di Dario Dessì
Secondo un articolo pubblicato giovedì 30 ottobre 2014 nel quotidiano La Nuova Sardegna la Marina Militare in collaborazione con il Ministero dei Beni Culturali, nell’ambito delle attività previste per commemorare il centenario della Grande Guerra, hanno deciso di esplorare, a 500 metri di profondità, il piroscafo Tripoli, dove giace da una lontana notte del mese di marzo del 1918, quando fu affondato al largo di Capo Figari da un siluro lanciato da un sommergibile tedesco, mentre era in navigazione tra Golfo Aranci e Civitavecchia. La ricerca sarà affidata al cacciamine Vieste con a bordo due robot ultramoderni ROV (Remoted Operated Vehicles), veri gioielli della Marina Militare, che saranno impiegati per filmare e ispezionare il relitto. Saranno così commemorati, a distanza di quasi un secolo, l 288 passeggeri militari e civili, caduti nel corso della 1° Guerra Mondiale.
La Storia
La Sardegna era troppo distante dai fronti del Veneto dove si combatteva la guerra e pertanto il sacrosanto diritto dei soldati sardi alle licenze invernali o a quelle straordinarie, che venivano concesse in determinati periodi dell’anno, quando era necessaria un’adeguata presenza maschile adulta per la semina, il raccolto e per tante altre incombenze nei campi e nei pascoli in montagna o in pianura, veniva spesso disatteso ed obliato. Ma, ecco che cosa capitò a quei rari e fortunati combattenti sardi che riuscirono ad usufruire di una licenza invernale, senza dubbio concessa a titolo di premio perché si erano distinti per atti di coraggio e di abnegazione durante gli attacchi rischiosi e spregiudicati alle imprendibili posizioni nemiche nel corso della Battaglia dei Tre Monti sull’Altopiano di Asiago. Era appena trascorsa la prima metà del mese di marzo del 1918 e stava per concludersi il terzo anno di guerra, quando sull’unica banchina del porto di Golfo Aranci, poco più a nord di quello di Terranova (l’attuale porto di Olbia), si ammucchiarono, in attesa dell’imbarco, centinaia di soldati, in procinto di ritornare al fronte dopo aver trascorso una breve licenza invernale nelle loro case assieme alle loro famiglie. Per questioni di sicurezza, dato che il mar Tirreno era infestato da sottomarini tedeschi, navi speciali della marina militare, con una scorta adeguata, avrebbero dovuto provvedere al trasporto dei soldati, ma quella sera, per l’imbarco, c’era il Tripoli, un normale postale di linea, che faceva la spola quotidiana tra la Sardegna e Civitavecchia per assicurare il trasporto di passeggeri e di merci tra l’isola e il continente. Per il collegamento marittimo tra la Sardegna e l’Italia, oltre al Tripoli, che aveva una stazza di 1743 tonnellate, venivano impiegati anche il Bengasi di 1754,29 tonnellate e il Derna di 1749,39. Le tre navi, che costituivano una preda bellica, ricevuta dall’Italia alla fine della guerra libica, nel 1912 erano entrate in cantiere a Palermo per essere sottoposte a opere necessarie di ristrutturazione. Inspiegabilmente il Ministero dei Trasporti aveva sostituito i tre piroscafi Caprera Sassari e Cagliari, la cui velocità media era pari a 17 miglia, con quelle navi malandate e alquanto vulnerabili, che raggiungevano una velocità media pari a 13 nodi, ulteriormente ridotta nel periodo bellico, sia per limitare i consumi, sia per l’impiego di carbone di pessima qualità. Come risultava dai registri di bordo il Tripoli, una ex nave ospedale della marina turca, oltre ai 60 membri dell’equipaggio, era in grado di trasportare 341 passeggeri, così distribuiti nelle tre classi: 16 nella 1°, 19 nella 2° e 341 nella 3°. Tuttavia, in quella domenica di marzo, il Tripoli avrebbe viaggiato sovraccarico con ben 457 passeggeri, dei quali 379 militari ed appena 18 civili, usufruendo della scorta dell’incrociatore ausiliario Principessa Mafalda. Il postale partì alle 8 della sera. I cameroni in basso, a pelo d’acqua, erano sovraffollati, ma i soldati non persero tempo ad iniziare festeggiamenti e baldorie con le svariate cibarie e bevande che erano state preparate con amorevole cura dalle loro donne. Agli spuntini seguirono immancabili i canti e i cori tradizionali della Sardegna, accompagnati da qualche armonica a bocca, e poi, le interminabili ed animate contese al gioco della morra. Dopo appena due ore di navigazione, inspiegabilmente, ecco che l’incrociatore Mafalda interrompeva la sua missione di scorta. Il comandante tenente di vascello Galazzetti, incurante dei rischi cui andavano incontro il Tripoli e le persone imbarcate, aveva deciso di invertire la rotta per rientrare nel porto di Golfo Aranci. Dopo altri 20 minuti di navigazione, ad appena venti miglia da Capo Figari, poco ad est dal porto di