D’accordo, adesso ti preparo tutto. Nel frattempo tieni un pezzo di formaggio e un po’ di moscato per ammazzate il tempo».
«Ho anche una grande fame di dolcetti, almeno dieci pezzi e tutti farciti di crema!»
«Ma come fai a mangiare così pesante? Accidenti! Dovrò inserirti delle informazioni su cibi più leggeri, magari più adatte ai tuoi circuiti delicati. Dovrò anche progettare un modo per renderti stagno, che se cadi nell’acqua sono guai! Si può sapere dove sei stato oggi?».
«Oggi? È stata una giornata S T R A O R D I N A R I A ‘mammoy’! Bla, bla, bla…».

E raccontò a Lug – che ormai sarebbe diventato per sempre ‘mammoy’ – per filo e per segno ogni particolare di ciò che aveva visto e imparato non perdendo nemmeno una parola delle filastrocche che gli avevano cantato le fatine. È vero che i bambini ricordano anche le minuzie se ciò ha acceso la loro fantasia, ma i robot – naturalmente un bambino d’acciaio è un R O B O T – possono registrare ogni parola o sospiro di quanto succede, nulla sfugge al loro controllo…

La notte incombeva e Lug era molto stanco, mentre Catorchio sembrava non avvertire alcuna stanchezza. Dopo aver divorato la cena con la voracità di un branco di lupi affamati, chiese a Lug notizie sulla Luna, gli astri, i pianeti, le stelle e su tutto lo scibile in materia di astronomia che può interessare un cucciolo di robot. Quella notte Lug provò a staccargli un meccanismo per farlo dormire un poco e poi precipitò in un sonno profondo.

Ma non era un dio direte voi bambini? Ogni genitore, in effetti, è un dio finché non perde la sua pazienza…

Quando Catorchio si sveglierà

fermo non potrà stare di là

sotto il controllo del genitore

chiuso soltanto a contare le ore.

 

L’Isola è grande e piena di svaghi

siti archeologici,fatine e maghi

mare, montagna e macchia nascosta

un patrimonio dal centro alla costa.

 

Per un bambino curioso è bellezza

sia l’esplorare, sia una carezza

vuole conoscere tutto del mondo

a destra, a sinistra, in alto e in fondo.

 

Abbia pazienza il suo ‘mammoy’

lo lasci stare per i fatti suoi

di ritornare ha sempre bisogno

e che nessuno gli rubi il sogno!

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