L’OSPITALITA’ E’ SOLO DEI SARDI? S’ACCOMODINO SIGNORI, ALLA SAGRA DEL LUOGO COMUNE E ALLA BANCARELLA DELL’AUTOINCENSO


di Alberto Mario DeLogu

I sardi sono un popolo ospitale… I sardi sono un popolo schietto e sincero… Per conquistare l’amicizia di un sardo ci vogliono anni, ma se ci riesci ti sarà amico per la vita… Il sardo è uno che dice pane al pane e vino al vino… Il sardo è un duro dal cuore tenero… Sono sempre i migliori quelli che se ne vanno per primi… Non ci sono più le mezze stagioni… Non c’è più rispetto per gli anziani… Eccetera. S’accomodino signori, alla Sagra del Luogo Comune e alla Bancarella dell’Autoincenso. Dovunque nell’isola, nei piccoli centri come nelle città, tra le fasce medie ed alte della popolazione ma anche tra la gentuja, l’autoincenso non bada al censo. S’annida tra le pieghe del vetero-maestrinato ammuffito e nelle piaghe da decubito del ceto archeo-impiegatizio, come pure tra le avanguardie proto-sindacali e le punte d’eccellenza della classe prenditoriale. Il luogo comune in Sardegna è come il cisto: ubiquo, invasivo, prospera sul terreno incolto ed è indigesto persino alla pecora. Il fuoco non lo sfianca, anzi, lo aiuta persino a germinare. E come per il cisto, nessun terreno ne è immune: il pascolo degradato come l’allevamento ben gestito, la sughereta come l’erbaio di medica. E all’ombra di questo cisteto tristo ma florido la classe urbana dell’isola ha coltivato negli ultimi decenni la convinzione che ospitali, sinceri ed onesti come noi non c’è davvero nessuno al mondo, che le nostre schiette virtù siano inscritte nel nostro genoma come la talassemia o il favismo, ed anzi, di più, che è proprio la terra, la nostra madre terra (lei pure ospitale, sincera ed onesta), è proprio lei che ci fa essere così meravigliosi. Che bellezza. Sarà tutto vero? Andiamo per ordine. Cominciamo dalla prima tra le virtù genealogali sarde: l’ospitalità. Per curiosità sono andato a controllarmi le brochures turistiche in linea di alcune delle isole più celebrate e frequentate al mondo: Sicilia, Creta e Maiorca nel Mediterraneo; Barbados e Santa Lucia nei Caraibi, Maldives e Mauritius nell’Oceano Indiano. Hanno tutte un indirizzo interne. Sono andato a scovare su ognuno di questi siti il profilo turistico dell’isola in questione, e ho notato che dappertutto, senza alcuna eccezione, la popolazione locale viene presentata come “ospitale”, “aperta”, “amichevole” e così di seguito. Che bellezza. È un mondo eccezionalmente ospitale il nostro, e siamo circondati da mari ed oceani punteggiati da isole felici nelle quali gli ospitali e giocondi abitanti sanno mirabilmente unire passione tropico-mediterranea ed efficienza sassone, i servizi sono sempre moderni, i giardini sono sempre in fiore, il clima è sempre dolce e le donne sempre disponibili. Con rispetto e discrezione, certo, ma disponibili. E gratis. E si innamorano pure. E secondo me, se esiste un Dio della Vacanza, una sorta di Assessore Universale al Turismo, si fa tante di quelle grasse risate – sardoniche, siculiane, cretoniche o barboniche, a seconda dell’isola – quando legge queste stronzate. Torniamo sulla virtù dell’ospitalità sarda. Che avrà di diverso la nostra isola rispetto alle mille altre isole eruttate su e giù per i mari del mondo? In che cosa la nostra ospitalità è diversa da quella che ammorba i depliants turistici delle isole consorelle? Sono dell’avviso che l’ospitalità sarda è messa in scena allo scopo di confermare lo status quo, rinserrare i valori ed i confini, mantenere all’esterno tutto ciò che è estraneo, e chiudere all’interno su connottu. Cioè noi, i nostri modi di vivere, parlare, mangiare e litigare, le abitudini e tutto ciò che ci è noto. L’ospitalità sarda sia un’apparecchiata