partenza, ecco un boato, seguito da una tremenda scossa e dalla scomparsa delle luci a bordo del Tripoli. Un siluro aveva colpito la sala macchine. Al radiotelegrafista di bordo, che non aveva di certo perso tempo nell’inoltrare le richieste di soccorso, arrivò una pronta risposta da Tolone e nessun segnale invece da La Maddalena che distava poche miglia marine dal punto in cui la nave si era fermata. Per fortuna non soffiava un alito di vento e quindi c’era la possibilità di calare le sei lance e le quattro zattere in dotazione, dove avrebbero potuto trovar posto ben 450 naufraghi. Il comandante della nave, Giuseppe Paturzo, invece di provvedere a rassicurare i passeggeri, ad assicurare l’ordine e a organizzare il salvataggio, si preoccupò di abbandonare la nave, tra i primi, precipitandosi a bordo di una lancia, dalla quale continuava ad urlare: “La nave affonda mettetevi in salvo fratelli”. A quel grido molti a bordo della nave passarono repentinamente da uno stato di gioiosa euforia, causato dalle copiose libagioni, alla brusca consapevolezza di un pericolo imminente dal quale scarse ed incerte erano le probabilità di scampo. E, ben presto, in una situazione indescrivibile di confusione, accentuata ancora di più dal buio più assoluto della notte senza alcun barlume di stelle e di luna, il panico non tardò a prendere il sopravento, annullando qualsiasi reazione logica nella mente dei passeggeri, compresi quelli più raziocinanti. E, così in men che non si dica tutti si agitarono, a tentoni nel buio, nel tentare di raggiungere le scialuppe di salvataggio, dove i più riuscirono a salire senza disporre delle minime conoscenze sulle modalità con cui dovevano essere calate in mare. Alcune funi di sostegno vennero, pertanto, recise in modo maldestro, provocando in tal modo una rovinosa caduta dei battelli che finivano col ribaltarsi, scaraventando in acqua i suoi occupanti, oppure lasciando che il mezzo rimanesse penzoloni, appeso per la prua o per la proda al paranco di sostegno, in modo da provocare prima o poi, immancabilmente, la caduta dei naufraghi, quasi tutti stretti ed avvinghiati l’uno all’altro, in mare. Erano intanto trascorse due ore dalla partenza e la nave si trovava ancora a galleggiare in attesa dei soccorsi. Secondo una nota dell’Ammiragliato, non del tutto attendibile né verificabile, la stazione radiotelegrafica di La Maddalena avrebbe ricevuto il messaggio del Tripoli soltanto 22 minuti dopo la mezzanotte. Ma, ecco come furono organizzati i soccorsi con le tre navi militari che erano ormeggiate nel porto di Golfo Aranci: l’incrociatore Mafalda appena rientrato dalla sua missione di scorta e una nave pattuglia salparono, quando mancavano 25 minuti all’una, mentre il Fulmine, che era un cacciatorpediniere in riparazione ed aveva pertanto i motori spenti, dovette rimandare la partenza alle cinque del mattino. Il Tripoli, intanto, dopo essere riuscito a galleggiare per ben quattro ore, si era inabissato alle due e trenta. Un ora dopo, finalmente, ecco arrivare la nave appoggio e l’incrociatore Mafalda. A bordo di quest’ultima, dopo due ore di ricerca, furono tratti in salvo appena 35 naufraghi. S’intravedevano già le prime luci dell’alba, quando i sopravissuti a bordo di alcune lance e zattere che stavano andando alla deriva, con somma costernazione, si resero conto che l’incrociatore Mafalda stava scomparendo sull’orizzonte a grande velocità. Nel frattempo un altro postale, il Bengasi, stava navigando senza scorta, seguendo la rotta inversa del Tripoli. A diciotto miglia da Capo Figari, quando ormai s’intravedevano in lontananza le coste sarde, un sommergibile tedesco lanciava, a distanza di venti minuti l’uno dall’altro, due siluri, che per fortuna non colpivano la nave. Subito il Bengasi aumentava la velocità e cercava con alcune cannonate di dissuadere il sommergibile da un’ ulteriore attacco. All’udire quelle cannonate il comandante dell’incrociatore Mafalda, convinto di essere in procinto di subire un attacco da parte di un sommergibile nemico, deci
