LIMBA TRA DIDATTICA E STANDARD: UNA MELA AVVELENATA PER LA LINGUA SARDA


di Andrea Deplano

Ormai da qualche anno chi scambia corrispondenza commerciale scritta con Spagna e Francia, avrà notato una scelta ortografica “gentile”, tesa ad evitare problemi agli stranieri che scrivono nelle lingue dei paesi citati. Le società multiculturali e plurilingui di quegli stati scelgono di omettere gli accenti e scrivono la parola nella nuda forma grafica aggirando così i problemi di apertura e chiusura delle vocali e perfino prestando il fianco all’errore grammaticale fra a e à (in fr.), come dire fra a e ha (in it.). Un serio problema sociolinguistico richiede una soluzione drastica e tuttavia, la letteratura in lingua francese o castigliana, e i corsi di lingue, osservano minuziosamente le regole dello standard ufficiale maturato nel corso di secoli. La legge italiana 482 fu una mela avvelenata per la lingua sarda: la richiesta che il sardo fosse uniformato in uno standard avrebbe certamente diviso gli scriventi. La scelta di una forma grafica univoca per gli atti amministrativi della RAS, fu una adeguata risposta politica. Prevalse la LSC ma qualunque artifizio, proprio perché tale e funzionale ad uno scopo, sarebbe stato equivalente: esso non avrebbe trovato riscontro nella società dei parlanti (forse fra alcuni scriventi) e non solo per le soluzioni grafiche ma anche per il lessico che veicola.  Il tentativo, neanche malcelato, di imporre quello standard nella scuola mi trovò strenuo oppositore per motivi di natura pedagogica che hanno origine nei processi di apprendimento e insegnamento delle lingue. Oggi si scopre l’importanza di costruire la competenza linguistica attiva del sardo tra i bambini nei villaggi come nelle città. Io l’ho fatto, a Cagliari, fin da venticinque anni fa. La sonorità della lingua familiare, il codice dell’appartenenza identitaria in un perfetto equilibrio bilingue hanno reso mio figlio pienamente sardofono quanto italofono. L’apprendimento del sardo di mio figlio non è passato attraverso la mediazione con l’alfabeto e la scrittura del sardo. Egli ha sentito e ripetuto suoni e parole della lingua del proprio padre e questo lo rende capace di interagire appieno con ogni sardo parlante, settentrionale o meridionale. Così l’organizzazione del suo pensare è sarda nella sua dimensione di appartenente all’identità culturale isolana e italiana nella visione di chi abita e respira la lingua dello stato nazionale. Naturalmente ciò ha anche facilitato la certificata competenza attiva dell’inglese e del francese. Il riscontro di una coerenza fonologica e lessicale che egli ha potuto verificare nella parlata dei componenti sa familia, su bichinadu, sa bidda ha prodotto la sua competenza linguistica: non gli artifizi delle convenzioni. L’ingresso del sardo nella scuola attraverso una proposta linguistica che non avesse riscontro nel parlare degli abitanti del luogo finirebbe per distanziare i giovani sardi dal parlare e li costringerebbe invece allo studio di una lingua “straniera”. È quanto puntualizzato in pubblicazioni su carta e Cd-rom negli scorsi vent’anni. Quanto all’assunzione di uno standard per veicolare il sardo, solo la scelta di una “forma linguistica aperta”, sul piano lessicale, potrà garantire che si affermi in modo naturale un codice capace di accomunare l’intera isola di parlanti mentre lo sforzo per la invenzione del migliore standard realizzato “a tavolino” può essere il pregevole feretro per una lingua morta. Continui pure la pubblica amministrazione a servirsi di un codice proprio come il burocratese ma attivi ogni buona prassi per la diffusione del sardo nella società profondendo energie e mezzi perché si torni a pensare e a parlare sardo e uniformare con la pratica la lingua del futuro, come successe in ogni civiltà.

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