volta a suscitare ammirazione e a solleticare l’orgoglio dell’ospitante. È un’ospitalità che ha ben chiari i ruoli e che non li mescola. Tu ospite, io anfitrione. Tu dormi mangi e bevi a sazietà, io faccio in modo che tu non debba muovere un dito. Tu stai al tuo posto e godi delle mie mollezze, ma non puoi e non devi mettere il naso nella mia vita, nel mio frigorifero, nel mio sistema di credenze. L’ospite in una casa sarda non discute e non s’intromette, non può neanche decidere che fare delle ore della sua giornata, è in libertà vigilata e giusto dev’esser grato per la concessione degli arresti domiciliari.  L’anfitrione sardo, da parte sua, deve trarre il massimo profitto d’immagine dai 3-4 giorni in cui vi avrà come ospiti (non di più, il clima in Sardegna è torrido e il pesce qui puzza uguale). Mezza settimana contata per darvi un saggio di quanto è maschio rotto-a-tutto, di quanto quest’isola ami civettare col crimine violento, di quante roncole, pattadesi, fucili, pelli d’agnello, formaggi, prosciutti o damigiane d’ottimo aceto abbia in cantina, di quanto cucini bene la moglie, di quanto sia spaziosa la sala da bagno con la rubinetteria tardo-baroccocò e di quanto sia elegante il servizio di Faenza bordato d’oro che sta rinchiuso dentro il credenzone chippendale del glaciale salone di rappresentanza. L’ospitalità sarda, non m’incanta. Preferisco quella tipo macho-camping degli americani, che un finesettimana sul moquettone del salotto non lo si nega a nessuno e per sdebitarti basta un six-pack di Heineken, oppure quella dei francesi, che se hai fame, apri il frigorifero e sèrviti, e se non c’è niente vai a fare la spesa. L’ospitalità sarda è una meraviglia se non hai altro da fare, se sull’isola devi passarci solo una settimana, se dopo l’estate monti su un aereo e voli via, se tutto questo non ti riguarda ma ti sembra tutto così simpatico e pittoresco, se la dittatura del lenzuolo di lino inamidato, il totalitarismo del maialetto macellato-solo-per-voi e l’autocrazia delle giornate sotto piantone non ti sfiancano e non risvegliano il Robespierre che dorme in te. Se le cene accompagnate da conversazioni vuote come un centro storico a Ferragosto e impalpabili come polvere di Fissan non ti danno acidità di stomaco, se il silenzio non ti mette a disagio e fare il porcellino d’India sotto la lente del neurofisiologo non t’imbarazza, allora forse l’ospitalità sarda fa per te. Quando vivevo in Sardegna venivo invitato spesso a cena da amici, compagni d’università e colleghi di lavoro, gente di ogni censo, provincia, cittadina e paese. Belle case di trachite o granito, grandi famiglie con nonni e zii, in paesi benedetti da Dio, circondati da sontuose campagne e da boschi freschi e suadenti. Tutti gli ingredienti del Paradiso. Poi varcavo la soglia, salutavo composto, stringevo qualche manona di legno, qualche manina di budino, la mano calda e tremante della nonna, e sorridevo ben contento. E lì il paradiso cominciava a scolorire in purgatorio. Nei paesi benedetti da Dio nessuno sorride, è cosa sconveniente. Tra i boschi suadenti nessuno è contento, è cosa irresponsabile. Insomma, l’isola non si tocca, piova o tiri vento, il mio anfitrione non si scompiglia i capelli. Se anche gli si fosse seccato e poi andato in fiamme il vigneto, di certo non lo verrebbe a dire a me, che sono sì un sardo, ma vengo “da fuori”. Ed in quanto tale, soggetto al blasfemo pensiero che “fuori” possa essere meglio che qua.

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2 commenti

  1. Alberto Mario più caustico del solito…con una sana botta di realismo…

  2. Gran bel scrivere Alberto Mario. Un po di autocritica non puo che farci bene.

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