deva di darsi alla fuga, tralasciando di portare a termine l’operazione di recupero dei naufraghi. Soltanto alle sette e trenta del mattino il vetusto cacciatorpediniere Fulmine, riusciva ad arrivare nella zona dell’affondamento del Tripoli e a portare in salvo altri cento superstiti. Un destino ineluttabile aveva riservato a quei trecento soldati sardi e più non la gloria e la morte in combattimento in un qualunque fronte o trincea del Veneto, ma l’ immolazione, quasi simbolica, negli abissi del mar Tirreno, non troppo distanti dalla loro terra. La successiva interruzione dei collegamenti con la Sardegna, durata una ventina di giorni, portò il caos nei trasporti e nelle comunicazioni. In seguito per disposizione governativa i piroscafi per il continente, ridotti a due: il Bengasi e il Derna, viaggiarono a giorni alterni e solo nelle ore diurne. Ma intanto i soldati sardi continuavano ad essere mandati in licenza in Sardegna. Antonio De Cesare scrisse che, per otto lunghi giorni, ben 5000 soldati affollarono Civitavecchia, il porto d’imbarco per la loro terra d’origine, in attesa di un qualche nave in partenza per l’isola. Nel frattempo rimanevano ammucchiati sui marciapiedi, sui portoni, sotto gli alberi. Avevano speso le poche lire messe da parte; una minestra era arrivata a costare ben quattro lire, senza che le autorità ponessero freno all’ingordigia di chi speculava sulla situazione. “Sono soldati ridotti alla fame e da poco hanno tumultuato con tale violenza che dubito torneranno ad essere quelli di prima”. Riferì un testimone. Non furono, allora, diramati bollettini, né ci furono citazioni per quegli intrepidi sardi, ma addirittura, la tragedia del Tripoli venne completamente ignorata dai giornali nazionali. Dei 63 membri dell’equipaggio si salvarono in 38, dei 376 militari appena 147, dei 18 passeggeri civili solo 4. Trascorsero alcune settimane, quando il 20 Aprile del 1918 fu l’Agenzia Stefani a diffondere la notizia del tragico avvenimento e ad annunciare l’apertura di un’ inchiesta. Le indagini misero in luce la codardia e la negligenza del comandante della nave addetta alla scorta del Tripoli e la deplorevole disorganizzazione dei servizi di comunicazione e di soccorso. Il siluramento del Tripoli è documentato nella busta 16/2, fila R/51, custodita nell’Archivio di Stato di Sassari. Dei 129 militari che persero la vita negli abissi del mar Tirreno ben 15 appartenevano alla Brigata Sassari.
Soldato ARRE Giovanni 152° nato ad Ottana
“ CASU Antonio “ nato a Senorbì
“ CHISU Efisio “ nato a Orosei
“ CONGIA Francesco 152° nato a San Gavino Monreale
Soldato DEIANA Giovanni 151° nato a Lula
“ FANCELLU Angelo 152° nato a Nulvi
“ GARAU Salvatore “ nato a Nurri
Caporale MAMELI Antonio “ nato a Ghilarza
Soldato MAXIA Giuseppe “ nato a Cagliari
“ MURRU Ignazio 151° nato a Oristano
“ PIREDDA Luigi “ nato a Siniscola
“ PISCI Giuseppe “ nato a Sanluri
“ PORCEDDU Angelo 152° nato a Selegas
Caporal maggiore PORTAS Efisio 151° nato a Sanluri
Sottotenente PULIGHEDDU Mario “ nato a Oliena
Ed ecco ancora alcune informazioni sulla sorte del Tripoli tratte dal libro: “L’ Affondamento del Tripoli”, scritto da Enrico Alessandro Valsecchi (Fratelli FRILLI Editore)) Solo dal posto di controllo costiero militare del faro di Capo Figari era stato inviato un messaggio alla stazione radio di Caprera: “Sentiti colpi di cannone molto lontani in direzione est”. In un primo momento la comunicazione sembrò uno dei tanti avvisi che in numerose altre occasioni si erano rivelati falsi allarmi. Questa volta preoccupava il fatto che la nave di scorta armata Principessa Mafalda, a causa dello stato del mare, alle 22,00 avesse invertito la rotta per far rientro a Golfo Aranci. Quella notte il piroscafo postale Tripoli, con a bordo cinquecento passeggeri, tra cui molti militari, che stavano rientrando al fronte dopo la licenza, si ritrovò a navigare senza scorta a una ventina di miglia dalle coste sarde in direzione di Civitavecchia dove non sarebbe mai approdato. Un siluro lanciato da un U-Boot tedesco lo aveva colpito su un fianco e il piroscafo era affondato in meno di quattro ore. Correva l’anno 1918, pochi mesi dalla fine della Grande Guerra, quando fu aperta una pagina di storia che, sebbene sia trascorso quasi un secolo, rimane in parte ancora avvolta nel mistero, continuando ancora ad appassionare gli studiosi per i numerosi interrogativi aperti: Perché fu attaccato il Tripoli, una nave passeggeri? Perché la nave di scorta commise una serie di errori gravissimi ritardando il salvataggio di molti naufraghi che perirono nell’oscurità? E’ possibile che l’agguato fosse stato pilotato dallo spionaggio di presunti infiltrati in Sardegna? E, ancora: Il sommergibile, di cui non si era mai conosciuta l’identità, aveva preparato l’agguato con il supporto di basi segrete nemiche operative in qualche cala della costa sarda? Quali responsabilità ebbe il grande ammiraglio della marina tedesca, Alfred von Tirpitz, propugnatore della guerra sottomarina e sino a quella tragedia considerato un estimatore della Sardegna? Decisamente lodevole l’iniziativa intrapresa dalla Marina Militare e dal Ministero dei Beni Culturale, soprattutto per ridestare al ricordo quelle vittime di un tragico destino, che riposano da quasi un secolo in fondo al mare, non lontano dalla costa nord-orientale della Sardegna.